“E ora ci colleghiamo col nostro inviato per ascoltare le parole del Papa, in diretta da San Pietro...”
Già me la immaginavo, la
papamobile che costeggia l’Astico per poi risalire la Pontara,
girare verso la piazza e parcheggiarsi di fronte alla fontana, con
GP2 che, perché no, passa anche a mangiarsi un gelato al bar della Mary magari la Coppa Oro con le
meringhe che a me piaceva tanto.
Ci ho messo un po’ a
capire che San Pietro, quella con la cupola e le guardie svizzere,
sta a Roma, che con la Valdastico non c’entra niente e che
probabilmente il Papa la Coppa Oro non sapeva neanche cosa fosse.
Facendo due calcoli,
dovevo avere circa 3 mesi quando per la prima volta, superato il
curvone che accarezza il cimitero, ho visto il cartello bianco ‘SAN
PIETRO’ scorrere veloce alla mia destra, e quindi la cappella
dell’emigrante, il parco giochi, il municipio, la biblioteca, poi
naturalmente la piazza con la sua Chiesa, forse troppo grande per un
paese così piccolo, ma forse anche per quello così bella e
imponente, quindi la Seconda e Gastone, il bar e infine la salita e
finalmente casa.
Intendiamoci, non è che
la mia casa di Valdastico sia particolarmente grande, anzi sono
abbastanza sicuro che sia addirittura più piccola del mio
appartamento di Milano, però ci sono le scale. E allora, per quanto
possa essere piccola, una casa a tre piani con le scale è un
castello, soprattutto se nel palazzo di via Lorenteggio, che di piani
ne ha 8, abiti su un piano solo. E poi intorno ci sono le montagne,
che diciamolo hanno sempre il loro fascino. E ogni paragone non conta
più per il bambino milanese.
Le scale, le bellissime
scale di legno hanno sempre avuto un grandissimo fascino. Soprattutto
quando poi la voce della zia Linda riecheggiava per tutti e tre i
piani: “Mòleghe de nar sù e dò
par le scale!” che per un bambino abituato a vivere su un
piano solo era sicuramente un grandissimo deterrente. E quindi via
un’altra mezzora buona a correre sù e giù. Con buona pace della zia
Linda.
E poi tutti gli altri posti magici nella loro ordinaria straordinarietà, se sei abituato a vivere in un ambiente completamente diverso: la soffitta con la sua botola impolverata che faceva tanto passaggio segreto, la “teda”, la vecchia stalla, una specie di luogo mistico che quando capitava che la zia Linda dovesse andarci era un’avventura... e i Fodati, a casa della Zia Nerina. Tra l’altro... penso di aver passato davvero tanto tempo a cercare di capire perché se i Fodati si chiamano Fozati nessuno li chiama mai con il loro vero nome. Poveri Fozati.
Ho sempre pensato che la
bellezza della mia casa di Valdastico stia anche nella sua posizione.
Al confine tra il paese e la campagna. In cima alla salita arrivando
dal paese, in cima alla salita arrivando dalla campagna. Potevo
uscire di casa, guardare a destra e vedere i primi negozi sulla
strada verso la piazza. Potevo guardare a sinistra e perdermi con lo
sguardo lungo la strada che si avviava verso il capitello e, se avevi
voglia di camminare ancora un po’, verso il Gorgo.
La camminata serale verso il capitello, ad ogni modo, era un vero must, sicuramente un ottimo modo di passare una serata per un bambino di Milano che grandi serate in giro per la città sicuramente non poteva ancora farne.
