venerdì 22 agosto 2014

I capelloni






Tita Trapuio aveva parcheggiato la vecchia 1500 bianca davanti al bar del “Duomo” vicino alla chiesa nuova e a passo lesto e “de scondòn”,  si era diretto  verso il “Casello”. Era una calda sera di luglio del 1972, con la luna che illuminava distrattamente il sentiero che costeggiava la vecchia ferrovia abbandonata da anni. Nella fretta del passo, aveva rischiato un paio di volte di “intrabucarsi” tra le “russe” che avevano coperto come un tappeto la massicciata su cui poggiavano i binari ormai arrugginiti.
Gli strani rumori che uscivano da quei rovi gli facevano “un po’ di che”: forse era qualche topo che scappava disturbato da quei passi fuori orario, o qualche “risardola” che si ritirava nel suo riparo impaurita .
Il profumo dolce dei fiori di quell’estate ormai matura si confondeva con l’odore acre dei crauti che veniva dalla vicina fabbrica dei Zuccato che nei mesi caldi lavorava a pieno ritmo i cavoli cappucci tagliati e stivati  col sale a macerare  nelle grandi vasche di cemento.
I grilli frinivano rumorosamente tra i filari di viti e il “sorgo” dei “Terzi” e le rare lampade che illuminavano via Roma, che correva in quel tratto parallela alla ferrovia attiravano nugoli di moscerini e qualche falena “inbatonia”.
Tita da quando sua figlia Nadia frequentava la compagnia del “Casello” non era quieto e seguiva la faccenda con apprensione. Controllava da lontano e senza possibilmente farsi vedere i movimenti della “tosa” che ormai andava su per i quindici anni ed aveva da poco cominciato a lavorare come apprendista al “Cotorossi”, la fabbrica che per tanti anni aveva segnato la vita di molte famiglie di Chiuppano e dei dintorni.

