Fin dall'inizio degli anni ’60 i dipendenti della Lanerossi e di altre ditte, o meglio le maestranze più oscure e sottomesse, dovevano sottoporsi all'umiliante procedura del controllo manuale sulla persona, per scovare eventuali tentativi di sottrazione di materiale, definita con un frasario adeguato “la palpa”.
Poteva capitare che qualche poveraccio tentasse di portarsi a casa un attrezzo da lavoro, un cacciavite, una pinza o qualcosa di simile, o un po’ di filo, un pezzo di spago, una manciata di sale o quant’altro. A volte si trattava solo di una dimenticanza, una svista o un atto senza mala fede.
C’era povertà in quegli anni, poco era concesso se non il necessario per mettere insieme il pranzo e la cena che spesso consisteva in buone scodelle di “pan e cafelàte”.
Il ventennio e la guerra avevano lasciato in eredità miserie e fatiche e solo molto lentamente si era tornati a vivere, sicuramente faticando e “strussiando” come bestie.
Anche una “gonàra” di filo o qualche bottone avevano il loro valore nell’economia di sussistenza di quegli anni. Si fumavano ancora le alfa senza filtro o le nazionali comprate a numero dal tabaccaio, ma c’era anche chi raccoglieva le cicche da terra. La spesa la si faceva nelle piccole botteghe dei “casolini” e si pagava una volta al mese o alla quindicina, la somma segnata sul libretto.
Poteva capitare che qualche poveraccio tentasse di portarsi a casa un attrezzo da lavoro, un cacciavite, una pinza o qualcosa di simile, o un po’ di filo, un pezzo di spago, una manciata di sale o quant’altro. A volte si trattava solo di una dimenticanza, una svista o un atto senza mala fede.
C’era povertà in quegli anni, poco era concesso se non il necessario per mettere insieme il pranzo e la cena che spesso consisteva in buone scodelle di “pan e cafelàte”.
Il ventennio e la guerra avevano lasciato in eredità miserie e fatiche e solo molto lentamente si era tornati a vivere, sicuramente faticando e “strussiando” come bestie.
Anche una “gonàra” di filo o qualche bottone avevano il loro valore nell’economia di sussistenza di quegli anni. Si fumavano ancora le alfa senza filtro o le nazionali comprate a numero dal tabaccaio, ma c’era anche chi raccoglieva le cicche da terra. La spesa la si faceva nelle piccole botteghe dei “casolini” e si pagava una volta al mese o alla quindicina, la somma segnata sul libretto.
La televisione era appena apparsa solo nei bar e richiamava stuoli di fanatici che poco capivano la lingua italiana, ma che impazzivano per Mike Bongiorno.
Sulle strade erano ancora tanti i trasporti con gli animali e tra sassi, buche e “petolòti”, bisognava stare attenti se si voleva arrivare indenni alla fine del percorso.
Gli inverni erano lunghi e rigidi e l’unica stanza riscaldata dalla stufa a legna era la cucina. Il cesso era un “casotélo” sull’orto spesso vicino al “luamàro”, se andava di lusso era di muratura, di lamiere, o di “tole”, ma poteva essere di “canàri” o addirittura ci si appartava sul “socàle” della stalla.
Il bagno, si fa per dire, era un “mestélo” d’acqua riscaldata e si faceva, se andava bene, una volta la settimana e l’acqua veniva tenuta poi per fare il bucato.
Chi era fortunato lavorava in fabbrica e arrotondava coltivando un pezzo di terra e c’era chi si sfiniva nei campi raccogliendo quel poco che concedevano.
Era una economia di transizione, piano piano ci si allontanava dalla cultura contadina e si imboccava la strada dell’industria che pareva il miraggio che avrebbe portato il benessere e dava l’illusione di un riscatto sicuro.
Mio padre era stato assunto alla Lanerossi già dal 1940 e, a parte l’interruzione per il militare da richiamato, aveva attraversato gli anni della guerra e quelli del dopoguerra da quell’osservatorio, impegnato nei reparti dello stabilimento numero uno giù al “ponte Pilo”.
Era una vita dura, in mezzo agli acidi e all’umidità, al rumore e al pericolo, con una struttura organizzativa che aveva molto del rigore militare. Bisognava rigare dritti, portare estremo rispetto ai vari capi e capetti, poco era concesso al rapporto umano.
Tutti cercavano di adeguarsi, di serrare le fila, un posto di lavoro in quella ditta era una fortuna in quei momenti, si poteva mantenere la famiglia tribolando, ma con la sicurezza di uno stipendio.
L’alternativa era l’emigrazione e negli anni ’50 migliaia di uomini e donne dovettero prendere una valigia e andare lontano in terre che appena si potevano immaginare o nominare.