Quando capita che si rompa un paio di scarpe, il buon milanese ben calato nell’era del consumismo le butta senza pensarci troppo e ne compra un paio nuovo, ma non mia madre. “Le portiamo da Gino” diceva. E le scarpe vivevano altri due anni. Ricordo che ogni estate in macchina c’era sempre posto per un sacchetto di plastica pieno di scarpe. Destinazione? Da Gino, naturalmente. Sembrava quasi una bottega del presepe, quattro metri quadrati d’altri tempi soravvissuti fino a qualche anno fa. Una mentalità, una metodologia di lavoro completamente anacronistiche in una società come la nostra, che in fondo mi hanno sempre fatto riflettere. Ci si potrebbe fare sopra parecchia filosofia, ma quella la lascio a qualcun altro. Io mi limiterò a ricordare per sempre il sorriso di Gino, l’allegria di un uomo che amava il proprio lavoro e le magie che questo lavoro, anzi questa arte, riuscivano a compiere.
Mi fermo un attimo. Scorro velocemente i ricordi e mi rendo conto con un pizzico di nostalgia di quanti pezzi di Valdastico che ho fatto in tempo a conoscere e vivere non ci siano più. Gino è solo l’ultimo di questi tasselli, e con lui Gastone (qualche chilo di formaggio sottovuoto era il minimo indispensabile per tornare a Milano e avere un po’ di queste montagne a tavola ogni sera), il bar in piazza con la sopracitata Coppa Oro, la macelleria e tante altre piccole cose, fino alla storica pizzeria Green Valley riaperta con nuova gestione da poco dopo essere stata chiusa a lungo. Di alcuni di questi posti ricordo ormai solo vagamente le facce dei proprietari, dal macellaio alla barista, persone che nel loro piccolo andavano a comporre l’universo Valdastico nei ricordi del bambino milanese che aspettava sempre l’occasione successiva per farci ritorno in quell’universo.
Non posso poi non citare
il ritorno dal bosco, ai cui partecipanti e organizzatori vanno i più
grandi complimenti per aver saputo creare e perfezionare negli anni
una manifestazione straordinaria, capace di far rivivere una realtà
ormai dimenticata, ma intrisa di un’umanità, di un amore per la
propria terra e il proprio passato ormai raro e difficile da
apprezzare in una grande città (e non solo).
Ricordo la prima edizione, il fiume di gente che scorreva nella strada principale di San Pietro, troppo piccola per contenere tutti, ma non abbastanza da scoraggiare i visitatori. Oltre diecimila. La cosa più bella ed emozionante non era tanto la sfilata, gli addobbi nel paese, le mucche lanciate lungo la via o il sindaco che le rincorreva armato di pala e carriola, quanto il sorriso, la soddisfazione vera, di chi la festa l’aveva pensata, organizzata, vista nascere. Di chi aveva fatto tanto e di chi aveva fatto poco, di chi ci aveva dedicato intere ore di lavoro e di chi aveva semplicemente partecipato alla sfilata. Quella sera sono tornato a Milano ammirato e orgoglioso, felice di poter dire, sebbene con molte virgolette e molto alla lontana, di far parte in qualche modo anche io di quella gente, di quella comunità così piccola ma così vera.
Ricordo la prima edizione, il fiume di gente che scorreva nella strada principale di San Pietro, troppo piccola per contenere tutti, ma non abbastanza da scoraggiare i visitatori. Oltre diecimila. La cosa più bella ed emozionante non era tanto la sfilata, gli addobbi nel paese, le mucche lanciate lungo la via o il sindaco che le rincorreva armato di pala e carriola, quanto il sorriso, la soddisfazione vera, di chi la festa l’aveva pensata, organizzata, vista nascere. Di chi aveva fatto tanto e di chi aveva fatto poco, di chi ci aveva dedicato intere ore di lavoro e di chi aveva semplicemente partecipato alla sfilata. Quella sera sono tornato a Milano ammirato e orgoglioso, felice di poter dire, sebbene con molte virgolette e molto alla lontana, di far parte in qualche modo anche io di quella gente, di quella comunità così piccola ma così vera.
