lunedì 14 luglio 2014

Peatar e Urukh

L’autunno correva per i prati seminandoli d’oro, il bosco di faggio invece, quella bizzarra stagione, si divertiva a colorarlo con le fantasie più ardite, come nemmeno il più visionario tra i pittori avrebbe potuto immaginare. Peatar fumava piano sulla porta di casa, le albe autunnali gli portavano sempre quella strana voce di cui non capiva bene l’origine, una voce come di lontano che lo chiamava dal fondo della foresta.

In fretta, doveva correre più in fretta, anche se l’aria fredda voleva fargli scoppiare i polmoni, anche se sentiva le gambe farsi di pietra; sempre più in fretta se non voleva perderli di vista; i primi stavano già scavalcando la collina e lui era ancora dentro il bosco. Ah, ma non era sempre stato cosi, si ricordava ancora quando era lui a correre davanti a tutti, a quel tempo se ne guardavano bene dal contrastargli il passo, sapeva lui come farsi valere. Di tutto quel futuro, oggi gli era rimasto solo la forza degli occhi. Era vecchio, e lo sapeva, anche se non lo avrebbe mai ammesso davanti agli altri.

Finalmente la lunga salita nel bosco finì e Khj2 (cosi lo chiamavano gli uomini, ignorando che il suo vero nome fosse Urukh) poté fermarsi per un istante, tirare il fiato e guardare le mille luci, sotto di lui nella valle; da qualche giorno poi quelle luci erano diventate ancora di più, e più colorate, quelli là avevano qualcosa da festeggiare nel tempo di mezzo tra autunno e inverno. Nessuno lo aspettò e in un attimo si ritrovò da solo, aveva fatto tutta quella fatica per niente, tutto quel fiato a ramengo. Urukh (noi lo chiamiamo con il suo vero nome) esitò; continuare solitario la corsa verso gli stabbi là in basso, oppure ritornare? A dare ascolto agli uomini avrebbe dovuto urlare tutta la sua rabbia e la sua frustrazione contro la luna, ma lui non era fatto così, amava il silenzio, e nel silenzio sentiva una voce diversa dalle altre, si sentiva chiamato.

Passi... passi? Urukh annusò l’aria e rimase immobile.

Peatar aveva lasciato la strada, un’inquietudine senza nome lo spingeva verso i rovi che delimitavano il bosco.

Quando gli occhi si fermarono dentro agli occhi, sentì sciogliersi il cuore, allora era quella la voce che lo chiamava! Mugolò come un cucciolo abbandonato, un bimbo orbato di madre, sentì inutile la fierezza della sua stirpe. Un uomo e un lupo, era già accaduto quasi mille anni prima ora tornava ad accadere; un uomo e un lupo, chi dei due ammansiva l’altro? 

Andrea Nicolussi Golo
(Questi suoi racconti appariranno a breve 
sui pannelli dei sentieri nei dintorni di Luserna. 
Uno è già stato messo che guarda la Valle).

7 commenti:

  1. Scommetto Andrea che da ragazzo avrai divorato Jack London e sarai corso nella neve calandoti nei personaggi. Certe atmosfere lasciano il segno.

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    1. Potrebbe essere "Croc blanc" di Jack London, infatti, ma, a me, fa pensare, anche, a Nicolas Vanier in "Le chant du grand Nord" = Il canto del grande Nord, documentario affascinante, una storia d'amore tra uomo e natura:

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  2. ..andaloca Andrea, par starte drìo a go rabaltà la squéla dela cafelate.

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  3. Si, Gianni ma non solo... Conrad, Melville e il più amato di tutti: Emilio Salgàri... Sai alle medie la prof. di Italiano si è complimentata con mia mamma per come avevo raccontato il telefilm Sandokan... mia madre imbarazzata non sapeva, povera donna, come dire alla prof (una studiada) che noi non avevamo la televisione (allora non era una scelta radical chic ma solo dignitosa povertà) e che io quel telefilm non lo avevo mai visto. Non avevo la televisione e nemmeno molte altre cose che i mei coetanei già avevano, alcuni anche in abbondanza, ma i libri ringraziando mia madre (e mio padre) non mi sono mai mancati e nemmeno la voglia di leggere, infinitamente più forte di quella di scrivere
    Don tento il cafelate è come il pane guai butarlo! Un caro saluto Andrea

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    1. Allora, caromio, abbiamo frequentato la stessa libera scuola; fatta di libri, voli di fantasia, libertà e giovinezza. Pensati che non sono riuscito a far leggere a mio figlio l' "Isola misteriosa" di Verne, solo perché il mio libro di allora era troppo malridotto.

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  4. E Tex Willer! E Tex Willer! Chissà come saremmo diventati senza Tex? Chissà come avremmo potuto sopravvivere agli eterni pomeriggi sui pascoli senza immaginarci Tex Willer... Io per la verità io ero Tiger Jack il pard Navajo. (minoranza etnica sin da bambino) La Tora in fondo al Bisele era il nostro Gran Canyon (ricordi Don?) Tex era il solo capriccio che mio papà si permettesse e al sabato quando tornava a casa prima di salutarlo rovistavo tra la biancheria sporca in cerca dei miei sogni di Colt 45 e Winchester. Devo dire che sono stati ottimi maestri quei giornaletti se oggi non sopporto la più piccola violenza, non solo fisica, ma anche verbale, se non sopporto i prevaricatori, se ogni ingiustizia mi pesa come fosse fatta a me stesso. è stato tex! è stato Tex....
    Andrea

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    1. Sottoscrivo! E poi il Capitano Mark, un po' di Zagor e tutti quelli che riuscivo a farmi prestare, perché quelli comprati si contano sulle dita. Qualcuno più agé gravitava invece su Blek Macigno (vero Koscri?).

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