Storia
di un corsaro
Ma quando facevo il
pastore
allora ero certo del tuo
Natale.
I campi bianchi di brina,
i campi rotti al gracidio
dei corvi (…)
I tronchi degli alberi
parevano
Creature piene di ferite;
mia madre era parente
della vergine,
tutta in faccende
finalmente serena.
Io portavo le pecore fino
al sagrato
e sapevo d’esser uomo
vero
del tuo regale presepio.
David Maria
Turoldo
Fossi poeta Mio Dio,
chissà con quali meravigliose parole riuscirei a cantare il tuo
Natale, o magari solo l’inverno, la tua stagione più amata, ma non
hai voluto che avessi questa grazia. Allora come una gazza rubo un
po’ qua un po’ là le parole dei poeti veri, e invento storie senza
capo né coda, ma tu lo sai, sono come le preghiere in latino mandate
a memoria dai miei vecchi senza comprenderne il significato eppure
non per questo di fede minore. Spero vorrai continuare a perdonarmi e
a perdonarli.
Le notti di dicembre
sulla montagna indossano il vestito bianco e nero di Pierrot e
lacrimano stelle. C’è il nero del bosco e c’è il bianco della
neve. Bianche sono la luna e la Via Lattea che si stira indolente
verso nord, neri sono i profili delle case e i pali del telefono.
Bianco è il mio respiro che si condensa nel gelo della notte.
Bianco è il fumo buono
di legna che sale dai camini, dritto verso il cielo, a ricordarmi che
là sotto c’è calore e umanità. Nero, il letame gelato, scavato
di fresco per creare il mio nascondiglio. Bianco è il colore del
silenzio, quello della solitudine è nero.
Per una intera notte ho atteso la volpe, colmo di rancore e voglia di vendetta, non una sola gallina mi ha risparmiato la grande predatrice, ma io non so uccidere, non esiste al mondo causa giusta per farlo, e lei lo sa bene; cosi bene, da girarmi attorno per più di un’ora schernendomi. Alla fine sono così ridicolo nei panni del crudele vendicatore che scoppio a ridere, è una risata che ha il potere della redenzione; mentre lei, la Rossa, se ne va caracollando per la propria strada, scrollando beffarda la testa, commiserando certo la mia debolezza, io batto le mani contro
le cosce per farle rivivere e sono felice che sia finita così. E questa notte nella buca dello stabbio dove ho atteso per ore, lunghe e inutili, come a volte è la vita, ricordo altre notti bianche e nere, prima che il fasto della modernità le inquinasse di luce, e ricordo giorni di bianco e celeste. Sono storie semplici, ma che andrebbero raccontate con ben altra voce della mia e soprattutto chiederebbero d’essere rievocate nell’antica lingua del mio popolo, solo così diventerebbero vere sino in fondo.
Esco dalla mia fossa e ci vogliono minuti buoni perché il sangue torni alle vene e dalle vene al cervello e in questo tempo di nessuno, ricominciano ancora, uguali a sempre, le voci che mi hanno accompagnato bambino, a volte aspre, gridate feroci, a volte larghe di dolcezza inusitata capaci ancora di accarezzare i pensieri. Mi convinco che qualcosa lo debba a questi richiami di lontano… scrivere ad esempio.
Per una intera notte ho atteso la volpe, colmo di rancore e voglia di vendetta, non una sola gallina mi ha risparmiato la grande predatrice, ma io non so uccidere, non esiste al mondo causa giusta per farlo, e lei lo sa bene; cosi bene, da girarmi attorno per più di un’ora schernendomi. Alla fine sono così ridicolo nei panni del crudele vendicatore che scoppio a ridere, è una risata che ha il potere della redenzione; mentre lei, la Rossa, se ne va caracollando per la propria strada, scrollando beffarda la testa, commiserando certo la mia debolezza, io batto le mani contro
le cosce per farle rivivere e sono felice che sia finita così. E questa notte nella buca dello stabbio dove ho atteso per ore, lunghe e inutili, come a volte è la vita, ricordo altre notti bianche e nere, prima che il fasto della modernità le inquinasse di luce, e ricordo giorni di bianco e celeste. Sono storie semplici, ma che andrebbero raccontate con ben altra voce della mia e soprattutto chiederebbero d’essere rievocate nell’antica lingua del mio popolo, solo così diventerebbero vere sino in fondo.
