sabato 11 aprile 2020

Una domenica delle Palme - storie di vita contadina sulle colline romagnole


di Fiorenzo Barzanti
Quella domenica mattina la Dalgisa aveva avuto il suo bel da fare. Praticamente aveva passato tutta la casa con il mazzo di rami di ulivo nuovi ed aveva sostituito quelli vecchi. La sua stanza da letto era la più grande. Dopo avere rimosso la bellissima bambola dai capelli biondi, lunghi e cotonati che era sistemata nel centro salì sul materasso che era imbottito di foglie ‘’ad furmanton’’ (di granoturco) e in equilibrio precario tolse il vecchio rametto di ulivo che era appeso al quadro che raffigurava la Madonna e che era appeso alla parete. Nel toglierlo le foglie si staccarono e caddero sulla ‘’valanzana’’. Era una coperta di lana soffice che copriva il letto, lo abbelliva con i suoi colori a volte sgargianti e mitigava il freddo nella mezza stagione. Non tutti i contadini la possedevano. Lei l’aveva comprata l’anno prima da un venditore di corredi, un certo Ivo dla Gustina (Ivo figlio dell’Agostina). Sistemò il nuovo ramo e la stessa cosa fece con i due lettini a fianco di quello suo matrimoniale dove dormivano le due figlie più giovani. Prima di uscire si soffermò soddisfatta a dare un’ultima occhiata alla sua camera. Era proprio bella. La Dalgisa aveva la mania dell’ordine. Ogni mattina appena alzata dava aria alla stanza aprendo le quattro finestre. Vuotava dalla finestra posteriore, quella che dava sul retro della casa e dove c’era ‘’e puzet’’, ‘’e bucalet’’ (il vaso da notte) se per caso durante la notte qualcuno aveva avuto una necessità. Lo lavava poi per bene con l’acqua che stava nella brocca del lavabo. Metteva le lenzuola di tela che aveva fatto lei ed i cuscini a prendere aria sui davanzali della finestra. Sventolava dalla finestra i pigiami, quello del marito Primo era formato da mutande lunghe di lana ed una maglia pure di lana a girocollo. Lui lo portava sia in inverno che in estate perché diceva ‘’du cun pasa e fred un pasa gnenca e cheld’’ (dove non passa il freddo non passa neppure il caldo). Piegò le camice da notte delle ragazze, spazzò, diede la polvere, ripassò velocemente con un panno imbevuto di olio paglierino la specchiera perché le sembrava di notare delle ‘’ditate’’ e rifece i letti. Ogni quindici giorni cambiava le lenzuola e faceva ‘’la bughida’’ (si diceva quando si faceva il bucato delle lenzuola). I colori della stanza erano dati di mobili di legno scuro, dal rosso della ‘’valanzana’’, dal bianco delle federe dei cuscini ricamati volutamente lasciati in bella vista, dalle candele bianche con i porta candele che si trovavano sui tre comodini. C’era la luce elettrica ma spesso, soprattutto in inverno, mancava perché i temporali o la neve abbattevano i pali di legno che sostenevano i fili. Ma il pezzo forte era la grande bambola al centro del letto, bionda, capelli lunghi e cotonati, vestito di pizzo di due colori, guance rubiconde e labbra di un colore rosso splendente. Non vi descrivo i mobili perché ho già avuto occasione di descriverli nel racconto ‘’La camera da letto’’. Invece una sola nota sugli odori che in questo caso io chiamo profumi. Eravamo in aprile ed appesi alle travi di legno facevano bella mostra i salami, le salsicce e la pancetta arrotolata. Emanavano un ottimo profumo derivato dalla stagionatura ma soprattutto dalle spezie che arricchivano la carne per conservarla.
Scusate, mi sono lasciato prendere la mano, ora continuo.
L’operazione proseguì nelle altre stanze, la grande cucina che aveva ben due Madonnine, quella più bella era di gesso, di colore azzurro e con le mani giunte. Era posizionata sopra la grande credenza verniciata pure di azzurro. Poi il retrocucina, la cantina, la stalla, l’ingresso del pollaio e della porcilaia. Fissò alcuni rametti al tronco della grande quercia che dall’aia guardava i campi. Doveva servire di buon augurio per i raccolti.
