Il Piano cave torna in commissione
il sindaco:
non possiamo fermarli
VEDELAGO (TREVISO) -
All’inizio era il far west, erano gli anni Sessanta. I pionieri della
ghiaia arrivavano qui con le pale. Ogni qualche centinaio di metri, una
buca: i veci al bar tra un’ombra e l’altra raccontano che si scavava al
massimo due metri. La ghiaia serviva per la ferrovia, per il bisonte di
acciaio che collegava il Veneto dei capannoni nascenti. Fotografie in
bianco e nero di operai con la terra incollata alla fronte, gli uomini
che per primi ficcarono le mani nell’oro bianco di Vedelago, la giara.
Per narrare la storia di questo piccolo comune trevigiano – sedicimila
abitanti, un milione e ottocentomila metri quadri di terreno evaporati
su camion che hanno trasportato via da qui trenta milioni di metri cubi
di materiale e altri 17 pronti ad essere estratti nei prossimi anni –
servirebbe forse una telecamera fissata in cielo, appesa ad un satellite
che sparasse in velocità l’ultimo mezzo secolo.
«Vi si vedrebbe una campagna che
si apre, che si squarcia, buchi enormi che si riempiono di acqua e
campi che spariscono», scuote la testa Fiorenza Morao, ex consigliere
comunale e tra le più battagliere nei comitati civici. Uno scenario
peraltro provato dai numeri. Stando al Prac della Regione, infatti, dal
1990 al 2011 in tutta la Regione si sono scavati milioni di metri cubi
all’anno, con picchi (in positivo e in negativo) di 12 nel 1990 e di 5,4
nel 2010. Prima, non vi sono rilevamenti statistici, ma i valori
stimati complessivi si aggirano attorno ai 180 milioni di metri cubi
scavati nel corso di 24 anni. Il destino del Comune, in casi come
questi, è scritto da milioni di anni. «Il materasso di ghiaia di questo
territorio è il conoide, ossia il deposito alluvionale, che si è formato
allo sbocco dei fiumi», spiega Giacinto Cecchetto, storico e assessore
alla cultura negli anni Ottanta a Vedelago. Tradotto: la giara migliore
che potesse esistere si è accumulata qui, per decine, centinaia di metri
sotto terra, coperta da un cappello di sabbie e argilla.
Così Vedelago è
diventato il comune groviera. Perché, finita la fase di far west, è
arrivata la dittatura delle regole: era il 1979 quando apparvero le
prime (lievi) norme. Ed è così iniziata la battaglia del popolo contro i
signori della ghiaia, una guerra dal sapore feudale, latifondista.
Anche se all’inizio, tutto sommato, non era così male farsi conficcare
in pancia quei corpi meccanici. «La squadra di calcio per anni aveva
garantito lo sponsor», dicono i soliti veci al bar. «Decine di persone
hanno trovato un lavoro. E i contadini che hanno venduto terreno
agricolo a prezzi venti, trenta volte maggiori rispetto a quanto
fruttavano le pannocchie. A Vedelago piovevano schei». Ma poi passarono
gli anni. Ecco i camion, a tutte le ore. «Rumori fortissimi, polvere che
imbianca la biancheria, è il caos», urlano i vicini di casa ancora
oggi. E, infine, l’orrore: le cave riempite di rifiuti che lambivano la
falda e «chissà cosa stanno davvero buttando, la sotto».
I sindaci ci hanno provato in tutti
i modi, a bloccarli. Piero Pignata ha usato il raffinato linguaggio
dell’avvocato con ricorsi civili e denunce penali. «Ma è stato inutile
», scuote la testa il sindaco dal 1973 al 1987. «É stato violato
l’articolo 41, l’ecologia e l’urbanistica hanno perso di fronte alla
logica del guadagno». Paolo Quaggiotto, fascia tricolore dal 2004 al
2012, è riuscito solo ad impedire che estendessero al 4% la superficie
del territorio agricolo utilizzabile. «Ho persino messo i blocchi di
cemento sulla strada per fermare i camion», s’infervora. «Ho dato loro
50 mila euro di multe per i divieti di transito e hanno vinto il
ricorso. Ho cercato un patto, l’hanno violato». Loro, i quattro Signori
delle cave (Telve, Telve Giambruno, Maccatrozzo e Trentin), rinchiusi
nei loro paradisi artificiali fatti di montagne di ghiaia e giganti di
acciaio che ribollono di asfalto e smistano sassi di ogni genere,
osservano in silenzio la polemica.