Esco dalla mia fossa e ci vogliono minuti buoni perché il sangue torni alle vene e dalle vene al cervello e in questo tempo di nessuno, ricominciano ancora, uguali a sempre, le voci che mi hanno accompagnato bambino, a volte aspre, gridate feroci, a volte larghe di dolcezza inusitata capaci ancora di accarezzare i pensieri. Mi convinco che qualcosa lo debba a questi richiami di lontano… scrivere ad esempio.
Il grande bosco di larici
era appena spolverato da un sottile strato di neve, cristallizzata
come lo zucchero sulla focaccia di latte colostro, ricetta antica dei
contadini di montagna, fonte principe di anticorpi che ci hanno
salvato la vita infinite volte, cibo di odore ancora prima che di
sapore; odore potente e grasso di erba e terra… di sangue.
Obarbint, il vento dal
nord, sfrangiava le nuvole sparpagliando il cielo di stracci bianchi
e celesti. Bianco d’opale e celeste profondo, come lo erano le
vesti della Madonna sull’altare della chiesa. Quando, nei brevi
giorni d’inverno, respira sopra i tetti delle case quel vento
sciagurato, il suo alito di ghiaccio si porta appresso inquietudini
assortite per uomini e bestie e dura fino al momento in cui deve
calare la notte, solo allora i vivi sembrano ritrovare una parvenza
di quiete.
La notte, in questa
stagione, è sempre pronta a balzare fuori e a ghermire con le sue
ombre improvvise la poca luce rimasta, ma per ora se ne stava ancora
accucciata prudente dietro all' Hasplkhnott, la montagna dalla strana
forma che chiude l’orizzonte dell’altopiano ad est. Riverberi di
un sole sfinito avrebbero fatto scintillare ancora per un po’ i
ghiaccioli appesi alle gronde dei tetti.
L’uomo lo stava
ripetendo da settimane, quel giorno sarebbe stato quello giusto,
l’unico giorno giusto tra i trecentosessantacinque che componevano
anche l’anno del Signore 1977, anno di assenze e di treni lasciati
partire senza alcuna voglia di salirvi per chi scrive. Sotto al
cappello di Borsalino verde bottiglia, si schiacciò il berretto di
lana rosso, uno strano abbinamento, ma che aveva le sue ragioni. “Un
uomo è il suo cappello” aveva insegnato ai figli, così non se la
sentiva di rinunciarvi nemmeno d’inverno, ma quando Obarbint si
ostina a congelarti le orecchie e fartele cadere a pezzi, devi per
forza correre ai ripari e il berretto rosso era l’unico che
trovasse spazio sotto il prezioso Borsalino. Prima che arrivasse la
neve vera, prima che il gelo artigliasse la montagna per non
lasciarla più fino ad aprile, c’era da lavorare attorno al grande
faggio, il faggio madre di tutti i faggi della montagna, (perché
nell’antica lingua, si dice puach ed è femmina) occorreva tagliare
i rami più bassi e i polloni improduttivi, in tutto sarebbero state
tre o quattro belle slitte di ottima legna, certo, non poteva essere
utile per quell’inverno già dietro alla porta, avrebbe aspettato,
pazientemente accatastata al solivo, quello a venire.
E poi, con l’occasione, il giorno era propizio anche per il Kristpòum, l’albero che avrebbe ricordato a tutta la famiglia, la loro discendenza dalle genti del nord che non conoscevano presepi per Natale. Il freddo gelava l’umidità in sottili fili d’argento magicamente sospesi a formare ragnatele di cristallo appese ai raggi di quel sole spossato.
E poi, con l’occasione, il giorno era propizio anche per il Kristpòum, l’albero che avrebbe ricordato a tutta la famiglia, la loro discendenza dalle genti del nord che non conoscevano presepi per Natale. Il freddo gelava l’umidità in sottili fili d’argento magicamente sospesi a formare ragnatele di cristallo appese ai raggi di quel sole spossato.
