C’è
un solo modo per iniziare un racconto nell’antica lingua cimbra, la
lingua con cui mia madre mi ha insegnato a parlare, la sola che ho
conosciuto prima di imparare, controvoglia, la lingua della scuola e
quella dell’ospedale: Lüsan! Mille volte l’ho tradotto con il
verbo italiano: “Ascolta” e ogni volta sentivo che non
corrispondeva. Il significato semantico era diverso, ma non capivo in
che modo. Poi un giorno ho incontrato la più sacra delle preghiere,
la più antica delle preghiere, la prima preghiera del Popolo Eletto:
Shemà’ Israel A. Eloqenu A. Echad. Veaavtà et A. Eloqekha bekol
levavekhà uvkol nafshekhà uvkol meodekha. Ascolta Israele il
Signore è nostro Dio. Il Signore è uno. Benedetto il Suo nome
glorioso per sempre. Allora, solo allora ho capito. Il mio popolo non
ha canti, non ha danze con cui festeggiare il raccolto, perché non
ha raccolti, ma racconta storie e ogni storia è una Preghiera. Il
mio popolo racconta Preghiere. Lüsan-Shemà’, la vicinanza è
ancora più profonda quando la storia che segue è una storia di
guerra, di “quella” guerra, La Grande, che non basteranno sette
generazioni per togliercela dagli occhi e dal cuore… e ne sono
passate appena tre.
Lüsan. Il povero Djitzle aveva combattuto sull’Isonzo. Ogni volta,
dopo la prima frase, il mio Barba1
si interrompeva, e sempre chiudeva gli occhi per trovare le parole,
poi, come se parlasse con lo spirito di un vecchio amico andato
troppo lontano per potergli parlare senza intermediari, riprendeva
continuando a tenere gli occhi chiusi. Lüsan… Anche quel mattino,
il Djitzle era uscito dalla trincea per andare all’assalto, ma
aveva trovato quasi subito una buca buona dove nascondersi. Perché
dalla guerra, è quello il solo modo per tornare a casa, da humman,
nascondersi; non credere mai, bambino mio, liabez moi khinn, a chi ti
racconta diversamente. Una volta sul fondo della fossa, il pover’uomo
aveva incominciato presto a coprirsi di terra e sassi per proteggersi
dalle schegge che volavano dappertutto. Così, semisepolto nel ventre
della terra, il più piccolo degli uomini delle nostre montagne si
sentiva al sicuro, come la martora sul fondo della sua tana, sentiva
che anche quel giorno avrebbe visto salire la notte, sì, pure quel
giorno avrebbe vissuto a Dio piacendo. Nonostante l’inferno, dopo
qualche tempo, il povero Djitzle si assopì, perché persino alle
fiamme dell’inferno alla fine ci si abitua, come alla vita... o
alla morte… Passarono le ore e il giallo dell’iprite incominciò
a confondersi con il colore del cielo al tramonto, terso, come lo
sono i cieli d’inverno, anche sopra i cimiteri. Senza alcun
preavviso, il piccolo soldato austroungarico fu scosso da uno
scarpone, che gli si appoggiò tra la spalla destra e il collo, e poi
da un altro proprio sopra la bocca dello stomaco. Era un ufficiale
dei suoi, un capitano, ma forse di più, addirittura un colonnello…
non ricordava bene il mio Barba. Per un po’ nessuno dei due
kaiserjäger profferì parola, per tutti urlavano ancora le bocche
dei cannoni e miagolava feroce la mitraglia. Ma in un momento di
tregua, l’ufficiale gli si rivolse quasi implorante: “Rette di
Fahne”. Salva la bandiera. Il piccolo Djitzle non si mosse. Allora
l’ufficiale lo spintonò e con voce dura di chi aveva ripreso
coscienza della propria condizione di privilegio gli ordinò: “Rette
di Fahne!”. Ma ancora una volta il Djitzle rimase immobile. Dopo un
po’ sentì la canna della pistola frugargli la nuca sotto
all’elmetto, e quella voce sibilante che ripeteva: “Rette di
Fahne”. Lentamente, ché a morire c’è sempre tempo, il Paesano
si scrollò della terra e dei sassi e sporse la testa oltre il
ciglio. La bandiera del reggimento era là, abbandonata, sprofondata
nel fango, a cinquanta passi da lui e a cinquanta passi dalla trincea
italiana, tutto attorno un sepolcreto di compagni dilaniati di cui
non si distinguevano i colori delle divise. Il proiettile fischiò a
due centimetri dall’orecchio sinistro. Il Djitzle si acquattò di
nuovo sul fondo della buca. Questa volta, la canna della pistola lo
graffiò e gli fece male. “Rette di Fahne!”. Il Djitzle si sporse
di nuovo. Il proiettile gli portò via la vernice dell’elmetto
sulla destra. Il paesano tornò giù, lo conosceva bene il fante che
aveva di fronte; lui, la settimana prima, gli aveva bucato due volte
la gamella quando era uscito a prendere un po’ d’acqua sul fondo
di una dolina, poi non ci riprovò più l’Italiano. La voce del
capitano… o colonnello… ora rasentava la pazzia. “Rette di
Fahne” era diventato l’urlo abnorme di un pazzo. Dopo tanti mesi
di guerra, aveva imparato a modo il galateo Djitzle: il terzo colpo
sbagliato era alto tradimento, e nessuno poteva permetterselo,
nemmeno il più misericordioso tra i nemici. Uno scintillio di
specchio o vetro o acciaio brillò dalla trincea italiana e in quel
momento, proprio un attimo prima di ascoltare ancora il rauco
berciare del superiore, il piccolo cimbro si girò verso di lui, si
tolse l’elmetto, gli piantò gli occhi negli occhi, appoggiò la
fronte alla sua fronte, strinse con forza i pugni e mentre i fiati si
mescolavano con calma glaciale, sussurrò: “Rette di Balòttn mein
Herr.”2
Finito di parlare, con tutta tranquillità l’uomo uscì dalla buca,
e con le spalle rivolte alla trincea italiana, si avviò verso le
proprie linee, sapeva bene che dopo avergli risparmiato la vita per
due volte, il fante non gli avrebbe sparato alla schiena. Poco più
in là, aggrappato a un moncone di betulla, il Poeta scriveva lettere
piene di amore e non è mai stato tanto attaccato alla vita… come
Djitzle del resto…
Ora ragazzo, tu mi chiedi cosa sia successo dopo, se quell’ufficiale
abbia poi deferito il nostro paesano alla corte marziale con
l’infamante accusa di: “fuga in fronte al nemico.” E allora io
te la devo proprio raccontare fino in fondo questa storia.
