venerdì 18 luglio 2014

Don Guzzo e la minigonna




Don Guzzo arrivò a Chiuppano in un giorno di freddo sole nel gennaio del ’59 accolto dal paese in festa, dalla banda e dai bambini dell’asilo schierati in ordine a tagliare il vialetto che portava alla chiesa. Veniva dalla parrocchia di Lusiana distesa tra i campi scoscesi e sassosi dove il vento della modernità e del cambiamento si spegneva tra le contrade  isolate e la fatica del lavoro nei boschi. Sostituiva Don Roncaglia morto da poco, sfinito dagli anni e dalle “crociate” contro i tempi moderni: il ballo, il cinema, certa stampa e la televisione che secondo la sua visione portavano alla rovina e alla erosione di coscienze e di innocenze. “Strumenti del diavolo” tuonava spesso dal pulpito, che allontanavano da Dio e dalla chiesa. Tra quei bambini dell’asilo  in quella coreografia stracciona e stramba che colorava la strada e la festa c’ero anch’io, proprio al centro del “nastro umano”. Mi ricordo esattamente il momento in cui apparve la macchina nera con a bordo il prete nuovo, tra gli applausi della gente e il fragore della fanfara. Noi bambini,  per mano, dovevamo aprirci per lasciare passare la macchina ad un cenno della suora. Io nella confusione e per l’emozione rimasi impalato come “un semoto” tanto che il corteo fu costretto ad arrestarsi. Dovette una suora con una manata spostarmi da parte perché non sapevo da che parte ”trarmi”. La macchina proseguì ancora per qualche metro e si fermò davanti alla chiesa tra la gente incuriosita e plaudente. Ne scese una figura alta e nera, testa pelata ed arrossata forse per il freddo e l’emozione. Non ricordo poi molto di quel giorno; ci furono dei discorsi, strette di mano, sorrisi e parole, ma mi rimasero impressi lo sguardo duro di quel nuovo ospite, che doveva reggere le sorti della parrocchia ed il timbro della voce potente e ieratico. Del resto io avevo cinque anni e a quell’età i ricordi non sono molti ed esattamente definiti.  Ebbi modo di conoscerlo un po’ meglio nelle visite che fece all’asilo nei mesi successivi in cui scambiava qualche battuta con alcuni di noi  seguita da domande su ciò che potevano essere le nostre conoscenze della religione, della dottrina e di Dio. Devo dire che, purtroppo, l’impressione che ne avevo tratto al suo arrivo fu confermata, ed anzi più conoscevo quel prete più avevo paura e disagio nell’incontrarlo. Una sensazione paralizzante, che diversi di noi provavano. Vennero i tempi della dottrina, in preparazione della comunione, che a quei tempi si faceva in seconda elementare a sette otto anni. Ci radunavamo in una saletta nel seminterrato della canonica due volte la settimana. Quelle due ore di interrogazione sulla dottrina erano un tormento, che ci toglieva la voce, specie se ci capitava di essere poco preparati. C’era una nostra compagna che balbettava già di suo e in quell’occasione non c’era verso che le uscissero due parole unite con sommo disagio di lei e di noi, combattuti tra il terrore e la voglia di ridere. C’era un silenzio imbarazzato e si potevano sentire volare le mosche. Dio fece che venne la comunione e per un po’ ci togliemmo di mezzo quelle riunioni non esattamente piacevoli. Frequentavamo di domenica la messa del fanciullo delle ore otto  e il sabato pomeriggio dovevamo accostarci alla confessione. Era sempre sperabile di trovare il cappellano, di solito ben disposto e che sapeva metterci a nostro agio. Se invece incappavamo nel parroco, c’era lo sforzo di trovare una bugia di ripiego (qualche peccato lieve) piuttosto che raccontare esattamente le piccole o grandi malefatte. Ricordo che mi inventavo sempre che rubavo la marmellata da casa,  che mi ero dimenticato di pregare la sera, che non avevo ubbidito ai genitori. Guai a parlare dei primi turbamenti, dei primi approcci col mistero del sesso, della differenza con il corpo delle bambine. Solo ad avere davanti quel viso, che mi sembrava più di un demone che di un prete mi venivano i brividi. Il tutto si esauriva con l’atto di dolore e una decina di “pater ave gloria” da recitare per penitenza. Una volta mi andò male e mi presi una tirata di orecchi che per poco non me li stacca. Uscii che fiammeggiavo di vergogna e di paura in mezzo ai compagni allibiti. La messa del fanciullo, come dicevo, era un altro rito che dovevamo subire per forza spinti dai genitori e da tutti i parenti. Guai a mancare!! Peccato mortale o addirittura sacrilegio. La messa a quei tempi era in latino; un lamento di parole incomprensibili dall’inizio alla fine, che ben pochi comprendevano. In più gli svarioni lessicali non si contavano, ma tant’era per quelle anime semplici che in quegli anni si accalcavano sui vecchi banchi della grande chiesa. La chiesa nuova era stata inaugurata nel ’57, costata sudore e fatica a tutta la comunità e a don Roncaglia lo sfinimento fisico. Era stata arredata con gli altari, le statue i banchi e qualche dipinto della vecchia chiesa, che sarebbe stata abbattuta all’inizio degli anni ’60. A sinistra della navata centrale era stato posto il pulpito di legno scuro con la scaletta che portava sul quel palcoscenico aereo e che “sgrensava” tutta quando i passi del prete calcavano quelle assi.  