Il giorno dopo, come se
il caso giocasse a sorprendere, proprio davanti alla sua piccola
casa, Mario scoprì, meravigliato e divertito, che vi sostava il
piccolo gregge di quella giovane Bosniaca dal nome impronunciabile.
La ragazza, era fuggita da Srebrenica dopo la mattanza, e qua in
Italia aveva incontrato un ragazzo più o meno dei suoi anni che
faceva il pastore, e questi, senza nulla chiedere in cambio, la aiutò
a costruirsi un minuscolo gregge, che lei adesso portava avanti da
sola. Sarebbe una bella storia da raccontare, pensò l’uomo delle
montagne, se non fosse che lui se la ricordava bene la prima volta
che i suoi passi sul sentiero alto del Portule incrociarono quelli
della ragazza di Bosnia. Con un gesto spontaneo le si avvicinò
tendendole la mano, lei corse a nascondersi dentro una muga e
incominciò a tremare come una bianca betulla nella tempesta, non
sopportava più, lo avrebbe scoperto solo più tardi, la vicinanza di
un uomo. Chissà, forse sarebbe stata quella, la storia da
raccontare, una brutta storia di cui anche lui, italiano, europeo e
uomo si vergognava. Mario cercò di scacciare i brutti pensieri e
come faceva da qualche anno, andò al vecchio furgone Volkswagen per
invitare la donna a casa sua, dove come sempre, le avrebbe offerto
una cioccolata densa, quasi un budino, e bollente di cui entrambi
erano ghiotti. Si abbracciarono a lungo (una conquista di cui era
orgoglioso) poi davanti alla cioccolata la ragazza disse con
soddisfazione mista a sarcasmo: «Hai saputo Mario che hanno
condannato gli olandesi per tre morti». Si riferiva al ruolo avuto
dai caschi blu olandesi nei giorni del massacro. «Già», rispose
lui, ma benché si sentisse ancora una volta profondamente vigliacco,
non aveva voglia di sciupare la gioia dell’incontro e la luce di
quella giornata di sole, che poteva essere l’ultima prima della
neve, con ricordi cupi. Non possiamo volergliene al vecchio per
questo, perché quando incominci a sentire sempre più distintamente
il suono della viola con cui si accompagna la signora che tutto
dispone, ogni istante diventa spaventosamente prezioso. Cosi,
incominciò a raccontare alla pastora bosniaca di quella ragazzina
dai capelli quasi rossi che parlava la lingua antica dei padri. Le
fece vedere il disegno che teneva ancora arrotolato accanto al
bagaglio e la pastora fece un fischio di meraviglia e ammirazione,
«Ma… sono le mie pecore! Come ha fatto a conoscerle quella
ragazzina di città?». «Oh beh, le ha semplicemente copiate da un
mio vecchio amico pittore».
Erano dolci quelle sere
d’ottobre che si incamminavano spedite verso la notte misteriosa
dei morti. Il vecchio e la donna passavano gran parte delle nottate
seduti sulla panca della legna accanto al fuoco a parlare, parlavano
di guerre, di odi senza senso, di violenze senza nome. «Succede
sempre cosi – diceva il vecchio – quando, per chissà quale
misteriosa alchimia, gli uomini imparano il valore della convivenza
pacifica capita sempre qualcosa che rompe tutto, cosi è stato per la
prima guerra del secolo scorso, quassù passavano da una parte
all’altra della frontiera senza difficoltà e arrivavano fino nella
Russia degli zar e poi all’improvviso si sono presi a cannonate…».
Per fortuna, in quelle sere si parlava anche di pascoli e pecore, di
fieno e permessi di transito per le greggi e la volta che passavano
di là Paulin con la sua fisarmonica assieme a qualche altro
compaesano si tirava tardi cantando e bevendo vino caldo.
Un mattino, avvisata da
chissà quale segno ancestrale, la pastora mise in movimento le sue
pecore, era arrivato il tempo di scendere definitivamente in pianura
per quell’anno, i due amici si salutarono con commozione dandosi
appuntamento per l’autunno successivo. «Mi raccomando Mario fagli
una bella cornice a quel disegno perché se lo merita», sono state
queste le ultime parole gridate dalla donna che si spensero in un eco
lontano.