Purtroppo c’era poco da stare allegri con le nuove generazioni che avanzavano: tutti con i capelli lunghi, barbe, chitarre, minigonne, blue jeans e tutti con “ na lingua sacrilega”……
Non c’era più rispetto per i genitori che venivano visti come “matusa” con idee vecchie e sorpassate, c’era poca simpatia per i preti e indifferenza anzi quasi  irriverenza per gli insegnanti.
 Questi  pensieri che passavano per la testa di quell’uomo frettoloso e trafelato che confondeva la  sua ombra con le ombre dei  vecchi “morari” piantati lungo la ferrovia, erano rivolti a quella figlia un po’ scavezzacollo che per “indrisarla” un po’ l’aveva messa anche ai “discoli” a Lusiana per un paio di anni, un collegio austero retto da signorine severe e rigide, ma forse per come si erano messe le cose ultimamente, non aveva poi servito molto.
Aveva anche saputo, che la ragazza aveva cominciato a frequentare “La Capanna Azzurra” di Piovene e personaggi che dire strani era far loro un complimento, brutti ceffi che a incontrarli di notte non ci sarebbe stato certo da stare allegri e “per farla compia” qualche sigaretta se la fumava.
Il “Casello” poi, era diventato, da quando il treno era stato fermato, il ritrovo di tutta la gioventù scalcagnata del paese, ma anche di gente che veniva da fuori, da altri paesi, chissà da dove.
Gente mai vista, “forèsti” per dirla breve, che  messi insieme sembravano una “marmaja de singani”.
Cosa ci trovassero di bello tra quelle mura abbandonate di quella vecchia casa di ferrovia solo Dio poteva saperlo.
Si tormentava così Tita, portando nervosamente la sigaretta  in bocca e camminando “de trabalon” cercando di non incespicare tra le “russe” e i sassi della ferrovia.
I pensieri erano sconnessi come quel viottolo  mal illuminato e facevano fatica a seguire un corso logico perché troppe cose gli passavano per la mente sovrapponendosi e accalcandosi in maniera disordinata.
Così pensando  arrivò in fretta a ridosso di quella casa abbandonata che al chiarore pallido della luna assumeva un aspetto ancora più sinistro.
Dalle finestre filtrava all’esterno la luce tetra  di qualche candela accesa e la musica fastidiosa che doveva venire da un apparecchio a pila perché la corrente era stata staccata ancora anni prima.
Usciva anche del fumo dalle finestre che si confondeva con i tratti scuri della notte e con le ombre che si stagliavano con forme strane sui muri della casa.
Tita si fermò un attimo per prendere fiato e dare l’ultimo tiro alla sigaretta prima di gettare il mozzicone nella siepe che aveva invaso quello che un tempo era il piccolo orto.
Dall’agitazione dovette “spandare acqua” su per una pianta “salbega” che era cresciuta tra i binari, mentre intorno si intravedevano le sagome del vecchio cinema “Astico” ormai in disuso e la piccola bottega di barbiere con l’edicola attaccata di Bepi Piai.
Mentre orinava tese gli orecchi: si sentiva poco oltre la musica e i grilli; anche la notte  sembrava avere  un frastuono sordo e lontano.
 Quando si ricompose, tirò su il respiro e si accostò piano ad una finestra semiaperta che dava su una stanza del pianterreno.
Dentro tra il fumo delle sigarette che sembrava un cielo basso e grigio si intravedevano le sagome dei “tosati” che in quel momento erano all’interno tra bottiglie di birra sparse per la stanza, mucchi giubbetti, chitarre e quant’altro.
Qualcuno di quei “sbregamandati” era del paese, altri mai visti.
Tutto gli pareva confuso da quell’osservatorio furtivo e scomodo, tutto gli sembrava strano e fuor di posto.
Per fortuna che quella sera la figlia era a casa, l’aveva lasciata in compagnia della madre a guardare la televisione.
Non le aveva concesso di uscire e la ribelle a malavoglia  si era arresa al suo dire.
Ciò che lo sorprese di più però, fu nel vedere due figure che nelle penombra di un angolo si baciavano con passione.
Già che due si baciassero davanti ad altri era poco normale , anzi un mezzo scandalo e un brivido gli passò la schiena.
Guardò meglio,” e si accorse che quelle figure avevano tutte e due i capelli lunghi. Viste da così, gli parevano addirittura due ragazze.
“Ghe manca anca questa, sacramento!”, mormorò ad alta voce.
“Che ghe fusse poco de bon questo se savea, ma che do tóse le se basasse la grida vendeta” continuò a borbottare allontanandosi in fretta da quel posto che lui stimava di perdizione e di peccato.
“Non c’era più religione!! Che tempi! Mas-ci de porsèi “ andava mormorando, non sapeva bene a chi si rivolgeva, mentre cercava di indovinare il sentiero per tornare indietro.
Anche un “rospo de un can” prese a rincorrerlo ringhiando con rabbia e risvegliando gli altri cani del vicinato.
Certo che Tita non era mai stato uno stinco di santo, le donne lo avevano sempre attratto e non si era mai fatto mancare niente, una sorta di Dannunzio di paese dedito alle delizie che il gentil sesso poteva offrirgli,  ma una cosa del genere non l’aveva mai vista.
Avevano ragione i suoi amici che nel bar “della Siensa” che parlavano di quel posto riferendosi al Casello come di un covo “ de poco de bon”.
“Tuto stomegà, come ch’l ghesse ciapa na ramenada”,  si era ritrovato in fretta a recuperare la macchina  con tanta voglia di allontanarsi in fretta dal “quel casìn”.
Non vedeva l’ora di tornare a casa e di raccontare quello che aveva visto a sua moglie  Maria che in quel momento doveva essere ancora in casa davanti alla televisione con la figlia quella che appunto che gli dava quei pensieri.
Fu un “s-ciantiso” a riguadagnare la strada di casa per le vie strette del “Vaticano” e per quella specie di budello che era la “Via Lunga”.
Davanti alla ferramenta di Tilio Graziani gli traversò la strada un gatto e per poco non lo ridusse a una “fortaja”, si salvò solo perché con un salto si attaccò alla rete di recinto dell’orto “tuto indolentrà”.
