lunedì 22 dicembre 2014

La storia di Natale

Storia di un corsaro

Ma quando facevo il pastore
allora ero certo del tuo Natale.
I campi bianchi di brina,
i campi rotti al gracidio dei corvi (…)

I tronchi degli alberi parevano
Creature piene di ferite;
mia madre era parente
della vergine,
tutta in faccende
finalmente serena.
Io portavo le pecore fino al sagrato
e sapevo d’esser uomo vero
del tuo regale presepio.

David Maria Turoldo

Fossi poeta Mio Dio, chissà con quali meravigliose parole riuscirei a cantare il tuo Natale, o magari solo l’inverno, la tua stagione più amata, ma non hai voluto che avessi questa grazia. Allora come una gazza rubo un po’ qua un po’ là le parole dei poeti veri, e invento storie senza capo né coda, ma tu lo sai, sono come le preghiere in latino mandate a memoria dai miei vecchi senza comprenderne il significato eppure non per questo di fede minore. Spero vorrai continuare a perdonarmi e a perdonarli.
Le notti di dicembre sulla montagna indossano il vestito bianco e nero di Pierrot e lacrimano stelle. C’è il nero del bosco e c’è il bianco della neve. Bianche sono la luna e la Via Lattea che si stira indolente verso nord, neri sono i profili delle case e i pali del telefono. Bianco è il mio respiro che si condensa nel gelo della notte.
Bianco è il fumo buono di legna che sale dai camini, dritto verso il cielo, a ricordarmi che là sotto c’è calore e umanità. Nero, il letame gelato, scavato di fresco per creare il mio nascondiglio. Bianco è il colore del silenzio, quello della solitudine è nero. 