Due giorni dopo la
partenza delle pecore, mezzo metro di neve copriva la contrada.
Il dio dell’inverno
aveva steso la sua mano gelata sulla nostra terra e non è
propriamente un dio benevolo per un vecchio, l’inverno è stagione
di pazienza e i vecchi sono impazienti di vita, perché sanno che il
loro tempo è breve. Mario no, lui era diverso, aveva imparato la
pazienza in inverni lontani e cupi, di neve nera, cosi si piegò come
fa l’erba sotto la carezza del vento e l’inverno gli passò sopra
come una carezza. La stagione delle rose ritornò ancora una volta e
con le rose tornò anche la voglia di nuova vita. Mario si sentiva
nel naso, in gola e sullo stomaco quella sensazione che si ha da
convalescenti, uno strano gusto, che volge il pensiero alla
malinconia, senza capirne la ragione. Così la sera del giorno di
giugno in cui compiva gli anni, decise che era giusto festeggiare;
come di consueto passò prima dal cimitero a portare un fiore sulla
tomba dei genitori, poi più tardi andò con alcuni amici e la
compagna di tutta la vita, in una pizzeria appena fuori paese.
Chissà, forse non si stupì neppure, quando riconobbe quella voce,
cosi diversa da tutte le voci che si incrociavano nel locale. «I
signori hanno già ordinato?». «Clio, cosa ci fai quassù lontano
da casa?». «Signor Mario, che gioia incontrarla. Ho scelto di
venire a fare la stagione in altopiano, volevo conoscere le montagne
dei miei vecchi.» Questa volta a differenza di Venezia i commensali
si guardarono stupiti quando i due incominciarono a parlare fra loro
fitto, fitto nell’antica lingua, i cui suoni germanici si
coloravano di accenti veneti e arcaiche parole latine.
Lingua misteriosa il
cimbro, che alcuni volevano fosse semplicemente una sorta di bavarese
medioevale, ma di questo il vecchio non è mai stato convinto; dove
avrebbero imparato il latino nel 1200 dei poveri roncadori baiuvari?
L’uomo delle montagne
raccontò alla ragazza di pianura della pastora bosniaca, che aveva
riconosciuto le proprie pecore nel disegno che lei gli aveva fatto a
Venezia e ancora di altre cose a proposito di quella donna. «Vorrei
conoscere questa signora forte che custodisce le pecore». Nonostante
il condizionale nella voce della ragazza c’era tutta l’ansia di
un ordine, cosi, senza perdere tempo, i due si accordarono per il
mercoledì successivo, giorno di riposo della ragazza, per salire ai
pascoli alti del Portule e incontrare la pastora.
Quel giorno di giugno,
scelto per andare sui pascoli alti, era uno di quelli che il Signore
del mondo regala ogni tanto (con parsimonia) agli umani per
consolarli dell’esistere. Cuscini di giacinti selvatici e botton
d’oro finivano a ridosso dell’ultimo fazzoletto di neve, che un
sole ormai d’estate faceva luccicare come un solitario sull’anello
di una sposa all’altare. Le pecore pascolavano tranquille,
batuffoli di lana trasportate qua e la dalla brezza di quota; si, non
poteva che essere cosi quel paradiso che gli uomini e le donne si
sono giocati per un frutto acerbo.
La pastora era intenta ad
arrostire una grossa fetta di polenta sulla piastra del focolare
quando li vide entrare, si girò di scatto e corse ad abbracciare
Mario e subito dopo riconobbe Clio.«Anche se non ti ho mai vista so
chi sei, Mario mi ha fatto vedere il tuo disegno e mi ha parlato a
lungo di te» La ragazza di città le tese la mano e si sorprese nel
ricevere in cambio la stessa stretta forte che le era solito dare, ma
mai di riavere. Era emozionata Clio, emozionata e curiosa, voleva
conoscere nei più piccoli particolari la vita dei pastori, andava
avanti e indietro, sembrava un naufrago che finalmente appoggiasse il
piede sulla terra ferma, ogni cosa la incuriosiva e la incantava.