Così l’America diventava la “Mèrica”, l’Australia “Ostralia” e via storpiando.
Quando eravamo grandicelli io e le mie sorelle andavamo incontro a mio padre che tornava in moto, una vecchia Ducati 98, dal lavoro.
Lo vedevamo arrivare da lontano, in fondo allo stradone che portava a Chiuppano da Piovene appariva come un puntino confuso dal tremolio dell’afa che poi diventava più grande per poi assumere le familiari sembianze mano a mano che si avvicinava.
Quando ci vedeva il sorriso gli illuminava il viso e noi eravamo contenti.
Ci caricava sulla moto, due a cavalcioni sul sedile di dietro e la piccola davanti sul serbatoio. C’erano poche macchine in quegli anni per strada e tanti campi intorno coltivati a grano e a vite.
Sopra il ponte filava spesso il treno delle tredici e odorava l’aria con il fumo che usciva dal camino e saliva in alto portandosi i miei pensieri da bambino.
Era forse il 1960 e ricordo un giorno pieno di luce, appena a casa lo abbiamo visto più contento del solito e sistemata in fretta la moto aprì la borsa in cui riponeva le vivande che si portava in fabbrica per la colazione.
“A ve gò portà na specialità, parché ancò zé festa”.
Estrasse la “tecéta” di smalto vuota in cui metteva di solito un po’ di minestra e sul ripiano superiore un pezzetto di formaggio e di verdura, tirò fuori la bottiglia vuota del vino che lui si faceva in casa e un qualcosa avvolto nel tovagliolo che usava nella piccola colazione.
Noi bambini eravamo tutti assorti intorno a questo inconsueto momento, solo il ronzare delle mosche nell’afa calma ridava un senso all’intorno.
Poggiò l’involucro misterioso sul muretto di recinzione e cominciò lentamente a srotolare. Passava in quel momento la corriera di Zenari carica di operai che tornavano dal lavoro e qualcuno salutò con la mano.
L’attenzione era tornata subito a quello che doveva apparire dal tovagliolo.
Ancora un giro e…apparve una bottiglietta di “Coca Cola”.
Noi restammo senza fiato, sapevamo che esisteva questa bevanda, ma non avevamo mai avuto l’opportunità di assaggiarla.
Appariva nei cartelli pubblicitari dei bar, attraente come una Circe, ma per noi restava una “roba da siùri”, roba americana.
Intanto anche mia madre incuriosita da questa piccola messa in scena si era avvicinata.
“Matèi el ga fato tirar via la palpa, doman zé n’altro jorno".
Forse mia madre subito non capì, noi ancora meno, perché in quel momento contava la bottiglia di quella bevanda misteriosa e dolce.
Poi mio padre spiegò che Enrico Mattei in visita agli stabilimenti della Lanerossi, aveva fatto togliere subito quella gogna odiata da tutti.
Raccontò anche l’emozione che l’aveva preso nel vedere quell’uomo potente che era passato tra le macchine e aveva stretto la mano agli operai.
Aveva anche voluto uscire dai percorsi che gli erano stati preparati dalla direzione, voleva rendersi conto delle condizioni di lavoro delle maestranze.
A un dipendente chiese gli spiccioli per una bibita da un distributore e la bevve.
Enrico Mattei grande Presidente dell’Eni resterà sempre nell’immaginario di tutti per questo gesto e per quella ventata di dignità che aveva portato.
Brindò anche “Jiéto Mandola” che per lui la “palpa” era diventata un incubo.
Veniva controllato quasi ogni giorno negli indumenti e anche nella borsa, persino dentro la “pignatéla” del mangiare.
Finché un giorno sull’orlo di una crisi di nervi per ribellione “cagò” dentro la pignatta.
Quando scoprirono il corpo del reato poco mancò che fosse licenziato per insubordinazione. Mio padre mi raccontava questa storia con soddisfazione e una velata ammirazione per quel ribelle dei poveri che un po’ li aveva vendicati.
Il Natale di quell’anno fu molto felice, un grande pacco arrivò dalla fabbrica pieno di ogni ben di Dio: panettone, vino, biscotti, un salame “Negronetto” una scatola di latta piena di burro marca “Galone”, un’agenda con belle figure e ricette.
Passò poco tempo e venne l’ottobre del ’62, Mattei morì in un incidente aereo nella campagna Pavese e i contorni di quella tragedia sono ancora molto controversi.
Per me quei giorni lontani hanno ancora il sapore dolce di una “Coca-cola” che mio padre ci aveva portato per festeggiare un po’ di libertà.
Maurizio Boschiero
La palpa, comme i prigionieri...quasi ! Che bella umanità !
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