venerdì 26 settembre 2014

Viaggio nel paese ferito da buchi e schei: ci hanno comprati, ora le oasi


 

Il Piano cave torna in commissione

il sindaco: 

non possiamo fermarli

VEDELAGO (TREVISO) - All’inizio era il far west, erano gli anni Sessanta. I pionieri della ghiaia arrivavano qui con le pale. Ogni qualche centinaio di metri, una buca: i veci al bar tra un’ombra e l’altra raccontano che si scavava al massimo due metri. La ghiaia serviva per la ferrovia, per il bisonte di acciaio che collegava il Veneto dei capannoni nascenti. Fotografie in bianco e nero di operai con la terra incollata alla fronte, gli uomini che per primi ficcarono le mani nell’oro bianco di Vedelago, la giara. Per narrare la storia di questo piccolo comune trevigiano – sedicimila abitanti, un milione e ottocentomila metri quadri di terreno evaporati su camion che hanno trasportato via da qui trenta milioni di metri cubi di materiale e altri 17 pronti ad essere estratti nei prossimi anni – servirebbe forse una telecamera fissata in cielo, appesa ad un satellite che sparasse in velocità l’ultimo mezzo secolo.
«Vi si vedrebbe una campagna che si apre, che si squarcia, buchi enormi che si riempiono di acqua e campi che spariscono», scuote la testa Fiorenza Morao, ex consigliere comunale e tra le più battagliere nei comitati civici. Uno scenario peraltro provato dai numeri. Stando al Prac della Regione, infatti, dal 1990 al 2011 in tutta la Regione si sono scavati milioni di metri cubi all’anno, con picchi (in positivo e in negativo) di 12 nel 1990 e di 5,4 nel 2010. Prima, non vi sono rilevamenti statistici, ma i valori stimati complessivi si aggirano attorno ai 180 milioni di metri cubi scavati nel corso di 24 anni. Il destino del Comune, in casi come questi, è scritto da milioni di anni. «Il materasso di ghiaia di questo territorio è il conoide, ossia il deposito alluvionale, che si è formato allo sbocco dei fiumi», spiega Giacinto Cecchetto, storico e assessore alla cultura negli anni Ottanta a Vedelago. Tradotto: la giara migliore che potesse esistere si è accumulata qui, per decine, centinaia di metri sotto terra, coperta da un cappello di sabbie e argilla. 
Così Vedelago è diventato il comune groviera. Perché, finita la fase di far west, è arrivata la dittatura delle regole: era il 1979 quando apparvero le prime (lievi) norme. Ed è così iniziata la battaglia del popolo contro i signori della ghiaia, una guerra dal sapore feudale, latifondista. Anche se all’inizio, tutto sommato, non era così male farsi conficcare in pancia quei corpi meccanici. «La squadra di calcio per anni aveva garantito lo sponsor», dicono i soliti veci al bar. «Decine di persone hanno trovato un lavoro. E i contadini che hanno venduto terreno agricolo a prezzi venti, trenta volte maggiori rispetto a quanto fruttavano le pannocchie. A Vedelago piovevano schei». Ma poi passarono gli anni. Ecco i camion, a tutte le ore. «Rumori fortissimi, polvere che imbianca la biancheria, è il caos», urlano i vicini di casa ancora oggi. E, infine, l’orrore: le cave riempite di rifiuti che lambivano la falda e «chissà cosa stanno davvero buttando, la sotto».