Gino Ciscato che in quel momento rincasava in bicicletta con la fisarmonica a tracolla, nel vedere la macchina sfrecciare a quella velocità “sborì fora i oci come insiminio”.
Incontrò  qualche altro tardivo passante lungo le stradette  strette della contrà e tutti si tirarono da parte schiacciandosi su per le mure delle case.
Come un “baletón” entrò nella corte di casa con una curva secca e veloce che sollevò un nugolo di polvere e sistemò la macchina sotto il portico ad archi coperto da un “rosàro” rampicante con i fiori che profumavano dolcemente l’aria, confondendo i sentori di stalle e di “luamàri” che c’erano nei dintorni.
Maria la moglie, nel sentire quella macchina entrare così veloce in corte si preoccupò e uscì in fretta a vedere cosa stava succedendo anche perché il cane legato alla catena in corte “scainava” che pareva matto.
Aprì la porta in fretta e alla poca luce della lampada esterna vide la figura agitata del marito.
“N’dove xela la tosa?” gridò Tita appena fu sceso dalla macchina apparendo dal nugolo di polvere.
A vederlo così sembrava quasi “un’apparision”: alla Maria “ghe parea de savariare”.
“Cossa ghetu? Sta calmo Tita, non te go mai visto cussì” disse ansiosa la donna che non capiva ancora il perché di tanta concitazione.
“Te vedissi cosa ca go visto al “Caselo”!! Te vedissi!! ripeteva come “ insiminìo” il marito che dall’agitazione faceva fatica a spiccar  le parole e “par póco no ghe casca la dentiera”.
“Dimelo anca mi porco din schitàro, ca capisse” ribadì sempre più inquieta la Maria.
“A go visto do tose basarse !! Mai vista na roba del genare!! Varda ti che assasini, varda che buej” sputò d’un fiato Tita che sembrava  preda di un’ossessione.
“Va là va là, cossa disito su, cossa sito na fare là stasera “aggiunse trasalendo la moglie.
“Me pare parfin impossibile! Ma sta calmo Tita che te me fè un colpo o te vien un mal te testa can, che te si sogeto e dopo te me fè conbatare”
“Qualo colpo, qualo mal de testa, a te porto a vedàre anca ti”, rispose “avelìo come un can” Tita abbandonandosi  su “l’otomana” in cucina “meso desborasà”.
La televisione in quel momento dava una trasmissione  allora molto seguita, ma in quel momento l’attenzione era da un’altra parte.
La figlia Nadia invece si era ritirata nella sua camera perché l’annoiava quella roba che la madre seguiva e che sapeva di vecchio.
Lei aveva in mente gli amici del Casello e della Capannina e si addormentò con un giornale in mano.
Tita quando si fu calmato tentò di “becolare qualcossa”, ma non andava giù niente e decise di andare a dormire, almeno il sonno lo avrebbe allontanato da quei brutti pensieri e da quelle preoccupazioni.
La notte però, fu tutto “un ramenamento”, non riusciva a prendere sonno, finché non potendone più tornò in corte con la scatola di “Saridon” in mano, perché nel frattempo il mal di testa gli era venuto sul serio.
La luna era ancora là piantata in mezzo al cielo che pareva “cojonarlo” e lui era  sotto il “portego de tribolon” con le sue pene.
“Vuto vedare che a faso un colpo sul serio” pensava angosciato.
“I vol farme morire sti cancari…..” concluse sfinito
Quella “tosa”lo preoccupava sul serio e quegli avvenimenti che negli ultimi tempi avevano caratterizzato la vita del paese gli davano una leggera inquietudine.
Il Cotorossi era stato occupato per giorni dai dipendenti in prevalenza donne per cercare di salvare il loro posto di lavoro.
Comizi in piazza, cortei di lavoratori, studenti e sindacati, botta e risposta con il prete a suon di volantini, articoli sui giornali nazionali e scritte sui muri.
Chiuppano pareva diventato un campo di battaglia e forse si riproponeva nel paese il disagio, lo scontro che a volte si era visto in televisione, ma pareva lontano confinato nelle grandi città o all’estero.
E poi quei giovani che la sera se ne stavano sugli scalini della chiesa a tirar tardi con le chitarre  e le bottiglie di birra , i capelli lunghi e le minigonne scandalose delle ragazze…
Il mondo sembrava “rabaltarsi”
Il vecchio paese con i suoi ritmi e la sua indolenza sembrava spazzato da venti ribelli e strambi che partivano da lontano, prima avevano toccato l’America poi erano finiti in Europa ed ora forse lambiva i piccoli centri.
Con questi pensieri in testa fu sorpreso dal chiarore di una lucciola che si era posata su un po’ di erba della corte.
Ripensò a quando da bambino andava nei campi col cavallo ad aiutare suo padre. Allora in Campo Capelo e in Prolaro se ne vedevano tante di lucciole,  sciami luminosi come stelle che punteggiavano la notte. Ora anche loro stavano sparendo, come i “brombajui, le marie zole” e come i campi che in fretta lasciavano posto alle case e ai capannoni.
Il paese stava cambiando e ormai Tita lo riconosceva a fatica, o forse sentiva che lui stava diventando vecchio, ma  quella sera preferiva pensare che forse era il mal di testa a confonderlo.
Il giorno dopo raccontò  il fatto alla figlia e per tutta risposta aveva ricevuto un riso che sembrava uno sberleffo.
Erano, spiegò Nadia, solo un ragazzo e una ragazza con i  capelli lunghi e quello era agli occhi del paese un altro peccato, come il bacio che si scambiavano dentro alla stanza del “Caselo”.
“Un riso vi seppellirà” aveva un giorno letto su un giornale della figlia quel padre un po’ confuso
“A go paura che i me vol morto sul serio e anca tolto de Berta” pensò sconsolato Tita che non sapeva darsi ragione  di quello che aveva visto, mentre anche un “brusóre can” gli tormentava lo stomaco.

Maurizio Boschiero


3 commenti:

  1. Bellissima storia Maurizio, grazie! Storia che mi ha portata indietro con il tempo

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  2. Tita credeva che fosse un bacio tra due ragazze : visione avveniristica !

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  3. Viva il sessantotto e tutti i giovani di allora pieni di speranze.........................pure noi!!!!!!!!!! Floriana

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