Come ho già raccontato, sono nata e
cresciuta in una famiglia di contadini, allevatori, coltivatori; tutto questo
era un qualcosa in più per il sostentamento della famiglia. Mio papà lavorava
come muratore presso la Cooperativa Edile di Pedescala, mentre mia mamma si
dava da fare con i figli, gli animali e i campi: alla sera, quando tornava dai
cantieri, mio papà completava i lavori da fare. Per me, la vita che vivevo e
vedevo era normale, non avevamo grandi cose, ma ci accontentavamo sapendo però
che se qualcosa andava storto, era un dispiacere per tutta la famiglia. Come
quella volta che….
La stalla era al completo: cinque vacche
ormai pronte per il parto: erano nove mesi che si attendeva l’arrivo del
vitello e si sperava che il mercato andasse bene per poter ricavare il giusto;
poi la vacca avrebbe dato una buona produzione di latte che sarebbe stato
sicuro sostegno grazie alla vendita ad alcune famiglie e alla latteria Sociale
di Arsiero. Il parto dell’Alpina era imminente, pochi giorni e il termine della
gravidanza sarebbe arrivato e c’era molta attenzione per ogni minimo
cambiamento: la sapienza tramandata da generazioni era in grado di far capire
se si poteva dormire tranquilli o se bisognava alzarsi la notte per dare
un’occhiata…
Una di quelle tranquille mattine Alpina non riuscì ad alzarsi: né il fieno nella greppia, né gli incitamenti, né qualche leggera bastonata ebbero esito… la vacca ci guardava con i suoi grandi occhi come per dirci che proprio non riusciva a mettersi in piedi. Il veterinario, dopo un’accurata visita, diagnosticò una paralisi degli arti e disse che non ci sarebbe stato nulla da fare: la bestia andava soppressa… E il vitello che ignaro di tutto stava nella sua pancia??? L’immagine che è indelebile nella mia mente è vedere 4 uomini che trascinavano di peso la vacca fuori dalla stalla, mentre i suoi muggiti riempivano l’aria. Mia mamma ed io eravamo mute a quello spettacolo, mute, con un gran magone e tanta voglia di piangere…
Alpina venne trascinata dentro a un furgoncino e trasportata a San Pietro dal macellaio Mario; mentre con la mente la salutavo, non volevo pensare a cosa sarebbe successo… Dopo poco tempo, in mezzo a un sacco di juta, ci fu portata una vitellina, un’orfana tremante dal freddo e dalla paura: la sua mamma era stata uccisa dopo aver praticato un cesareo d’urgenza per poter salvare almeno il vitello. Povera piccola! Le mancava tanto il contatto con la madre, con il calore che solo lei poteva darle, ma noi cercavamo in tutti i modi di prenderci cura di lei. Ci venne spontaneo chiamarla come la madre e alla piccola Alpina fu messo un vecchio maglione di mio papà, visto che tremava in continuazione e le poppate, molto ravvicinate, le furono somministrate con il biberon di mio fratello! Così fu allevata con un occhio di riguardo e diventò una bella vitella che prometteva di essere come la mamma, una buona produttrice di latte. Le crebbero le corna ma erano… storte! Mio papà andò in prestito da Giovanni Battistin, di una specie di apparecchio che raddrizzava le corna e lo mise alla bestia perché, oltre a una buona produttrice di latte, doveva avere anche altre importanti qualità.
Faceva pena vederla con la testa bassa dentro la greppia.. “La me fa massa pecà, che se ciave anca i corni…” disse mio papà e decise di levare quella specie di tortura perché piuttosto che vederla soffrire, avrebbe preferito che avesse le corna storte. Passati alcuni mesi, dopo aver fatto le annuali analisi di controllo, risultò che Alpina e altre due vacche erano affette da brucellosi. Così ho assistito allo svuotamento completo della stalla, perché, a detta del veterinario, era meglio eliminare tutti i bovini. Mentre venivano caricate sul camion che le portava al macello, io seduta sulla panchina dietro a casa mia, osservavo ammutolita e disperata la scena: sapevo cosa significava per la mia famiglia... Una mia coetanea mi chiese se andassero in malga; con il cuore gonfio e le lacrime che scendevano, risposi: “Magari…” Tutta la famiglia era triste, mentre mio papà diceva: ”Eco, svodà la me stala!” Ma la sua passione e la sua voglia di fare era tanta che a settembre andammo a Zanè da Ferretto, che aveva una grande stalla e commerciava con gli animali, a vedere qualche manza pronta: convinse mio papà a lasciar perdere con la razza bruno alpina e provare con la frisona pezzata nera, specialmente i capi che provenivano dalla Germania che erano buone fattrici ed eccellenti produttrici di latte. E la storia ricominciò con altre vacche, altri nomi, altre avventure che magari vi racconterò un’altra volta…