Per una intera notte ho atteso la volpe, colmo di rancore e voglia di vendetta, non una sola gallina mi ha risparmiato la grande predatrice, ma io non so uccidere, non esiste al mondo causa giusta per farlo, e lei lo sa bene; cosi bene, da girarmi attorno per più di un’ora schernendomi. Alla fine sono così ridicolo nei panni del crudele vendicatore che scoppio a ridere, è una risata che ha il potere della redenzione; mentre lei, la Rossa, se ne va caracollando per la propria strada, scrollando beffarda la testa, commiserando certo la mia debolezza, io batto le mani contro
le cosce per farle rivivere e sono felice che sia finita così. E questa notte nella buca dello stabbio dove ho atteso per ore, lunghe e inutili, come a volte è la vita, ricordo altre notti bianche e nere, prima che il fasto della modernità le inquinasse di luce, e ricordo giorni di bianco e celeste. Sono storie semplici, ma che andrebbero raccontate con ben altra voce della mia e soprattutto chiederebbero d’essere rievocate nell’antica lingua del mio popolo, solo così diventerebbero vere sino in fondo. 
Esco dalla mia fossa e ci vogliono minuti buoni perché il sangue torni alle vene e dalle vene al cervello e in questo tempo di nessuno, ricominciano ancora, uguali a sempre, le voci che mi hanno accompagnato bambino, a volte aspre, gridate feroci, a volte larghe di dolcezza inusitata capaci ancora di accarezzare i pensieri. Mi convinco che qualcosa lo debba a questi richiami di lontano… scrivere ad esempio.
Il grande bosco di larici era appena spolverato da un sottile strato di neve, cristallizzata come lo zucchero sulla focaccia di latte colostro, ricetta antica dei contadini di montagna, fonte principe di anticorpi che ci hanno salvato la vita infinite volte, cibo di odore ancora prima che di sapore; odore potente e grasso di erba e terra… di sangue.
Obarbint, il vento dal nord, sfrangiava le nuvole sparpagliando il cielo di stracci bianchi e celesti. Bianco d’opale e celeste profondo, come lo erano le vesti della Madonna sull’altare della chiesa. Quando, nei brevi giorni d’inverno, respira sopra i tetti delle case quel vento sciagurato, il suo alito di ghiaccio si porta appresso inquietudini assortite per uomini e bestie e dura fino al momento in cui deve calare la notte, solo allora i vivi sembrano ritrovare una parvenza di quiete.
La notte, in questa stagione, è sempre pronta a balzare fuori e a ghermire con le sue ombre improvvise la poca luce rimasta, ma per ora se ne stava ancora accucciata prudente dietro all' Hasplkhnott, la montagna dalla strana forma che chiude l’orizzonte dell’altopiano ad est. Riverberi di un sole sfinito avrebbero fatto scintillare ancora per un po’ i ghiaccioli appesi alle gronde dei tetti.
L’uomo lo stava ripetendo da settimane, quel giorno sarebbe stato quello giusto, l’unico giorno giusto tra i trecentosessantacinque che componevano anche l’anno del Signore 1977, anno di assenze e di treni lasciati partire senza alcuna voglia di salirvi per chi scrive. Sotto al cappello di Borsalino verde bottiglia, si schiacciò il berretto di lana rosso, uno strano abbinamento, ma che aveva le sue ragioni. “Un uomo è il suo cappello” aveva insegnato ai figli, così non se la sentiva di rinunciarvi nemmeno d’inverno, ma quando Obarbint si ostina a congelarti le orecchie e fartele cadere a pezzi, devi per forza correre ai ripari e il berretto rosso era l’unico che trovasse spazio sotto il prezioso Borsalino. Prima che arrivasse la neve vera, prima che il gelo artigliasse la montagna per non lasciarla più fino ad aprile, c’era da lavorare attorno al grande faggio, il faggio madre di tutti i faggi della montagna, (perché nell’antica lingua, si dice puach ed è femmina) occorreva tagliare i rami più bassi e i polloni improduttivi, in tutto sarebbero state tre o quattro belle slitte di ottima legna, certo, non poteva essere utile per quell’inverno già dietro alla porta, avrebbe aspettato, pazientemente accatastata al solivo, quello a venire.
E poi, con l’occasione, il giorno era propizio anche per il Kristpòum, l’albero che avrebbe ricordato a tutta la famiglia, la loro discendenza dalle genti del nord che non conoscevano presepi per Natale. Il freddo gelava l’umidità in sottili fili d’argento magicamente sospesi a formare ragnatele di cristallo appese ai raggi di quel sole spossato.
L’uomo si caricò sulle spalle la slitta, pesante come una croce, di legno antico, legno di faggio, duro come la pietra, di cui aveva preso anche il colore, e che nessuna lama di scure avrebbe potuto intaccare senza ricevere in cambio le stesse tacche nell’acciaio. Chiamò il ragazzo e andarono assieme. Dall’ultima finestra dell’ultima casa prima di lasciare il paese, la donna che nessuno aveva più visto da almeno cinquant’anni e che l’uomo ricordava bambina, bambino egli stesso, la donna che il giovane non avrebbe mai potuto incontrare per la strada o nel bosco, li salutò da dietro gli scuri chiusi con voce di ragazza. Si fermarono, e l’uomo parlò del tempo e della luna, che era quella giusta per lavorare il faggio. Poi indugiarono sui ricordi, di un’età in cui gli anni si contavano in numeri romani, le strade erano di terra e sassi, i palloni e le bambole di stracci, tempi miserrimi, di lingua negata, ma per loro dolci di fanciullezza. Il ragazzo si annoiava, e da fermi il freddo si infilava negli scarponi senza chiedere permesso, -vado avanti- disse senza riguardo e senza saluto. Invece percorse solo cento metri prima di voltarsi per guardare se l’uomo lo seguisse, allora lo vide togliersi il cappello, piegarsi assieme alla slitta, che portava infilata sulle spalle come uno zaino con spallacci di legno, in un profondo e buffo inchino per saluto.
