martedì 12 agosto 2014

Una nuova primavera






 La piccola stazione è ancora addormentata dentro una bolla di silenzio; le  poche persone in giro vanno di fretta avvolte negli indumenti pesanti dell’inverno, in questo sabato mattina di fine febbraio.
I binari arrugginiti sono lì che aspettano i treni che da qualche parte arriveranno, sui muri mal verniciati, spiccano vecchie scritte mezze consumate dall’umidità.
Un vecchio sta seduto sulla panchina fredda con il giornale piantato contro il naso e due ragazzi in un angolo si scambiano parole sottovoce con gli occhi persi dentro promesse  per l’eternità.
I cessi odorano di piscio e di varecchina, sulle pareti,  scritte sguaiate invitano ad incontri laidi con tanto di appuntamenti, orari, numeri di telefono e disegni osceni.
“ Laura ti amo da morire e vorrei averti qui” è l’unica frase che sa un po’ di poesia in quello schifo puzzolente e volgare.
La fontanella getta uno zampillo freddo che poi sparisce in un gorgoglìo sordo e un pettirosso che saltella sulla recinzione di cemento mi mette allegria, chissà che la primavera arrivi presto anche per lui.
Io aspetto il treno delle nove e trenta, attendo mio figlio Alberto e nell’attesa mi guardo intorno.
Lontano i monti imbiancati di neve sfumano i colori contro le nuvole chiare; l’aria fresca sa di stagione nuova, ma anche un po’ dell’inverno che sta sfinendosi tra i rami degli alberi che si arrendono al cielo.
Il monte Summano visto da qui ha il profilo del seno un po’ disarmonico di una donna, mi ricorda il seno magro di mia madre, appena accennato sotto i suoi vestiti castigati.
Madre e terra io le confondo nei miei pensieri, hanno radici profonde che partono dall’anima e che si fanno sentire forte quando in una stazione si pensa ad un viaggio, a una partenza o a un ritorno, hanno il sapore di un abbraccio ed il senso di una vita.
Questa stazione è uno scrigno di fatti e di ricordi: chissà quante storie ha visto il vecchio casellante e quanti occhi hanno guardato il vecchio orologio che gira lento e fatica a tenere il ritmo.
Il tempo ha il colore e la funzione  della calce gettata tra i binari per coprire l’urina e quello che cola dalle latrine dei treni.
Disinfetta e cicatrizza come il tempo fa con le ferite e con i ricordi che si perdono quasi in niente.
Strani odori di catrame, di calce, di piscio e di merda secca confusi con il profumo lieve delle viole che l’aria porta  con l’aria con se chissà da dove.
Una lucertola ancora intontita si gode il tiepido sole distesa tra la ruggine dei sassi, sembra quasi morta, mentre una mosca ronza poco distante e un ragno in un angolo sta tessendo in silenzio la sua tela.
Continuo a camminare su e giù per la banchina e non mi accorgo quasi del tempo che passa e della gente che pian piano si accosta ai binari.
Voglio riempirmi gli occhi di questa attesa, di questa mattina che sa di vita e di anni lontani, di ragazze che furono con me ragazzo e che la mia timidezza allontanava al confine dell’indifferenza, di storie e di memoria.
Per terra carte e polvere, le foglie che l’aria muove, e qualche barattolo abbandonato.
Sul muro al di là dei binari con lo spray c’è scritto: viva Guevara.
Mio nonno quando arrivò da Limena sulla pianura vasta dalle parti di Padova aveva in tasca “L’Avanti” e fuggiva dalla miseria e dalle beghe della politica cercando in questi posti una vita un po’ diversa.
Quando vide dal finestrino del treno la scritta stazione di Thiene scese in fretta con la valigia in mano, dentro poco più di niente: un pugno della sua terra e la voglia di cominciare.
Sul muro mal ridotto del porticato c’era scritto “viva il Re”, con il lapis tirò un segno e aggiunse viva la libertà. 
Aveva venti anni voleva dimenticare la vita agra degli “obbligati”, la nebbia densa come una polenta grigia, le zanzare che davano la febbre.
Era il 1902
Cercò i cessi per pisciare, poi proseguì per Chiuppano, non so perché proprio per questo paese, forse fu il destino che lo spinse o forse fu il cielo chiaro che insiste su questo angolo di valle.
Trovò una donna, mia nonna, e con lei attraversò tutta la  vita.
Girò i mercati dei paesi lungo l’Astico con le sue stoffe e le sue mercanzie e non dimenticò mai la sua fede socialista.
Io partii da questa stazione per il militare accompagnato qui da mio padre e la mia morosa in un freddo mese di marzo del ’76.
Avevo più paura che freddo, lasciavo il mio cuore a quella ragazza, che poi sarà lì ad aspettarmi.
Mi accorgo che come in un sogno sto ripercorrendo la mia vita e le mie radici, si incrociano storie di vita e di morte; oltre i binari si intravede un angolo di un cimitero.
Chissà se i morti sentono il rumore dei treni che vanno e che si fermano, chissà se la vita è un viaggio che continua anche oltre la fine dell’esistenza.
Il suono metallico di una campanella fissata al muro scuote i miei pensieri: treno in arrivo da Vicenza annuncia gracchiando un altoparlante.
Giro la testa nella direzione di arrivo e dopo poco il profilo di un locomotore si annuncia in lontananza.
Un attimo e sfilano davanti a me i finestrini come la pellicola che si srotola di un film.
Poi sferragliando il convoglio si ferma e si aprono le porte.
I passeggeri cominciano a scendere in fretta, visi anonimi che passano lesti.
Alberto appare sulla scala e un raggio di sole gli illumina il viso.
Sembra una creatura di un altro mondo una luce particolare lo attraversa.
Un sorriso grande poi un abbraccio caldo, come quello di una madre, come quello della propria terra.
Alberto sa di buono di un buon profumo di dopobarba, di pulito e di gioia di vivere.
Dietro di noi  anni difficili, grigi come la nebbia da cui fuggiva mio nonno, anni disperati con speranza che sembrava aver cambiato direzione.
Inverni senza Natali, con neve senza poesia, con troppo freddo e tanta lontananza, rintanati in noi stessi.
Alberto si era infilato in un tunnel buio e pericoloso senza luce se non quella artificiale.
Ma si sa qualche volta il sole torna a far capolino dopo le nubi e la tempesta e questa mattina è primavera e c’è nell’aria il profumo delle viole.
Un groppo in gola che non riesco a mandar giù mi strozza le parole e dagli occhi mi scendono lacrime che cerco di nascondere tenendo lo sguardo basso.
Alberto è tornato e ringrazio Dio di averlo fatto rinascere.
Ci avviamo all’uscita della stazione, il treno è già ripartito e non vedo più nessuno intorno.
In una piccola e antica aiuola a fianco del vialetto di uscita tra vecchie piante di rosa e  antichi oleandri, foglie, barattoli arrugginiti ed erba secca: le viole.
Ecco da dove veniva il profumo che a tratti confondeva gli altri odori.
Hanno sfidato i rigori dell’inverno, dell’incuria e dell’abbandono e sono lì che offrono la poesia del profumo e della tenerezza.
Sono la metafora della vita che rinasce racchiusa in un niente, la forza che muove la vita.
Mi chino e ne raccolgo una, tra le mani ho questo alito di colore, mi sembra di rincontrare il sole dopo l’inverno, la vita dopo una lunga pena.
Vorrei regalarla ad Alberto, anche lui per un attimo si ferma a guardare quella macchia colorata, ma la timidezza mi chiude la mano e la trattengo.
Ho un fiore per te, figlio, qui dentro il pugno.
Ora coltivo la speranza.
  
