Il professor Umberto Galimberti: Tra questa situazione e una guerra c’è un abisso. La guerra poteva essere interrotta se si faceva la pace, qui la fine non dipende invece da una scelta diretta
I camion che portano via i feretri
da Bergamo? «Un errore farlo di notte. Non vogliamo più vedere la
morte, la rimuoviamo. Ma il Covid19 ce la restituisce». Umberto Galimberti
assiste allo scoppiare della pandemia da corona virus dal suo
appartamento milanese. Filosofo, sociologo, psicanalista, docente
all’Università Ca’ Foscari (Venezia), Galimberti ha un’idea chiara di
quanto sta accadendo, mentre l’isolamento strappa i malati ai parenti
proprio nell’ora più difficile: la morte torna ad assumere una
dimensione pubblica che a lungo tempo l’Occidente le ha negato.
Professor Galimberti,
che effetto le ha fatto vedere i camion dell’esercito che portavano via
nottetempo le bare da Bergamo, o i venticinque feretri lombardi accolti
a Padova dal sindaco?
«Quei camion in processione provocano due riflessioni immediate. La prima è che siamo in una situazione eccezionale, e questo è un monito per tutti coloro che anche se sono affetti da Covid si spostano con disinvoltura, come mostrano i tracciati dei cellulari. La seconda è un interrogativo: perché noi siamo ancora vivi? Ce lo si chiede per il solo fatto che molta gente è morta perché gli ospedali non hanno potuto accogliere tutti. Si sono dovute fare delle scelte. Alcune morti probabilmente erano evitabili. Ma perché non abbiamo pensato a tutto questo quando riducevamo i finanziamenti alla sanità pubblica? Non abbiamo fatto alcuna riflessione quando portavamo in tribunale per mille cause quegli stessi medici che adesso chiamiamo eroi?».
Restando a Bergamo, è stata una buona idea fare quella operazione di notte?
«No. Bisognava farlo di giorno, in modo che fosse chiaro, che la gente si rendesse conto della gravità della situazione. Ma siccome la cultura occidentale ha rimosso la morte, si è ritenuto opportuno di cercare che la gente non vedesse le bare. Che non vedesse la morte nella catastrofe generalizzata. Non abbiamo più capacità critiche per comprendere la morte, data la nostra rimozione».
Quando ha avuto inizio questo fenomeno?
«Le generazioni precedenti avevano la morte sotto i propri occhi. I padri vedevano morire i figli e viceversa. C’erano guerre, pestilenze, carestie. Ora invece quando qualcuno sta male lo si affida all’ospedale, cioè a una struttura tecnica, e quando lo si va a trovare (non è il caso ovviamente del coronavirus) non abbiamo neanche le parole giuste per dirgli qualcosa di significativo. Una pacca sulle spalle, “vedrai che ce la farai”: frasi idiote, che il paziente riceve con uno sguardo di commiserazione. Soprattutto se è in fin di vita. Non abbiamo più le parole con cui comunicare con coloro che se ne vanno, non sappiamo più che cosa bisogna dire nella maniera giusta quando si avvicina la fine della vita, perché con il mito della giovinezza e della salute non sappiamo più che significato attribuire alla morte. Ecco perché quei camion mandati in giro di notte: per non turbare la rimozione collettiva».
Non poter salutare chi se ne va e non poter piangere il proprio defunto sono una grave sofferenza, oggi, per molti. Come supplire a questo rito mancato?
«Quando non si può accompagnare la persona che muore tenendole la mano, sentendone le ultime parole, si determina dentro di noi un senso di colpa spaventoso. Una lacerazione che spesso ci si porta dentro per una vita. Tuttavia, bisogna dire ai sopravvissuti: i morti muoiono ma non muoiono del tutto finché restano nella nostra memoria. E nella nostra invocazione».
Pierluigi Battista scrive sul Corriere della Sera: «circola in questi giorni una metafisica dell’autocolpevolizzazione, in base alla quale il virus sarebbe venuto per castigarci a causa dei nostri crimini sociali e culturali: come se in un nuovo medioevo dovessimo espiare i nostri peccati». Che ne pensa?
«La colpevolizzazione è il cascame di una mentalità religiosa secondo cui le disgrazie vengono perché siamo peccatori e colpevoli. Però una responsabilità ce l’abbiamo. Consiste nel fatto che abbiamo ridotto la Terra a una dimensione invivibile. Non posso affermare che ci sia una correlazione causale tra il disastro ecologico e la comparsa di questo virus, ma penso che una qualche forma di rapporto ci sia. Scriveva Heidegger: “tutto funziona, questo è appunto l’inquietante: che funziona, che il funzionare spinge sempre oltre verso un ulteriore funzionare… Mi sono spaventato, appena ho visto le fotografie della Terra scattate dalla Luna. Non c’è bisogno della bomba atomica, non è più la Terra quella su cui l’uomo oggi vive”».
Molti politici oggi fanno uso di un vocabolario bellico: è una guerra da vincere, dare battaglia al virus. È una buona idea paragonare la pandemia a un conflitto?
