lunedì 7 luglio 2014

Lusan - Shemà

C’è un solo modo per iniziare un racconto nell’antica lingua cimbra, la lingua con cui mia madre mi ha insegnato a parlare, la sola che ho conosciuto prima di imparare, controvoglia, la lingua della scuola e quella dell’ospedale: Lüsan! Mille volte l’ho tradotto con il verbo italiano: “Ascolta” e ogni volta sentivo che non corrispondeva. Il significato semantico era diverso, ma non capivo in che modo. Poi un giorno ho incontrato la più sacra delle preghiere, la più antica delle preghiere, la prima preghiera del Popolo Eletto: Shemà’ Israel A. Eloqenu A. Echad. Veaavtà et A. Eloqekha bekol levavekhà uvkol nafshekhà uvkol meodekha. Ascolta Israele il Signore è nostro Dio. Il Signore è uno. Benedetto il Suo nome glorioso per sempre. Allora, solo allora ho capito. Il mio popolo non ha canti, non ha danze con cui festeggiare il raccolto, perché non ha raccolti, ma racconta storie e ogni storia è una Preghiera. Il mio popolo racconta Preghiere. Lüsan-Shemà’, la vicinanza è ancora più profonda quando la storia che segue è una storia di guerra, di “quella” guerra, La Grande, che non basteranno sette generazioni per togliercela dagli occhi e dal cuore… e ne sono passate appena tre.  
Cima quattro il 23 dicembre 1915, 
appena cento metri più in là
(inedito)
Lüsan. Il povero Djitzle aveva combattuto sull’Isonzo. Ogni volta, dopo la prima frase, il mio Barba1 si interrompeva, e sempre chiudeva gli occhi per trovare le parole, poi, come se parlasse con lo spirito di un vecchio amico andato troppo lontano per potergli parlare senza intermediari, riprendeva continuando a tenere gli occhi chiusi. Lüsan… Anche quel mattino, il Djitzle era uscito dalla trincea per andare all’assalto, ma aveva trovato quasi subito una buca buona dove nascondersi. Perché dalla guerra, è quello il solo modo per tornare a casa, da humman, nascondersi; non credere mai, bambino mio, liabez moi khinn, a chi ti racconta diversamente. Una volta sul fondo della fossa, il pover’uomo aveva incominciato presto a coprirsi di terra e sassi per proteggersi dalle schegge che volavano dappertutto. Così, semisepolto nel ventre della terra, il più piccolo degli uomini delle nostre montagne si sentiva al sicuro, come la martora sul fondo della sua tana, sentiva che anche quel giorno avrebbe visto salire la notte, sì, pure quel giorno avrebbe vissuto a Dio piacendo. Nonostante l’inferno, dopo qualche tempo, il povero Djitzle si assopì, perché persino alle fiamme dell’inferno alla fine ci si abitua, come alla vita... o alla morte… Passarono le ore e il giallo dell’iprite incominciò a confondersi con il colore del cielo al tramonto, terso, come lo sono i cieli d’inverno, anche sopra i cimiteri. Senza alcun preavviso, il piccolo soldato austroungarico fu scosso da uno scarpone, che gli si appoggiò tra la spalla destra e il collo, e poi da un altro proprio sopra la bocca dello stomaco. Era un ufficiale dei suoi, un capitano, ma forse di più, addirittura un colonnello… non ricordava bene il mio Barba. Per un po’ nessuno dei due kaiserjäger profferì parola, per tutti urlavano ancora le bocche dei cannoni e miagolava feroce la mitraglia. Ma in un momento di tregua, l’ufficiale gli si rivolse quasi implorante: “Rette di Fahne”. Salva la bandiera. Il piccolo Djitzle non si mosse. Allora l’ufficiale lo spintonò e con voce dura di chi aveva ripreso coscienza della propria condizione di privilegio gli ordinò: “Rette di Fahne!”. Ma ancora una volta il Djitzle rimase immobile. Dopo un po’ sentì la canna della pistola frugargli la nuca sotto all’elmetto, e quella voce sibilante che ripeteva: “Rette di Fahne”. Lentamente, ché a morire c’è sempre tempo, il Paesano si scrollò della terra e dei sassi e sporse la testa oltre il ciglio. La bandiera del reggimento era là, abbandonata, sprofondata nel fango, a cinquanta passi da lui e a cinquanta passi dalla trincea italiana, tutto attorno un sepolcreto di compagni dilaniati di cui non si distinguevano i colori delle divise. Il proiettile fischiò a due centimetri dall’orecchio sinistro. Il Djitzle si acquattò di nuovo sul fondo della buca. Questa volta, la canna della pistola lo graffiò e gli fece male. “Rette di Fahne!”. Il Djitzle si sporse di nuovo. Il proiettile gli portò via la vernice dell’elmetto sulla destra. Il paesano tornò giù, lo conosceva bene il fante che aveva di fronte; lui, la settimana prima, gli aveva bucato due volte la gamella quando era uscito a prendere un po’ d’acqua sul fondo di una dolina, poi non ci riprovò più l’Italiano. La voce del capitano… o colonnello… ora rasentava la pazzia. “Rette di Fahne” era diventato l’urlo abnorme di un pazzo. Dopo tanti mesi di guerra, aveva imparato a modo il galateo Djitzle: il terzo colpo sbagliato era alto tradimento, e nessuno poteva permetterselo, nemmeno il più misericordioso tra i nemici. Uno scintillio di specchio o vetro o acciaio brillò dalla trincea italiana e in quel momento, proprio un attimo prima di ascoltare ancora il rauco berciare del superiore, il piccolo cimbro si girò verso di lui, si tolse l’elmetto, gli piantò gli occhi negli occhi, appoggiò la fronte alla sua fronte, strinse con forza i pugni e mentre i fiati si mescolavano con calma glaciale, sussurrò: “Rette di Balòttn mein Herr.”2 Finito di parlare, con tutta tranquillità l’uomo uscì dalla buca, e con le spalle rivolte alla trincea italiana, si avviò verso le proprie linee, sapeva bene che dopo avergli risparmiato la vita per due volte, il fante non gli avrebbe sparato alla schiena. Poco più in là, aggrappato a un moncone di betulla, il Poeta scriveva lettere piene di amore e non è mai stato tanto attaccato alla vita… come Djitzle del resto…
Ora ragazzo, tu mi chiedi cosa sia successo dopo, se quell’ufficiale abbia poi deferito il nostro paesano alla corte marziale con l’infamante accusa di: “fuga in fronte al nemico.” E allora io te la devo proprio raccontare fino in fondo questa storia.
Prima di proseguire però, il mio amato Barba si sistemò la coperta sulle ginocchia si adattò meglio alla vecchia poltrona Frau, muovendo il sedere come fanno le galline quando si accomodano nella terra del cortile, poi riprese di nuovo il racconto, Lüsan…
Aveva fatto solo una ventina di passi, quel segnato di guerra, quando lo spostamento d’aria lo mandò con la faccia nel fango, e su di lui incominciarono a cadere pezzi di ogni sorta e di ogni dimensione. Legno, terra, sassi, ferro, e il Capitano… naturalmente i pezzi più piccoli erano i suoi, quelli del capitano o colonnello, non ricordava bene il mio Barba. Una pioggia oscena di rifiuti e sangue ritornò a seppellire il piccolo uomo, riparandolo dal nuovo mordere della mitraglia.
Le ultime parole stavano ancora sospese, confuse nell’aria, prima di prendere la via del fumo della pipa, il vecchio, a cui volevo così tanto bene, riaprì gli occhi, respirò a fondo, caricò il fornello per fumare avanti: “Rette di Fahne… Rette di Fahne… Rette di balòttn” ripeté piano, sottovoce a se stesso, e un’ombra di sorriso gli piegò le labbra, un’altra ombra passò furtiva tra noi e il muro della stanza… sembrava sorridesse, poi il barba riabbassò le palpebre e sospirò: LÜSAN SHEMÀ’, e ricominciò ancora un’altra preghiera. Il mio popolo racconta preghiere e ascolta silenzi. Perché Dio, a quelle stirpi cui ha imposto di vivere in equilibrio sui crinali, là dove le acque si dividono disse: ASCOLTA e non CREDI! E neppure OBBEDISCI!.... Lüsant… Ascoltate… un Con-Fine altro non è che un Fine in Comune… insegnatelo ai vostri figli o vi si sfaccia la casa, la malattia vi impedisca, i vostri nati torcano il viso da voi3… fatelo affinché il Djitzle, il mio povero Barba, mio padre e tutti gli altri, a milioni, possano riposare in pace… finalmente. Lirntzen aürn khindarn!4
1 Zio in cimbro come in tanti dialetti delle Alpi.
2 Salva le palle mio signore.
3 Queste ultime naturalmente non sono parole mie
4 Insegnatelo ai vostri figli, nell’antica lingua del popolo Cimbro cui appartengo.