                                                   Maurizio Boschiero

7 commenti:

  1. Bellissimo racconto pieno di emozioni, grazie Maurizio per avercelo regalato

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    1. Andrea mi onora la tua Amicizia! Grazie. Quella serata miracolosa mia ha aperto uno scuarcio di luce. Ti starei ad ascoltare ore. A presto. Ciao Maurizio

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  3. Mi sono piaciuti moltissimo tuttii tuoi racconti di vita ma questo e papaveri rossi li porto sempre nella mia mente e nel mio cuore , presto verrò a Valdastico e avrei tanto piacere di conoscerti Floriana

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    1. grazie Floriana, davvero!! Ieri ti ho conosciuta, hai usato per me parole bellissime che non mi sarei aspettato. Sono grato ai miei libri soprattutto per gli amici che ho avuto l'opportunità di conoscere. Quando ti ho parlato mi sembrava di conoscerti da sempre, tra noi un filo sottile di nostalgia e di tenerezza!! Grazie di esserci, Grazie davvero e un abbraccio.

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    2. Sono stata molto felice di conoscerti troppe emozioni in questi giorni ooggi non mi fanno nemmeno trovare le parole, un abbraccio affettuoso a te che sei un grande e alla tua bella signora,sei piaciuto moltissimo anche a mio figlio Maurizio che solitamente non si espone molto . Floriana

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  4. Quanti poeti, autori, artisti, architetti sono stati ispirati dai treni, dalle stazioni ferroviarie, perfino in letteratura poliziesca !
    Sono sotto il "charme" del tuo racconto, Maurizio, perchè anche a me piace questa atmosfèra, fatta di odori, di rumori, di sorrisi, di lacrime, di speranze, di sogni e di poesia. "Partir c'est mourir un peu", si dice..
    .
    Henri de RÉGNIER, (1864-1936) ha scritto, al suo arrivo in Veneto, mentre viaggiava in treno, anni 2O : ;
    "Respiro l'odore del vagone, questo odore di lenzuolo, di cuoio, di carbone alla quale si immischia da un momento un odore nuovo, particolare e che non conosco. Sembra che l'aria si sia come dilatata per lasciarsi penetrare da un tipo di languore umido, molle che sente l'erba e l'acqua, la prateria ed il fossàto, il giunco e la terra e che, sebbene intorpidisce, ha svegliato i viaggiatori sonnolenti...... Il fischietto della locomotiva lacera la notte. Poco a poco, il treno si rallenta, si ferma poi lungo un binario. Alcune portiere si aprono. Alcuni portatori corrono sul marciapiede sotto la luce cruda dei lampadari. Di fronte, su un cartello, sono scritte le lettere di questo nome magico ; VENEZIA."

    Mi sembra di esserci !


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