Una di quelle tranquille mattine Alpina non riuscì ad alzarsi: né il fieno nella greppia, né gli incitamenti, né qualche leggera bastonata ebbero esito… la vacca ci guardava con i suoi grandi occhi come per dirci che proprio non riusciva a mettersi in piedi. Il veterinario, dopo un’accurata visita, diagnosticò una paralisi degli arti e disse che non ci sarebbe stato nulla da fare: la bestia andava soppressa… E il vitello che ignaro di tutto stava nella sua pancia??? L’immagine che è indelebile nella mia mente è vedere 4 uomini che trascinavano di peso la vacca fuori dalla stalla, mentre i suoi muggiti riempivano l’aria. Mia mamma ed io eravamo mute a quello spettacolo, mute, con un gran magone e tanta voglia di piangere…
Alpina venne trascinata dentro a un furgoncino e trasportata a San Pietro dal macellaio Mario; mentre con la mente la salutavo, non volevo pensare a cosa sarebbe successo… Dopo poco tempo, in mezzo a un sacco di juta, ci fu portata una vitellina, un’orfana tremante dal freddo e dalla paura: la sua mamma era stata uccisa dopo aver praticato un cesareo d’urgenza per poter salvare almeno il vitello. Povera piccola! Le mancava tanto il contatto con la madre, con il calore che solo lei poteva darle, ma noi cercavamo in tutti i modi di prenderci cura di lei. Ci venne spontaneo chiamarla come la madre e alla piccola Alpina fu messo un vecchio maglione di mio papà, visto che tremava in continuazione e le poppate, molto ravvicinate, le furono somministrate con il biberon di mio fratello! Così fu allevata con un occhio di riguardo e diventò una bella vitella che prometteva di essere come la mamma, una buona produttrice di latte. Le crebbero le corna ma erano… storte! Mio papà andò in prestito da Giovanni Battistin, di una specie di apparecchio che raddrizzava le corna e lo mise alla bestia perché, oltre a una buona produttrice di latte, doveva avere anche altre importanti qualità.
Faceva pena vederla con la testa bassa dentro la greppia.. “La me fa massa pecà, che se ciave anca i corni…” disse mio papà e decise di levare quella specie di tortura perché piuttosto che vederla soffrire, avrebbe preferito che avesse le corna storte. Passati alcuni mesi, dopo aver fatto le annuali analisi di controllo, risultò che Alpina e altre due vacche erano affette da brucellosi. Così ho assistito allo svuotamento completo della stalla, perché, a detta del veterinario, era meglio eliminare tutti i bovini. Mentre venivano caricate sul camion che le portava al macello, io seduta sulla panchina dietro a casa mia, osservavo ammutolita e disperata la scena: sapevo cosa significava per la mia famiglia... Una mia coetanea mi chiese se andassero in malga; con il cuore gonfio e le lacrime che scendevano, risposi: “Magari…” Tutta la famiglia era triste, mentre mio papà diceva: ”Eco, svodà la me stala!” Ma la sua passione e la sua voglia di fare era tanta che a settembre andammo a Zanè da Ferretto, che aveva una grande stalla e commerciava con gli animali, a vedere qualche manza pronta: convinse mio papà a lasciar perdere con la razza bruno alpina e provare con la frisona pezzata nera, specialmente i capi che provenivano dalla Germania che erano buone fattrici ed eccellenti produttrici di latte. E la storia ricominciò con altre vacche, altri nomi, altre avventure che magari vi racconterò un’altra volta…
Il periodo che parla di questa storia
sono gli anni 1971-72 perché mi ricordo che ero alle medie e, come compito in
classe, ci fu assegnato un titolo che richiedeva il racconto di un fatto dove
si era vissuta l’esperienza dell’aiuto da parte di altre persone. Io ho
raccontato di come, quei quattro uomini ci abbiano aiutato in un momento di
bisogno, di com'erano stati preziosi avendo capito la situazione e ci avevano
aiutato con il cuore. (un tempo tutti si aiutavano senza pretendere nulla in
cambio) Era un fatto di vita veramente vissuta che, con mia sorpresa, fu letto
in classe visto che era stato l’unico ad aver centrato l’argomento. Quanto
vorrei poterlo rileggere!!! Vi troverei i sentimenti veri e puri di una
tredicenne, le emozioni che albergavano nel mio cuore e che ho cercato di
raccontare, con tanta emozione, frugando nei ricordi…
Lucia
Marangoni
Grazie Lucia per condividere questi tuoi ricordi. Sembrano distanti anni luce, ma sono lì dietro l'angolo (o fursi semo naltri che scumissiemo a deventar veci)
RispondiEliminaBel racconto Lucia. grazie
RispondiEliminaSempre brava la Lucia, ciò. Ssindìtu, bela, ...se te iìn su da mi a te fasso vedare la me colessiòn de scatolete de tabaco da naso. Ma no sta mia torte drìo el Bepìti, setu, quelo a no voio pì vèdarlo.
RispondiEliminaMolto bello questo racconto brava Lucia i ricordi della gioventù riscaldano il cuore
RispondiEliminaA ben cio' Don, prima te ghe' continua' a invitarlo su a bevare la cavalina el bon Bepiti e desso non te vui pi' vedarlo, cosa mai te galo fato. Non te sare' mia geloso che la Carla la ghe manda i mesai cifra'.
RispondiEliminaA no xe m’a da fidarse de un spiòn, de uno che va in volta a ruscare nele scoasse. Uno cussita a l’è pericoloso, el podaria rivare anca chive da mi e capitarme rento dal spassacusina.
EliminaChe tenero raconto Lucia, mi fai tornare bambina!
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