Andrea Nicolussi Golo
(Questi racconti, a breve, li troverete sui pannelli
 dei sentieri nei dintorni di Luserna. 
Uno è già stato messo che guarda la Valle).

4 commenti:

  1. Benvenuto Andrea con questo poetico racconto. Si sente eccheggiare un po' di Lussu, un po' di Ungaretti, un po' di storie raccontate dai nonni di tutti i fronti. Salva la Bandiera! Quante bandiere ci hanno fatto servire, .. e nessuna era la nostra.

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  2. Ho letto il suo primo libro tutto d'un fiato perchè mi è piaciuto troppo. Complimenti. Grazie anche a questo blog, che io consulto tutti i giorni, vedo che si vengono a conoscere delle realtà prima sconosciute. Grazie a tutti.

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  3. IL VENTO DELLA VALLE7 luglio 2014 alle ore 13:43

    Descrizione a raffica di una giornata in trincea. Racconto intenso, come la sceneggiatura di un film. Parole come pietre taglienti e sanguinanti. Quando hai finito di leggerlo ti fischiano ancora nelle orecchie le pallottole e ti sembra di essere nella mischia, nel fango, tra corpi dilaniati.

    IL VENTO DELLA VALLE

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  4. VEGLIA
    Cima Quattro il 23 dicembre 1915

    Un’intera nottata
    Buttato vicino
    A un compagno
    Massacrato
    Con la bocca
    Digrignata
    Volta al plenilunio
    Con la congestione
    Delle sue mani
    Penetrata
    Nel mio silenzio
    Ho scritto
    Lettere piene d’amore

    Non sono mai stato
    Tanto
    Attaccato alla vita.
    G. Ungaretti

    Grazie Carla e grazie a tutti Andrea

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