Sono passati molti anni ormai da quelle estati spensierate a Valdastico, ormai mi capita molto raramente di salire per qualche giorno e mi dispiace sapere San Pietro sempre più vuoto, soprattutto ricordando la vitalità di appena dieci anni fa. Eppure, guardando le bellissime fotografie che Federico Toldo pubblica su Facebook, leggendo qualche post sul blog o semplicemente sentendo ogni tanto mia madre aggiornarsi (sono stato bravo, non ho detto spettegolare) sugli ultimi avvenimenti della Valle, mi piace pensare che comunque vadano le cose, qualunque strada dovessi imboccare, qualunque futuro attenda la Valle dell’Astico, le mie origini siano anche lì, ben radicate sulle montagne che sovrastano maestose San Pietro, quel piccolo, ma per me sempre bellissimo Paese che in fondo sarà sempre un po’ casa mia.
Federico Lucrezi Milano
Bellissimo racconto Federico,mi hai fatto scendere le lacrime.
RispondiEliminaIdem per me come per anonimo delle 8.11. Grazie Federico! E' proprio vero, chi viene d fuori sa apprezzare molto di più e piccole cose che ci sono in loco.
RispondiEliminaSono felice di apprendere che un altro "mezzo milanese", lorenteggino doc, adora San Piero, evidentemente questa valle incantata se lo merita davvero, molto bello e pieno di sentimento il racconto Floriana
RispondiEliminaBravo Fede, proprio un bell'intervento e anche inaspettato. Ti aspettiamo ancora.
RispondiEliminaLassa chei fae autostrada e calcificio, po' ghin parlemo.. ne tocarà portarghe i oji santi a calchedun!
RispondiEliminaPenso che questo Federico sia il figlio della Clara da Milano vero? Bravissimo e complimenti. Un ricordo molto particolare da cui traspare un certo attaccamento al paese. Quelli da fuori apprezzano e noi? Ma è sempre stata così. Raccontaci ancora qualcosa Federico grazie ciao
RispondiEliminaBravissimo a questo ragazzo che non ho l'onore di conoscere. Ce ne fossero. E noi quando iniziamo a decantare questo paese? Avete visto di notte che bello? Bravo anche all'altro Federico (ho visto la sua mostra quest'estate).
RispondiEliminaFedeeeeeeeeeeee
RispondiEliminanon cambio opinione su di te lo sai vero???
Si vedeva Federico che eri felice e liberoo
RispondiEliminaquando arrivavi in via Alpi,improvvisamente tutto cambiava.
C'era un'aria positiva
Ti ricordavo un bambino che mi piaceva tanto,ingenioso ,educato,entusiasta sopratutto.
Ti ritrovo improvvisamente con questo struggente post un'uomo.
Ho letto tempo fa una frase:non vediamo i luoghi per come sono ma per come siamo.
Da come scrivi sei diventato una bella persona.
Un pensiero caro a tua madre
Buona vita Federico.
Grazie per questo post.
Anch'io amo molto il mio paese sono contenta di viverci,anche se.......
Ciao Federico, scusa il tono confidenziale. Non ci conosciamo, sono il figlio di Gino. Sono contento di come ricordi la bottega e soprattutto "l'anima" sorridente della bottega. Spero di incontrarti quanto prima e fra una pacca sulla spalla ed una stretta di mano scambiare quattro chiacchiere. A presto....ci conto.
RispondiEliminaMolto volentieri, a presto!
EliminaQuando arrivi in zona chiamami, abito ad Arsiero. Domenico Serafini e sono sull'elenco telefonico. Buona serata.
EliminaVi ringrazio per i bei commenti che mi hanno fatto molto piacere. Certo, chi viene da fuori spesso riesce ad apprezzare tutte le piccole cose che vissute quotidianamente si finisce per dare per scontate, ma d'altra parte a Milano è ormai raro trovare un po' di attaccamento alla città e da questo punto di vista siete molto più avanti, iniziative come il ritorno dal bosco e, perché no, questo stesso blog ne sono un bell'esempio!
RispondiEliminaA presto!