Tra tutte, cava Bonelle, è emblema della
tensione verso il futuro. «Noi scaviamo in falda e non impattiamo più
sul territorio», dice Nicola Trentin, amministratore delegato della
Trentin Asfalti. Attorno, il paesaggio è surreale. Due enormi laghi,
solcati di aree verdi con asini, caprette e quattrocento oche. «Mangiano
l’erba: abbiamo clonato l’idea di Zaia», sorride. Sembra il paese delle
fiabe, non fosse che spostando lo sguardo di là spuntano bracci
meccanici e una piattaforma dove svetta il redinger, una draga che si
conficca decine di metri dentro la terra e ne estrae la linfa, la
ghiaia, che poi viene fatta rotolare coi nastri trasportatori verso il
business. «Finito di sfruttare la ghiaia qui nascerà un’oasi», dice il
presidente di Trentin Ghiaia, Gianfranco Trentin, che però piange una
flessione negli affari, come tutti i cavatori in era di rallentamento di
maxi opere pubbliche: dai venti milioni di euro di fatturato annui, ora
si viaggia a sedici. Per cinquanta dipendenti. Cifre che fanno
impressione se confrontate col denaro finito nelle tasche dei cittadini.
Il vicesindaco Marco Perin tira fuori una
calcolatrice e tenta improbabili conti legati all’inflazione per
arrivare a quantificare che, «da quando c’è l’euro, da tutti i cavatori
sono arrivati sì e no cinque milioni di euro ». Lo scorso anno, in
tutto, furono 256 mila euro, cifra che probabilmente non cambierà per i
prossimi dieci anni. «Ma poi tanto non ci pagano, ci tocca ogni volta
aggredire la fidejussione che hanno depositato», scuote la testa. Così,
la sfida verso il futuro è quella che propone l’assessore all’Ambiente,
Sergio Squizzato. «Riqualificare quelle aree». E mentre lo dice, mostra
foto di progetti, rendering, con ponti che entrano nei laghetti e
bambini portati per mano da genitori premurosi. Il sindaco, Cristina
Andretta, dà l’assenso. È giovane, è classe 1979, veste la fascia da
pochi mesi. Tutta questa storia, lei, l’ha sentita raccontare. E mentre
guida la sua auto fuori dalla cava si arrabbia per la polvere e fa
partire il tergicristallo. «Non possiamo più fermarli», dice. «Possiamo
solo attendere e obbligarli a restituirci oasi e parchi splendidi. Lo
devono alla terra che li ha arricchiti».
25 settembre 2014 corriere del veneto.it
(segnalato da T.G. ns. follower)
Campa cavallo, non vedrà mai "oasi e parchi splendidi"!! Andate a vedere l'"Oasi Selgea" a Zugliano, poi ne parliamo. E, come su tutte ovunque (il Veneto è pieno!), bisognerebbe mettere il naso sotto il "fondo". Si vendevano ghiaie agli Svizzeri, loro hanno rispetto per il loro ambiente, e, per non fare il viaggio a vuoto (rari i viaggi a vuoto..) si rientravano "scoasse" per chiudere le voragini... Possiamo dire che un bel po' di Italia la abbiamo esportata non solo in braccia, in cervelli, in capitali... ma anche in viscere!
RispondiEliminagrazie per aprirci gli occhi !
RispondiEliminaGrazie Alago (26/9 dell' 1 e 9)
RispondiElimina