La pastora aggiunse
alcune fette di polenta sulla piastra e dei grossi pezzi di tosella,
quel cibo rustico arrostendo sfrigolava e nella hütt si spandeva un
profumo che da solo valeva un’amicizia. Per magia sulla tavola
comparvero alcune bottiglie di vino piemontese, che Mario aveva
infilato nello zaino prima di partire, cosi si sedettero attorno al
desco con maggiore allegria, la donna di Bosnia senza togliersi il
cappellaccio con paraorecchie, ché in montagna, si sa, anche le
giornate più luminose nascondono un brivido di freddo... Mentre
mangiavano, per la verità il vecchio faceva più finta di mangiare,
che mangiare per davvero, la ragazza di pianura si stregava ad
osservare la donna di Bosnia e quasi furtiva tracciava segni con la
piccola matita sopra fogli da acquerello. Finito di mangiare non si
trattenne: «Devo farti un ritratto, ma un ritratto vero, non un
semplice disegno come quello che ho regalato a Mario, voglio fare un
dipinto a olio e mi dispiace ma ci vorrà del tempo e tu dovrai avere
molta pazienza con me.» Nell’ ansia di parlare Clio si mangiava le
parole.
Mario le notizie, le
apprese dai gestori della pizzeria, Clio aveva preso l’abitudine di
raggiungere la pastora ogni giorno libero che aveva, e sul finire di
agosto con la fine del periodo di maggior lavoro, aveva lasciato la
pizzeria e si era trasferita armi e colori sulla montagna “con
quella delle pecore” gli dissero.
Mario decise una domenica
mattina di inizio settembre di andare a trovare le due donne, infilò
nello zaino un paio di quelle bottiglie di vino forte che avevano
fatto loro compagnia la volta precedente, chiamò la pastora sul suo
telefono satellitare si fece dire dove si trovava e si mise in
cammino. Incrociò il gregge verso mezzogiorno, ormai a mezza
montagna, dalle parti del Tèrmar. Fu gioia vera quell’incontrarsi
in un crocicchio di strade, tra Trentino e Veneto, dove un tempo
correva l’antico confine tra gli imperi centrali e la serenissima
repubblica di San Marco e che festa di polenta e formaggio fecero,
seduti accanto al furgone Volkswagen. La pastora non si tolse il
pesante giaccone di pelle imbottito, ché in montagna anche la più
serena delle giornate può finire in un brivido di freddo… ma
questo l’ho già scritto… hai ragione gentile lettore…
Parlarono di pecore, e della lana che non voleva più nessuno, e che
ormai l’unico guadagno di un gregge era la vendita degli agnelli da
carne, una cosa che farebbe mordere di rabbia Tönle Bintarn: «Gli
agnelli sono nati per crescere e fare lana non per finire nel piatto
dei signori ufficiali.» diceva sempre l’antico pastore. Parlarono
di pittura e di come certe volte la montagna si mostrasse proprio
come un quadro di Giovanni Segantini, il pittore di Arco che visse a
Maloia in Engadina, grande ritrattista di pecore e vacche. Parlarono
a lungo della passione di Clio per la montagna e per le sue bestie e
di come avesse deciso di rimanere a dare una mano alla pastora per il
prossimo autunno, poi si vedrà.
Da un po’ di tempo la
donna vestita di nero strisciava guardinga tra un larice, un ginepro
e i maestosi abeti bianchi, non voleva essere vista e solo chi sa di
bosco poteva individuarne di tanto in tanto il suo apparire. Mario
attese il momento opportuno, quando la donna si staccò dalla macchia
e rimase per un attimo allo scoperto in una radura. «Khennt Stinele,
zo trinkha an slunt boi.» La signora cimbra alzò un braccio in
segno di saluto e di risposta all’invito di bere un goccio di vino,
conosceva il vecchio con la barba bianca e sapeva di potersi fidare.