Sul quel pulpito don Guzzo faceva la predica , unico momento comprensibile e anche troppo chiaro nella fiumana  di parole astruse della messa. Di solito erano prediche a suo dire contro il malcostume dell’epoca: i giovani che sempre di più scappavano dalla chiesa, il peccato che si annidava ovunque e comunque. Erano i primi anni ’60, i capelli lunghi cominciavano ad incorniciare i visi e le prime timide e caste minigonne apparivano sui giornali di moda e nelle città importanti  di quell’Italia provinciale e timorata di Dio. Certo il prete voleva riportare indietro l’orologio del tempo e ridare vigore alle “crociate”, che avevano tolto le forze al suo predecessore dagli anni ’30 alla fine dei ’50.
 Don Guzzo dava il meglio di sé da quel palco sospeso tra la terra e Dio, roteava gli occhi come un ossesso ed ondeggiava il corpo da destra a sinistra  che pareva una frasca al vento. Il viso assumeva delle sembianze stravolte e diventava “roan” come la gemma della bicicletta di Tony Brigo quando tornava dalla campagna la sera tardi. Mi scuso per il paragone irriverente ma a me sembrava di vedere il “pao che sbraitava nel punaro  di Tony pantalon”, che abitava vicino a casa mia e che strepitava, anche lui, sempre in maniera esagerata. Oltretutto avevo sempre paura che potesse precipitare dal pulpito da un momento all’altro tra i banchi, non fosse altro perché sotto c’erano i fedeli ed i miei compagni.“ Dio vi segue dappertutto, vede tutto, a Lui non sfugge nulla! Vi legge nei pensieri e non vi abbandona mai…” tuonava con quella voce possente, che arrivava fino in fondo alla chiesa senza bisogno di microfono. Quando sentivo queste parole, una leggera inquietudine mi prendeva e mi sentivo quasi spiato dal Padreterno. Anche i bisogni fisiologici diventavano ai miei occhi di bambino una imbarazzante occasione di peccato. A volte cercavo di tenere,  ma quando “scanpava scanpava”; non c’era altro da fare che battere in ritirata e ruzzolarsi nel peccato sperando non fosse mortale. Anzi, cercavo di non guardare le mie nudità e se  per caso le intravedevo avevo subito pronto un “atto di dolore”.  La domenica passava così: la mattina la messa, il pomeriggio dottrina a cui, se potevo,  mi sottraevo volentieri, magari fermandomi lungo la ferrovia  con qualche amico a tormentare le “risardole” o a raccogliere, per la maestra, i sassi colorati dalla massicciata sotto i binari. Quel prete mi piaceva proprio poco e più crescevo più lo associavo a quella figura che aveva attraversato il ventennio e che tante volte si era affacciata, coi suoi proclami, al balcone di Palazzo Venezia a Roma. Una scena domenicale su tutte mi è rimasta nella mente come un graffio che, dopo tanti anni, non so ancora dimenticare né perdonare. Fu quando, nel mezzo di una sua sceneggiata contro la solita vita di peccato in cui tutti erano caduti  scorse la gonna appena sopra il ginocchio, di una bambina. Fermò di colpo la predica e con voce tonante e sguardo stizzito ordinò a suor Albina: ”La ghe slunga la còtola subito, no la vede che vergogna!”. La suora imbarazzata, prese la “toseta per brasso” e la trascinò bruscamente in sagrestia. La bambina si mise a piangere per la vergogna ed io per poco non me la feci sotto: era la mia sorellina  Liliana di otto anni. Forse quel prete nel suo delirio inquisitorio aveva preso una cantonata, l’abbaglio di un lampione;  chissà cosa aveva visto in quel momento! Molti fedeli furono attratti dalla scena; era un colpo di teatro tragicamente comico. Quando mia sorella riapparve dalla sagrestia, malconcia e mesta, il compito che era stato affidato alla suora era stato eseguito. Liliana piangeva, io ero terreo per l’imbarazzo. Eravamo del colore del pavimento di cemento ancora grezzo della chiesa, grigi  nel cuore e nell’anima. Certo che se Dio vedeva tutto, forse, quella volta, vide con occhi giusti un prete fuori dal tempo e dai gangheri. Alla fine della messa  ci confondemmo tra la gente e quegli sguardi che facevano male come sputi catarrosi. Scivolammo in fretta  verso casa conciati che sembravamo degli zingarelli, due “fioi de nessùni” che si facevano “pecà” da soli. Un cane ci accompagnò per un pezzo di strada, forse era l’unico, in quel momento, ad aver capito il nostro disagio e pareva proteggerci e darci coraggio, l’unica carezza calda di quel giorno così crudo. Traversammo la stazione tormentata dal vento e dall’alito freddo dell’inverno, eravamo irrigiditi come i rami stecchiti dei tigli. Cercando di schivare la gente ed evitando di passare davanti ai bar di Volpato e di Bastianon, arrivammo a casa in lacrime e pieni di vergogna.  