L’uomo si caricò sulle
spalle la slitta, pesante come una croce, di legno antico, legno di
faggio, duro come la pietra, di cui aveva preso anche il colore, e
che nessuna lama di scure avrebbe potuto intaccare senza ricevere in
cambio le stesse tacche nell’acciaio. Chiamò il ragazzo e andarono
assieme. Dall’ultima finestra dell’ultima casa prima di lasciare
il paese, la donna che nessuno aveva più visto da almeno
cinquant’anni e che l’uomo ricordava bambina, bambino egli
stesso, la donna che il giovane non avrebbe mai potuto incontrare per
la strada o nel bosco, li salutò da dietro gli scuri chiusi con voce
di ragazza. Si fermarono, e l’uomo parlò del tempo e della luna,
che era quella giusta per lavorare il faggio. Poi indugiarono sui
ricordi, di un’età in cui gli anni si contavano in numeri romani,
le strade erano di terra e sassi, i palloni e le bambole di stracci,
tempi miserrimi, di lingua negata, ma per loro dolci di fanciullezza.
Il ragazzo si annoiava, e da fermi il freddo si infilava negli
scarponi senza chiedere permesso, -vado avanti- disse senza riguardo
e senza saluto. Invece percorse solo cento metri prima di voltarsi
per guardare se l’uomo lo seguisse, allora lo vide togliersi il
cappello, piegarsi assieme alla slitta, che portava infilata sulle
spalle come uno zaino con spallacci di legno, in un profondo e buffo
inchino per saluto.
Erano strambi l’uomo e
la donna che nessuno aveva più visto da almeno cinquant’anni.
Il ragazzo riprese deciso
il suo passo, ma presto sentì vicino quello dell’altro, passo
sicuro seppur leggero, sull’erba e le foglie glassate di
zucchero-neve.
Sopra lo strato sottile
di bianco, orme solite mostravano la lotta interminabile e
interminata per la vita; quelle della volpe tracciavano un’apparente
girovagare senza meta per poi incrociare e seguire come per caso
quelle della lepre. La corsa della preda invece, puntava dritta al
culmine del dosso; solo una volta arrivati lassù, l’uomo e il
ragazzo avrebbero scoperto quale dei due selvatici, la notte
precedente, avesse vinto la propria scommessa per la conservazione.
Appena oltre il poggio, le péste della lepre scomparvero come per
incantesimo, come se la bestia avesse messo le ali, mentre quelle
della volpe ripresero uno svogliato vagabondare solitario. - Ha
saltato, questa volta gliela ha fatta - disse l’uomo senza alcuna
enfasi nella voce e senza altre parole, come se tutta una storia
futura fosse già stata detta.
Al ragazzo piaceva
correre avanti, e quando i passi dell’uomo ormai si accompagnavano
stabilmente ai suoi, corse. È questo il solo motivo per cui le vide
per primo quelle orme strane sull’organza di neve stesa sopra il
prato. Di cane… forse, ma più profonde e unghiate, tornò a
fermarsi e attese. L’uomo sopraggiunto non prestò attenzione alla
traccia misteriosa, solo con gli occhi indicò una punta di spillo
rubino, che andava allargandosi piano, e un’altra, e un’altra
ancora, sino alla scaffa. Nel silenzio remoto della montagna, l’uomo
sfilò la slitta dalle spalle e la lasciò sul posto, i suoi passi si
fecero leggeri come a primavera la lana delle pecore attaccata allo
steccato, come forse neppure un angelo avrebbe avuto. Piano,
sottovoce, prese a cantare una vecchia canzone, quella con la quale
sua nonna, e generazioni di donne prima di lei, incantavano
il gallo nero avanti di tirargli il collo; streghe, le hanno chiamate i tuoi ministri Signore, chissà se le donne abiteranno le montagne abbastanza a lungo per poterli perdonare. La cerva li guardava con occhi che ammaestravano alla bontà. Respirava a fatica, le ferite erano profonde, l’uomo seguitava ad avvicinarsi e a cantare, la cerva incantata lo lasciava fare sino a quando l’uomo le accarezzò il muso. Il ragazzo aveva tagliato due grossi rami di abete e li aveva intrecciati sulla slitta, sopra vi appoggiò la sua giacca e chiese la giacca dell’uomo, vi adagiarono piano la cerva, appena legata con le cinture dei pantaloni. L’ombra vermiglia lasciata sotto la grande scaffa avrebbe fatto impazzire la volpe quella notte, che ne avrebbe leccato avida sino l’ultima stilla.