Non si perse in inutili smancerie com’è d’uso tra gente di
montagna, sorrise appena alle parole nell’antica lingua pronunciate
dalla ragazza di città, bevve il suo vino in un solo sorso e porse
il bicchiere per averne dell’altro, mentre si passava il dorso
della mano sulle labbra, poi si strinse forte nello scialle nero, un
brivido senza preavviso le fece accapponare la pelle, che si sa in
montagna, passano certe correnti di aria fredda.... Salutò appena
mormorando Vorgèll’z Gott: che Dio ve ne renda merito e
allontanandosi a piccoli passi veloci si fece un frettoloso segno
della croce come per allontanare un pensiero maligno. Il gruppetto
seguì per un attimo l’ombra nera di lutto tornare a confondersi
con gli spiriti inquieti della foresta.
Mario lasciò le due
donne quando ormai il sole era scomparso già da un po’ oltre la
piana di Vezzena. La giornata era stata indubbiamente buona e felice
ma una strana sensazione accompagnava l’uomo delle montagne, come
se qualcosa quel giorno non fosse stato detto, e poi che strano, Clio
non gli aveva mostrato qualche suo lavoro, il ritratto della pastora
per esempio, non ne aveva nemmeno accennato. Strinse forte la
cacciatora, per un attimo anche lui avvertì un freddo insolito per
quella stagione e una striscia di nebbia si infilò di prepotenza nel
cuore della valle.
Le notizie questa volta,
Mario, non dovette andare a cercarsele, ne parlarono in molti
sull’altopiano e qualcosa ne scrissero anche i giornali nella
cronaca locale, incidente scrissero, inspiegabile aggiunsero alcuni.
Fu una lunga pena,
l’attesa del gregge in quei giorni di novembre, per il vecchio che
per noi vegliava sulle stagioni. Ma una mattina, puntuali, le pecore
di razza foza si presentarono pacifiche e silenziose attorno alla
casa del montanaro, il furgone Volkswagen era guidato dall’uomo
generoso che aveva dato il gregge alla donna di Bosnia, a piedi Clio
dava qualche voce ai cani. Non ci fu festa nell’incontrarsi,
tennero tutti gli occhi bassi, solo Clio ruppe il silenzio con una
domanda che rimase senza risposte: «Perché?»
Ne passarono di giorni,
prima che la ragazza di pianura si decidesse di bussare alla porta
della piccola casa dove Mario abitava, teneva in braccio qualcosa di
ingombrante, che quasi le cadde per terra nell’ansia di stringere
con entrambe le mani quelle del vecchio:«Credo che lei avrebbe
voluto che lo tenessi tu il suo viso sulla tela, non sono stata brava
come credevo, ne ho dipinto gli occhi ma non sono riuscita a
trattenerne l’anima, alla fine lei ha fatto quello che ha creduto
giusto fare e se ne è andata portandosi dietro lo zaino segreto che
la accompagnava da quei giorni di Srebrenica. -Tieni le mie pecore-
sono state le sue ultime parole, ed è questo che farò.» «Già»
fu la sola parola che disse il vecchio, mentre scrutava attento
quegli occhi leggermente allungati resi sulla tela da pennellate
rapide e nervose intrise di blu oltremare, non aveva mai notato
quanto su quel volto, in quegli occhi di notte scura si leggesse lo
spirito slavo.
Cosi finisce questa
storia, cosi finisce il racconto del contastorie, ma per una volta,
solo per questa volta gentile lettore, lascia che usurpi il nome di
scrittore e da scrittore di fantasie ne modifichi il finale a mio
piacimento, mi arrogo il diritto di scriverne un altro.
Dalla cima della montagna
dal nome incantato da dove nei giorni sereni si può vedere la magica
città della laguna, il vecchio con la barba bianca teneva gli occhi
chiusi a taglio per seguire il lento andare di un gregge attraverso
la grande pianura e in fondo all’orizzonte, una pioggia d’oro
cadeva sui marmi delle chiese millenarie, due ragazze seguivano le
pecore, ogni tanto si spintonavano, poi giocavano a rincorrersi, le
loro risate d’argento arrivavano sin lassù, il vecchio sorrise,
tirò una grossa presa di tabacco e si lasciò scappare un sospiro:
«Beata gioventù!»
Andrea Nicolussi Golo - 3a e ultima parte -
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