Raccontammo l’accaduto  ai nostri genitori. Mio padre poco aduso a frequentare la chiesa bofonchiò delle mezze bestemmie e manifestò l’intento di andare a parlare col prete. “ Slandrón d’un slandrón” commentò alla fine, poi tacque. Mia madre se la prese più con la suora Albina che secondo lei non doveva toccare la gonna,  forse perché a quei tempi c’era il detto che preti, dottori e farmacisti dovevano essere lasciati stare. Era il timore riverenziale dei poveri e degli ultimi che non avevano voce, non avevano parole contro i potenti e i prepotenti. Si confidò con “la Nela  de Menego”, che aveva una figlia suora e  consigliò di lasciar perdere. Il tutto finì in niente, solo con l’amara osservazione che se fossimo stati i figli di… forse non sarebbe successo tutto quel casino. “Chissà quanta maraveja che i singà dà tuti” disse nostra madre sconsolata. I tempi cambiavano rapidamente, quel vento nuovo che negli anni ’60 diede un respiro di libertà e di cambiamento arrivò, con ritardo, anche nel nostro paese.  Pochi giovani, ed io tra loro, dopo la cresima liquidata con sforzo come una pratica fastidiosa,  continuammo a frequentare la chiesa, ma quel prete da quel pulpito si trovò sempre più lontano dalla gioventù del paese e dalle nuove aspettative. Successero molte cose a Chiuppano, anche tragiche. Chissà, se ci fossimo seduti sugli scalini della chiesa a parlare col prete, invece di essere cacciati in malo modo, forse le cose sarebbero state diverse. Erano anni difficili, di tanti cambiamenti, di scontri e di incomprensioni che forse cercavano solo di essere capiti con un po’ di buona volontà da ambo le parti. Purtroppo non fu così, pagammo tutti quello scontro di generazione che certamente non giovò al paese e al suo equilibrio. Chiuppano divenne una “piccola Amsterdam”, crocevia di idee e di ragazzi che venivano da fuori cioè da Thiene, Schio, Malo, Vicenza ed anche da più lontano. Si fecero strada le idee della “beat generation”, della trasgressione, dello spinello ed anche di più… Il nostro quartier generale lo spostammo dal patronato al bar “da Merica” quasi a tracciare un solco e mettere una lontananza tra noi e la Chiesa. Quella Chiesa  che con la venuta di Papa Giovanni XXIII riportava al centro il messaggio del vangelo, riportava la parola tra la gente, tra i poveri, tra chi era ai margini. Grandi esempi in quel tempo furono Don Milani  e il suo messaggio rivoluzionario e Don Mazzi, un prete di Firenze che si ribellava allo schematismo secolare ecclesiastico. Persino i seminaristi di Verona, nel Natale del ’67,  si ribellarono contro la guerra in Vietnam, che il Cardinale Spelman considerava “Santa”.  Don Guzzo, solo come uno stilita, perché anche i cappellani non durarono a lungo, sospeso ed ingabbiato nelle sue idee e la classe politica di quel tempo poco fecero per cercare una mediazione, un incontro; forse non  avevano gli strumenti culturali e una lettura sociologica adeguata. Io, passato il momento, continuai per la mia strada e per non incontrare quel prete mi sposai in comune, tra i primi in paese. Lui continuò sino all’81 poi si ritirò in pensione. Non ho rimpianto per la sua figura, che a me ha dato solo paura; non ho preghiere per lui, anche se ora capisco che la sua educazione rigida e ingessata era quella di un altro secolo. Era, per chi lo conosceva sotto altro aspetto anche dolce e disponibile, ma io purtroppo l’ho conosciuto solo così.
Per fortuna negli anni ho conosciuto grandi preti, come Don Gallo di Genova e Don Giulio Dorrigoni, mio insegnante alle superiori, che mi hanno fatto riconciliare con quella Chiesa arcaica e dura da cui eravamo stati cacciati tanti anni prima.


                                                                                     Maurizio Boschiero
  

1 commento:

  1. Al liceo, nel Nord della Francia dove abitavamo, era cosi negli anni 60. Ogni mattina, prima di iniziare i corsi, il sorvegliante generale del liceo ci faceva mettere in fila. Se vedeva un ragazzo (avevamo da 16 a 18 anni) con i capelli lunghi, o una ragazza con la gonna corta, questo o questa si prendeva una punizione. Abbiamo adorato 68 !
    Peggio ancora negli anni 30 quando era proibito leggere....la bibbia ! (dixit mia mamma) Te pensavi leggere un libro sacro; ti trovavi scomunicato.

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