«Proprio no. Il problema è che la medicina aveva già assunto un lessico di guerra prima del corona virus: “devi combattere il male”, “fatti forza”, “vincerai”… Ma tra questa situazione e una guerra c’è un abisso. La guerra poteva essere interrotta se si faceva la pace, cioè per decisione umana: qui invece la fine non dipende da una scelta diretta. E poi c’erano le bombe, la devastazione non c’era il cibo, altro che le code al supermercato. E altro che “state a casa”: non c’era proprio la casa».
«Quei camion in processione provocano due riflessioni immediate. La prima è che siamo in una situazione eccezionale, e questo è un monito per tutti coloro che anche se sono affetti da Covid si spostano con disinvoltura, come mostrano i tracciati dei cellulari. La seconda è un interrogativo: perché noi siamo ancora vivi? Ce lo si chiede per il solo fatto che molta gente è morta perché gli ospedali non hanno potuto accogliere tutti. Si sono dovute fare delle scelte. Alcune morti probabilmente erano evitabili. Ma perché non abbiamo pensato a tutto questo quando riducevamo i finanziamenti alla sanità pubblica? Non abbiamo fatto alcuna riflessione quando portavamo in tribunale per mille cause quegli stessi medici che adesso chiamiamo eroi?».
Restando a Bergamo, è stata una buona idea fare quella operazione di notte?
«No. Bisognava farlo di giorno, in modo che fosse chiaro, che la gente si rendesse conto della gravità della situazione. Ma siccome la cultura occidentale ha rimosso la morte, si è ritenuto opportuno di cercare che la gente non vedesse le bare. Che non vedesse la morte nella catastrofe generalizzata. Non abbiamo più capacità critiche per comprendere la morte, data la nostra rimozione».
Quando ha avuto inizio questo fenomeno?
«Le generazioni precedenti avevano la morte sotto i propri occhi. I padri vedevano morire i figli e viceversa. C’erano guerre, pestilenze, carestie. Ora invece quando qualcuno sta male lo si affida all’ospedale, cioè a una struttura tecnica, e quando lo si va a trovare (non è il caso ovviamente del coronavirus) non abbiamo neanche le parole giuste per dirgli qualcosa di significativo. Una pacca sulle spalle, “vedrai che ce la farai”: frasi idiote, che il paziente riceve con uno sguardo di commiserazione. Soprattutto se è in fin di vita. Non abbiamo più le parole con cui comunicare con coloro che se ne vanno, non sappiamo più che cosa bisogna dire nella maniera giusta quando si avvicina la fine della vita, perché con il mito della giovinezza e della salute non sappiamo più che significato attribuire alla morte. Ecco perché quei camion mandati in giro di notte: per non turbare la rimozione collettiva».
Non poter salutare chi se ne va e non poter piangere il proprio defunto sono una grave sofferenza, oggi, per molti. Come supplire a questo rito mancato?
«Quando non si può accompagnare la persona che muore tenendole la mano, sentendone le ultime parole, si determina dentro di noi un senso di colpa spaventoso. Una lacerazione che spesso ci si porta dentro per una vita. Tuttavia, bisogna dire ai sopravvissuti: i morti muoiono ma non muoiono del tutto finché restano nella nostra memoria. E nella nostra invocazione».
Pierluigi Battista scrive sul Corriere della Sera: «circola in questi giorni una metafisica dell’autocolpevolizzazione, in base alla quale il virus sarebbe venuto per castigarci a causa dei nostri crimini sociali e culturali: come se in un nuovo medioevo dovessimo espiare i nostri peccati». Che ne pensa?
«La colpevolizzazione è il cascame di una mentalità religiosa secondo cui le disgrazie vengono perché siamo peccatori e colpevoli. Però una responsabilità ce l’abbiamo. Consiste nel fatto che abbiamo ridotto la Terra a una dimensione invivibile. Non posso affermare che ci sia una correlazione causale tra il disastro ecologico e la comparsa di questo virus, ma penso che una qualche forma di rapporto ci sia. Scriveva Heidegger: “tutto funziona, questo è appunto l’inquietante: che funziona, che il funzionare spinge sempre oltre verso un ulteriore funzionare… Mi sono spaventato, appena ho visto le fotografie della Terra scattate dalla Luna. Non c’è bisogno della bomba atomica, non è più la Terra quella su cui l’uomo oggi vive”».
Molti politici oggi fanno uso di un vocabolario bellico: è una guerra da vincere, dare battaglia al virus. È una buona idea paragonare la pandemia a un conflitto?
«Proprio no. Il problema è che la medicina aveva già assunto un lessico di guerra prima del corona virus: “devi combattere il male”, “fatti forza”, “vincerai”… Ma tra questa situazione e una guerra c’è un abisso. La guerra poteva essere interrotta se si faceva la pace, cioè per decisione umana: qui invece la fine non dipende da una scelta diretta. E poi c’erano le bombe, la devastazione non c’era il cibo, altro che le code al supermercato. E altro che “state a casa”: non c’era proprio la casa».
5 aprile 2020
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