Come avrete capito vi sto parlando della domenica delle palme quella che precede la Pasqua.
Alla messa della mattina alle 7 la chiesa di San Tommaso era affollatissima. Le donne, una per famiglia, venivano anche dai luoghi più lontani del paese. Alcune avevano percorso 4 o 5 chilometri. Ai piedi dell’altare c’era un grande mucchio di ramoscelli di ulivo. Li avevano preparati il giorno prima Rino e Pio che erano i due figli di Urbano ad Blen (Urbano Belli). Urbano era il contadino mezzadro del prete e la sua casa confinava con la canonica. Era un umo alto ed austero e grande amico di mio babbo. Rimasto vedovo con quattro figli si risposò con la Maria che era la nipote del prete e che viveva nella canonica insieme alla Teresa che era la perpetua. Lei era molto più giovane ma insieme formarono una bellissima e riuscita coppia stimata in tutto il paese.
In chiesa, vi dicevo, il prete Don Antonio fece una lunga funzione alla fine della quale benedì le palme cioè i ramoscelli di ulivo. Io ero il chierichetto e per l’occasione preparai tutto l’occorrente per la benedizione: ‘’l’aspergers’’ (l’aspersorio) e ‘’l’incens’’ (l’incenso che è un piccolo bruciatore con carboni ardenti sui quali si mette un cucchiaino di incenso che scatena il caratteristico profumo ed il fumo bianco).
Alla fine della messa ogni donna si avvicinò all’altare e prelevò i rami di ulivo che servivano per la sua casa. Ovviamente, come tutte le domeniche, si fermarono fuori dalla chiesa per fare qualche chiacchiera. Molte si vedevano solo di domenica ed era un modo per socializzare. Poi ognuna prese la strada di casa. La prima che era la Pia disse: ’’bsogna ca vega che ha iò mes so la pgneta e la burdela lassarà scurdeda ad sc-iumerla’’ (bisogna che vada perché ho messo sul fuoco la pentola per fare il brodo e la bambina si sarà dimenticata di schiumarla).
Siamo alla fine degli anni 50 e ci troviamo a San Tommaso bel paesino sulle colline romagnole di Cesena ed abitato da famiglie di contadini mezzadri. La mia era una di queste ed io ero un bambino al quale sono rimaste impressi molti ricordi.
Vi dicevo prima della Dalgisa che sistemava i ramoscelli di ulivo in casa, sappiate che lei non era andata a messa ma vi aveva mandato la figlia più grande. Caso unico fra le donne del paese la Dalgisa non frequentava la chiesa. La famiglia era soprannominata Piciecia (il cognome vero era Marchi). I vecchi (per modo di dire) erano Primo semplicemente chiamato Piciecia e la moglie Dalgisa che era soprannominata ‘’la Piciecia’’. Era una famiglia numerosa di contadini mezzadri molto buona e rispettata da tutti. Erano dei comunisti sfegatati ma come poteva accadeva in campagna i genitori non frequentavano la chiesa mentre le figlie si. Molti contadini erano simpatizzanti dei partiti politici, i comunisti, i repubblicani, i democristiani ma erano tutti amici e si aiutavano in caso di bisogno. Abitavano in una grande casa che, ristrutturata, esiste ancora. Praticamente quando state per arrivare a San Tommaso provenienti dalla Via Emilia, subito prima del cimitero c’è sulla destra una lunga e bellissima ‘’calera’’ (viale) alla fine del quale c’è la casa. La famiglia vi abitò fino alla fine degli anni 50 poi i figli e le figlie si sposarono e la Dalgisa e Primo andarono ad abitare con il figlio Toni a Ravenna. Toni aveva sposato una mia zia, sorella di mia mamma. Conosco ancora le mie due cugine. A Ravenna si trasferì anche un altro fratello di Toni, conosco bene una sua figlia. Fu quello il periodo nel quale molti contadini delle nostre colline si traferirono a Ravenna in cerca di una condizione economica migliore. Molti fecero i contadini nei poderi pianeggianti e più produttivi. Moltissimi andarono a lavorare nelle industrie petrolifere e chimiche. Molti formarono il nuovo borghetto di Fosso Ghiaia alle porte sud di Ravenna che esiste ancora oggi. In quel paese cercarono di ricostruire la loro comunità e le loro tradizioni. Erano tutti ex contadini ed in ogni casetta avevano piantato un melo, un pero, una vite, un pesco, un susino, un albicocco. Sembrava un mondo chiuso poi i loro figli sono andati a scuola ed ora sono tutti ravennati e perfettamente integrati. All’epoca ben 4 fratelli ed una sorella di mia mamma si trasferirono.