I sindaci ci hanno provato in tutti i modi, a bloccarli. Piero Pignata ha usato il raffinato linguaggio dell’avvocato con ricorsi civili e denunce penali. «Ma è stato inutile », scuote la testa il sindaco dal 1973 al 1987. «É stato violato l’articolo 41, l’ecologia e l’urbanistica hanno perso di fronte alla logica del guadagno». Paolo Quaggiotto, fascia tricolore dal 2004 al 2012, è riuscito solo ad impedire che estendessero al 4% la superficie del territorio agricolo utilizzabile. «Ho persino messo i blocchi di cemento sulla strada per fermare i camion», s’infervora. «Ho dato loro 50 mila euro di multe per i divieti di transito e hanno vinto il ricorso. Ho cercato un patto, l’hanno violato». Loro, i quattro Signori delle cave (Telve, Telve Giambruno, Maccatrozzo e Trentin), rinchiusi nei loro paradisi artificiali fatti di montagne di ghiaia e giganti di acciaio che ribollono di asfalto e smistano sassi di ogni genere, osservano in silenzio la polemica.
Tra tutte, cava Bonelle, è emblema della tensione verso il futuro. «Noi scaviamo in falda e non impattiamo più sul territorio», dice Nicola Trentin, amministratore delegato della Trentin Asfalti. Attorno, il paesaggio è surreale. Due enormi laghi, solcati di aree verdi con asini, caprette e quattrocento oche. «Mangiano l’erba: abbiamo clonato l’idea di Zaia», sorride. Sembra il paese delle fiabe, non fosse che spostando lo sguardo di là spuntano bracci meccanici e una piattaforma dove svetta il redinger, una draga che si conficca decine di metri dentro la terra e ne estrae la linfa, la ghiaia, che poi viene fatta rotolare coi nastri trasportatori verso il business. «Finito di sfruttare la ghiaia qui nascerà un’oasi», dice il presidente di Trentin Ghiaia, Gianfranco Trentin, che però piange una flessione negli affari, come tutti i cavatori in era di rallentamento di maxi opere pubbliche: dai venti milioni di euro di fatturato annui, ora si viaggia a sedici. Per cinquanta dipendenti. Cifre che fanno impressione se confrontate col denaro finito nelle tasche dei cittadini.
Il vicesindaco Marco Perin tira fuori una calcolatrice e tenta improbabili conti legati all’inflazione per arrivare a quantificare che, «da quando c’è l’euro, da tutti i cavatori sono arrivati sì e no cinque milioni di euro ». Lo scorso anno, in tutto, furono 256 mila euro, cifra che probabilmente non cambierà per i prossimi dieci anni. «Ma poi tanto non ci pagano, ci tocca ogni volta aggredire la fidejussione che hanno depositato», scuote la testa. Così, la sfida verso il futuro è quella che propone l’assessore all’Ambiente, Sergio Squizzato. «Riqualificare quelle aree». E mentre lo dice, mostra foto di progetti, rendering, con ponti che entrano nei laghetti e bambini portati per mano da genitori premurosi. Il sindaco, Cristina Andretta, dà l’assenso. È giovane, è classe 1979, veste la fascia da pochi mesi. Tutta questa storia, lei, l’ha sentita raccontare. E mentre guida la sua auto fuori dalla cava si arrabbia per la polvere e fa partire il tergicristallo. «Non possiamo più fermarli», dice. «Possiamo solo attendere e obbligarli a restituirci oasi e parchi splendidi. Lo devono alla terra che li ha arricchiti».
(segnalato da T.G. ns. follower)

3 commenti:

  1. Campa cavallo, non vedrà mai "oasi e parchi splendidi"!! Andate a vedere l'"Oasi Selgea" a Zugliano, poi ne parliamo. E, come su tutte ovunque (il Veneto è pieno!), bisognerebbe mettere il naso sotto il "fondo". Si vendevano ghiaie agli Svizzeri, loro hanno rispetto per il loro ambiente, e, per non fare il viaggio a vuoto (rari i viaggi a vuoto..) si rientravano "scoasse" per chiudere le voragini... Possiamo dire che un bel po' di Italia la abbiamo esportata non solo in braccia, in cervelli, in capitali... ma anche in viscere!

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  2. grazie per aprirci gli occhi !

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  3. Grazie Alago (26/9 dell' 1 e 9)

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