Erano strambi l’uomo e la donna che nessuno aveva più visto da almeno cinquant’anni.
Il ragazzo riprese deciso il suo passo, ma presto sentì vicino quello dell’altro, passo sicuro seppur leggero, sull’erba e le foglie glassate di zucchero-neve.
Sopra lo strato sottile di bianco, orme solite mostravano la lotta interminabile e interminata per la vita; quelle della volpe tracciavano un’apparente girovagare senza meta per poi incrociare e seguire come per caso quelle della lepre. La corsa della preda invece, puntava dritta al culmine del dosso; solo una volta arrivati lassù, l’uomo e il ragazzo avrebbero scoperto quale dei due selvatici, la notte precedente, avesse vinto la propria scommessa per la conservazione. Appena oltre il poggio, le péste della lepre scomparvero come per incantesimo, come se la bestia avesse messo le ali, mentre quelle della volpe ripresero uno svogliato vagabondare solitario. - Ha saltato, questa volta gliela ha fatta - disse l’uomo senza alcuna enfasi nella voce e senza altre parole, come se tutta una storia futura fosse già stata detta.
Al ragazzo piaceva correre avanti, e quando i passi dell’uomo ormai si accompagnavano stabilmente ai suoi, corse. È questo il solo motivo per cui le vide per primo quelle orme strane sull’organza di neve stesa sopra il prato. Di cane… forse, ma più profonde e unghiate, tornò a fermarsi e attese. L’uomo sopraggiunto non prestò attenzione alla traccia misteriosa, solo con gli occhi indicò una punta di spillo rubino, che andava allargandosi piano, e un’altra, e un’altra ancora, sino alla scaffa. Nel silenzio remoto della montagna, l’uomo sfilò la slitta dalle spalle e la lasciò sul posto, i suoi passi si fecero leggeri come a primavera la lana delle pecore attaccata allo steccato, come forse neppure un angelo avrebbe avuto. Piano, sottovoce, prese a cantare una vecchia canzone, quella con la quale sua nonna, e generazioni di donne prima di lei, incantavano
il gallo nero avanti di tirargli il collo; streghe, le hanno chiamate i tuoi ministri Signore, chissà se le donne abiteranno le montagne abbastanza a lungo per poterli perdonare. La cerva li guardava con occhi che ammaestravano alla bontà. Respirava a fatica, le ferite erano profonde, l’uomo seguitava ad avvicinarsi e a cantare, la cerva incantata lo lasciava fare sino a quando l’uomo le accarezzò il muso. Il ragazzo aveva tagliato due grossi rami di abete e li aveva intrecciati sulla slitta, sopra vi appoggiò la sua giacca e chiese la giacca dell’uomo, vi adagiarono piano la cerva, appena legata con le cinture dei pantaloni. L’ombra vermiglia lasciata sotto la grande scaffa avrebbe fatto impazzire la volpe quella notte, che ne avrebbe leccato avida sino l’ultima stilla.
Il ragazzo esitò ancora un poco attorno alle strane impronte, l’uomo continuava ad ignorarle e a cantare, il suo canto era una ninnananna che acquietava la bestia ferita e ammansiva il mondo poi con prudenza si lasciò a scivolare a valle assieme alla slitta con il suo insolito carico.
Vespro camminava già per le strade vuotandole, e nessuno, tranne la donna delle persiane chiuse, li vide entrare in paese.
Dicembre è mese di nascite nelle stalle, l’uomo e il ragazzo sistemarono il selvatico sul fieno vicino al vitello della notte prima. Respiri diversi si incrociarono, diverse attese di vita.
Chiamato con urgenza, non ci mise molto il maestro saggio ad arrivare silenzioso e discreto. Il taumaturgo delle bestie curò la cerva come solo lui sapeva, senza parole, senza domande, poi salutò tutti quanti, lasciando cadere nel vapore denso della stalla un semplice… forse.
-Per il faggio le ore sono andate, ma per il Kristpòum si può fare ancora.- Andarono l’uomo e il ragazzo e prese a nevicare. – Ora non si distingueranno già più quelle orme di cane – Niente cani, quest’oggi, dovremo stare attenti nelle notti a venire – Tornarono, la notte era bianca appena punteggiata di nero, addomesticata da una finestra di luce, quelli di casa li stavano aspettando alzati.
La primavera dell’anno del Signore 1978 tardò a lungo ad arrivare. L’uomo che scriveva storie nella piccola casa rosa ai margini del bosco ebbe tutto il tempo di finire quella più bella; la Storia di Tönle Bintarn, Tonino l’Invernatore. Anche per questo, quell’inverno pieno di neve sarà ricordato.
Quando finalmente i primi colchici bucarono la ghiaccia e tutt’attorno al loro fragile stelo si formarono polle di acqua diamantina, la cerva aveva preso la via del bosco già da molte settimane. Il ragazzo continuò a perdere i treni con puntualità assoluta e insiste nel farlo. Trentacinque anni dopo ha rivisto quella traccia profonda e unghiata, il corsaro più temuto, del quale, il solo pronunciarne il nome significa evocarlo, è tornato stabilmente sulle Alpi, allora forse c’era solo passato… forse. 
Vorrebbe raccontarlo a qualcuno di quelli di allora il ragazzo, ma si accorge che non c’è più nessuno ad ascoltarlo, cosi ha maramaldeggiato un po’ e ha scritto. 
Andrea Nicolussi Golo