Per completezza vi dico che dopo i Piciecia nella casa a San Tommaso venne ad abitare una famiglia soprannominata Giaz (ghiaccio), in realtà il nome era Bagnolini e più volte vi ho parlato di loro.
Vi dicevo dei Piciecia. Quando a ridosso delle elezioni comunali o nazionali un funzionario del partito comunista da Cesena veniva a tenere un comizio, loro due erano seduti sempre in prima fila. Piciecia con il vestito nero a righe a doppio petto e con il fazzoletto rosso al collo, la Piciecia con il vestito a fiori della domenica e con l’Unità ben in vista sulle ginocchia. Quando il funzionario, quell’anno si chiamava Suzzi, iniziava a parlare ed alzando il pugno diceva ‘’compagne e compagni’’ sul viso bruciato dal sole della coppia scendevano grosse lacrime.
Comunque per Pasqua il prete Don Antonio andava a benedire anche a casa di Piciecia. Era ben accolto e si bevevano un buon bicchiere di vino sangiovese. Perché anche questo era il mondo contadino.
Per Pasqua c’erano alcune tradizioni che tutti osservavano, credenti e non credenti. Il prete passava in ogni famiglia annunciato dal rumore della ‘’scarabatla’’ perché le campane erano legate fino alla vigilia. Benediva la casa e un cesto di uova. Erano le così dette uova benedette. In ogni famiglia la mattina di Pasqua era obbligatorio fare colazione con un uovo sodo benedetto intinto nel sale grosso con una fetta di pagnotta. Piciecia lo accompagnava con un bicchiere di vino sangiovese. Le pagnotte pasquali le portava il fornaio Babi e furner (Babbi il fornaio) che aveva il forno a Diolaguardia e portava il pane con il suo furgoncino bianco a tutti i contadini di Sorrivoli, Saiano, Carpineta, San Tommaso. Oltre al pane ed alla bellissima ‘’spianata’’ croccante cosparsa di olio, rosmarino e sale grosso, 15 giorni prima di Pasqua iniziava a vendere le pagnotte. Erano soffici e buonissime. Pezzatura da un chilo, avevano la crosta dorata, leggermente dolci e salate erano ricche di uvetta.
Tutti i contadini osservavano il giorno della vigilia di Pasqua. Compravano il pesce nella pescheria di Cesena. Si consumavano soprattutto: zival (cefali), puvrazi (poverazze), canoci (canocchie), piscin de gat (pesciolini del gatto, erano piccoli pesciolini da friggere), rossal (triglie), sgombar. Mia sorella era gracilina e mangiava una sogliola.
Molte famiglia il giorno di Pasqua ‘’al faseva ad parint’’ (invitavano a pranzo i parenti) e ‘’al faseiva ad gros’’ (facevano un ricco pranzo).
Infine voglio ricordare un piccolo aneddoto personale.
Piciecia passava per essere un uomo austero e molto severo con i figli. Qualche mese fa ho incontrato la sua figlia più piccola che mi ha raccontato che a San Tommaso si incontrava con il suo filarino la domenica pomeriggio all’inizio del viale che portava a casa sua. Quando vedeva arrivare suo babbo che tornava dal circolo subito si lasciavano perché aveva paura che la sgridasse.
Or bene, in punta di morte suo babbo le confidò: devo confessarti una cosa che non ti ho mai detto, quando ti vedevo con il tuo filarino non volevo assolutamente rimproverarti anzi non l’ho mai fatto. Ci tenevo a che tu lo sapessi.
Per inciso vi dico anche che la Piciecia è morta a 90 anni e fino all’ultimo leggeva il quotidiano l’Unità ed era informatissima.

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