il gallo nero avanti di tirargli il collo; streghe, le hanno chiamate i tuoi ministri Signore, chissà se le donne abiteranno le montagne abbastanza a lungo per poterli perdonare. La cerva li guardava con occhi che ammaestravano alla bontà. Respirava a fatica, le ferite erano profonde, l’uomo seguitava ad avvicinarsi e a cantare, la cerva incantata lo lasciava fare sino a quando l’uomo le accarezzò il muso. Il ragazzo aveva tagliato due grossi rami di abete e li aveva intrecciati sulla slitta, sopra vi appoggiò la sua giacca e chiese la giacca dell’uomo, vi adagiarono piano la cerva, appena legata con le cinture dei pantaloni. L’ombra vermiglia lasciata sotto la grande scaffa avrebbe fatto impazzire la volpe quella notte, che ne avrebbe leccato avida sino l’ultima stilla.
Il ragazzo esitò ancora
un poco attorno alle strane impronte, l’uomo continuava ad
ignorarle e a cantare, il suo canto era una ninnananna che acquietava
la bestia ferita e ammansiva il mondo poi con prudenza si lasciò a
scivolare a valle assieme alla slitta con il suo insolito carico.
Vespro camminava già per
le strade vuotandole, e nessuno, tranne la donna delle persiane
chiuse, li vide entrare in paese.
Dicembre è mese di
nascite nelle stalle, l’uomo e il ragazzo sistemarono il selvatico
sul fieno vicino al vitello della notte prima. Respiri diversi si
incrociarono, diverse attese di vita.
Chiamato con urgenza, non
ci mise molto il maestro saggio ad arrivare silenzioso e discreto. Il
taumaturgo delle bestie curò la cerva come solo lui sapeva, senza
parole, senza domande, poi salutò tutti quanti, lasciando cadere nel
vapore denso della stalla un semplice… forse.
-Per il faggio le ore
sono andate, ma per il Kristpòum si può fare ancora.- Andarono
l’uomo e il ragazzo e prese a nevicare. – Ora non si
distingueranno già più quelle orme di cane – Niente cani,
quest’oggi, dovremo stare attenti nelle notti a venire –
Tornarono, la notte era bianca appena punteggiata di nero,
addomesticata da una finestra di luce, quelli di casa li stavano
aspettando alzati.
La primavera dell’anno
del Signore 1978 tardò a lungo ad arrivare. L’uomo che scriveva
storie nella piccola casa rosa ai margini del bosco ebbe tutto il
tempo di finire quella più bella; la Storia di Tönle Bintarn,
Tonino l’Invernatore. Anche per questo, quell’inverno pieno di
neve sarà ricordato.
Quando finalmente i primi colchici bucarono la ghiaccia e tutt’attorno al loro fragile stelo si formarono polle di acqua diamantina, la cerva aveva preso la via del bosco già da molte settimane. Il ragazzo continuò a perdere i treni con puntualità assoluta e insiste nel farlo. Trentacinque anni dopo ha rivisto quella traccia profonda e unghiata, il corsaro più temuto, del quale, il solo pronunciarne il nome significa evocarlo, è tornato stabilmente sulle Alpi, allora forse c’era solo passato… forse.