10 commenti:

  1. Ben Golo, tesì sempre mejo! vanti de sto passo, te rivi al nobel dela poesia roman-sata, o del roman-so poeticato, o ghe inventèmo un nome novo...

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  2. Sì che sei poeta oltre a scrittore e di quelli DOC!!! Bravo Andrea, con te riviviamo dolci emozioni. Grazie

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  3. Giusto don Sconcho, Andrea è una specie di poeta-trovatore come quelli del XII°s. in Provenza.
    Avrebbe potuto scrivere questa frase di M.Morgan :
    Mi venne detto che le piante e gli alberi cantano silenziosamente per noi umani e che tutto ciò che chiedono in cambio è di cantare per loro”. (Marlo Morgan-"E venne chiamata due cuori")
    Andrea sa cantare per la natura e per l'uomo, e sa parlare del tempo in cui l'uomo e la natura sapevano coesistere, senza rime, ma con il cuore.

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  4. Eh, ciò, .. a lè ben un G.O.L.O., uno che sa: Guardare Oltre L'Orizzonte.

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  5. Sono rimasta incantata leggendo questo racconto ed ora non ho molte parole per il commento ma me lo sono fatto salvare con l'intenzione di farne un bel quadretto. Molto profonde anche le parole di Padre Turoldo, grazie Andrea !!!!!! Floriana

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    1. Vedrai FLO quello della Notte di Natale non perdertelo!!!
      Io ho pianto... mi ha fatto rivivere il passato in una maniera così coinvolgente, da sembrare d'esser lì!
      Dico anch'io che Andrea non è solo uno scrittore e un poeta, ma ha una sensibilità d'animo che ho riscontrato in pochi. Si sente che scrive col CUORE che deve averlo veramente grande.
      Grazie Andrea!

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  6. Ecco, grazie a tutti. Grazie ad ognuno i voi. Quali altre parole diverse da un grazie sussurato, ma soffiato dal fondo del cuore, possono stare alla pari con quelle che voi mi regalate: don Sconcho sin dal primo mattino, Anonimo che mi chiama addirittura poeta e Odette gentile come sempre: trovatore (amo con tutto me stesso quella lingua, la lingua d'oc, ho percorso a piedi gran parte dell'Occitania Storica) Don sponcho... e poi Floriana che vuole incorniciare le mie povere parole... Ecco io sono solo un piccolo montanaro e chi mi ha conosciuto sa che la mia non è una posa, sono davvero un piccolo montanaro e se le mie parole valgono qualcosa è solo perchè sono le parole che la montagna non ha mai potuto dire. Io non ho meriti! Grazie a Carla che amorevolmente mi ospita sul blog. Di David Maria Turoldo vero grande Poeta nelle cui parole la mia anima si perde avrei voluto trascrivere un brano sulla polenta contenuta nel libro "Mio vecchio Friuli" ma è un po' lungo meriterebbe un post tutto per sé, se Carla lo desidera posso inviarglielo.
    Ecco Grazie ancora e un sereno Natale del Signore a tutti. Andrea

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    1. Andrea carissimo, attendo trepidante il racconto della polenta. Se sarà troppo lungo lo pubblicheremo in 2 puntate. Grazie ciao

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  7. Andaloca d'un toi, ... a te ghe tute le fémene in adorassiòn...

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    1. Dai che divento rosso Don. Comunque ricorda che el primo a rispondere qua sora te sei sta ti "sa sètu ti che libri che lezo'" ti ricordi? Un abbraccio a tutti
      Andrea

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