Prima
di proseguire però, il mio amato Barba si sistemò la coperta sulle
ginocchia si adattò meglio alla vecchia poltrona Frau, muovendo il
sedere come fanno le galline quando si accomodano nella terra del
cortile, poi riprese di nuovo il racconto, Lüsan…
Aveva
fatto solo una ventina di passi, quel segnato di guerra, quando lo
spostamento d’aria lo mandò con la faccia nel fango, e su di lui
incominciarono a cadere pezzi di ogni sorta e di ogni dimensione.
Legno, terra, sassi, ferro, e il Capitano… naturalmente i pezzi più
piccoli erano i suoi, quelli del capitano o colonnello, non ricordava
bene il mio Barba. Una pioggia oscena di rifiuti e sangue ritornò a
seppellire il piccolo uomo, riparandolo dal nuovo mordere della
mitraglia.
Le ultime parole
stavano ancora sospese, confuse nell’aria, prima di prendere la via
del fumo della pipa, il vecchio, a cui volevo così tanto bene,
riaprì gli occhi, respirò a fondo, caricò il fornello per fumare
avanti: “Rette di Fahne… Rette di Fahne… Rette di balòttn”
ripeté piano, sottovoce a se stesso, e un’ombra di sorriso gli
piegò le labbra, un’altra ombra passò furtiva tra noi e il muro
della stanza… sembrava sorridesse, poi il barba riabbassò le
palpebre e sospirò: LÜSAN SHEMÀ’, e ricominciò ancora un’altra
preghiera. Il mio popolo racconta preghiere e ascolta silenzi. Perché
Dio, a quelle stirpi cui ha imposto di vivere in equilibrio sui
crinali, là dove le acque si dividono disse: ASCOLTA e non CREDI! E
neppure OBBEDISCI!.... Lüsant… Ascoltate… un Con-Fine altro non
è che un Fine in Comune… insegnatelo ai vostri figli o vi
si sfaccia la casa, la malattia
vi impedisca, i vostri nati torcano il viso da voi3…
fatelo affinché il Djitzle, il mio povero Barba, mio padre e
tutti gli altri, a milioni, possano riposare in pace… finalmente.
Lirntzen aürn khindarn!4
1
Zio in cimbro come in tanti dialetti delle Alpi.
2
Salva le palle mio signore.
3
Queste ultime naturalmente non sono parole mie
4
Insegnatelo ai vostri figli, nell’antica lingua del popolo Cimbro
cui appartengo.
Andrea Nicolussi Golo
(Questi racconti, a breve, li troverete sui pannelli
dei sentieri nei dintorni di Luserna.
Uno è già stato messo che guarda la Valle).
Benvenuto Andrea con questo poetico racconto. Si sente eccheggiare un po' di Lussu, un po' di Ungaretti, un po' di storie raccontate dai nonni di tutti i fronti. Salva la Bandiera! Quante bandiere ci hanno fatto servire, .. e nessuna era la nostra.
RispondiEliminaHo letto il suo primo libro tutto d'un fiato perchè mi è piaciuto troppo. Complimenti. Grazie anche a questo blog, che io consulto tutti i giorni, vedo che si vengono a conoscere delle realtà prima sconosciute. Grazie a tutti.
RispondiEliminaDescrizione a raffica di una giornata in trincea. Racconto intenso, come la sceneggiatura di un film. Parole come pietre taglienti e sanguinanti. Quando hai finito di leggerlo ti fischiano ancora nelle orecchie le pallottole e ti sembra di essere nella mischia, nel fango, tra corpi dilaniati.
RispondiEliminaIL VENTO DELLA VALLE
VEGLIA
RispondiEliminaCima Quattro il 23 dicembre 1915
Un’intera nottata
Buttato vicino
A un compagno
Massacrato
Con la bocca
Digrignata
Volta al plenilunio
Con la congestione
Delle sue mani
Penetrata
Nel mio silenzio
Ho scritto
Lettere piene d’amore
Non sono mai stato
Tanto
Attaccato alla vita.
G. Ungaretti
Grazie Carla e grazie a tutti Andrea