Quando finalmente i primi colchici bucarono la ghiaccia e tutt’attorno al loro fragile stelo si formarono polle di acqua diamantina, la cerva aveva preso la via del bosco già da molte settimane. Il ragazzo continuò a perdere i treni con puntualità assoluta e insiste nel farlo. Trentacinque anni dopo ha rivisto quella traccia profonda e unghiata, il corsaro più temuto, del quale, il solo pronunciarne il nome significa evocarlo, è tornato stabilmente sulle Alpi, allora forse c’era solo passato… forse.
Vorrebbe raccontarlo a qualcuno di quelli di allora il ragazzo, ma si
accorge che non c’è più nessuno ad ascoltarlo, cosi ha
maramaldeggiato un po’ e ha scritto.
Andrea Nicolussi Golo
Ben Golo, tesì sempre mejo! vanti de sto passo, te rivi al nobel dela poesia roman-sata, o del roman-so poeticato, o ghe inventèmo un nome novo...
RispondiEliminaSì che sei poeta oltre a scrittore e di quelli DOC!!! Bravo Andrea, con te riviviamo dolci emozioni. Grazie
RispondiEliminaGiusto don Sconcho, Andrea è una specie di poeta-trovatore come quelli del XII°s. in Provenza.
RispondiEliminaAvrebbe potuto scrivere questa frase di M.Morgan :
Mi venne detto che le piante e gli alberi cantano silenziosamente per noi umani e che tutto ciò che chiedono in cambio è di cantare per loro”. (Marlo Morgan-"E venne chiamata due cuori")
Andrea sa cantare per la natura e per l'uomo, e sa parlare del tempo in cui l'uomo e la natura sapevano coesistere, senza rime, ma con il cuore.
Eh, ciò, .. a lè ben un G.O.L.O., uno che sa: Guardare Oltre L'Orizzonte.
RispondiEliminaSono rimasta incantata leggendo questo racconto ed ora non ho molte parole per il commento ma me lo sono fatto salvare con l'intenzione di farne un bel quadretto. Molto profonde anche le parole di Padre Turoldo, grazie Andrea !!!!!! Floriana
RispondiEliminaVedrai FLO quello della Notte di Natale non perdertelo!!!
EliminaIo ho pianto... mi ha fatto rivivere il passato in una maniera così coinvolgente, da sembrare d'esser lì!
Dico anch'io che Andrea non è solo uno scrittore e un poeta, ma ha una sensibilità d'animo che ho riscontrato in pochi. Si sente che scrive col CUORE che deve averlo veramente grande.
Grazie Andrea!
Ecco, grazie a tutti. Grazie ad ognuno i voi. Quali altre parole diverse da un grazie sussurato, ma soffiato dal fondo del cuore, possono stare alla pari con quelle che voi mi regalate: don Sconcho sin dal primo mattino, Anonimo che mi chiama addirittura poeta e Odette gentile come sempre: trovatore (amo con tutto me stesso quella lingua, la lingua d'oc, ho percorso a piedi gran parte dell'Occitania Storica) Don sponcho... e poi Floriana che vuole incorniciare le mie povere parole... Ecco io sono solo un piccolo montanaro e chi mi ha conosciuto sa che la mia non è una posa, sono davvero un piccolo montanaro e se le mie parole valgono qualcosa è solo perchè sono le parole che la montagna non ha mai potuto dire. Io non ho meriti! Grazie a Carla che amorevolmente mi ospita sul blog. Di David Maria Turoldo vero grande Poeta nelle cui parole la mia anima si perde avrei voluto trascrivere un brano sulla polenta contenuta nel libro "Mio vecchio Friuli" ma è un po' lungo meriterebbe un post tutto per sé, se Carla lo desidera posso inviarglielo.
RispondiEliminaEcco Grazie ancora e un sereno Natale del Signore a tutti. Andrea
Andrea carissimo, attendo trepidante il racconto della polenta. Se sarà troppo lungo lo pubblicheremo in 2 puntate. Grazie ciao
EliminaAndaloca d'un toi, ... a te ghe tute le fémene in adorassiòn...
RispondiEliminaDai che divento rosso Don. Comunque ricorda che el primo a rispondere qua sora te sei sta ti "sa sètu ti che libri che lezo'" ti ricordi? Un abbraccio a tutti
EliminaAndrea