domenica 19 aprile 2015

A Venezia - 3 -

Il giorno dopo, come se il caso giocasse a sorprendere, proprio davanti alla sua piccola casa, Mario scoprì, meravigliato e divertito, che vi sostava il piccolo gregge di quella giovane Bosniaca dal nome impronunciabile. La ragazza, era fuggita da Srebrenica dopo la mattanza, e qua in Italia aveva incontrato un ragazzo più o meno dei suoi anni che faceva il pastore, e questi, senza nulla chiedere in cambio, la aiutò a costruirsi un minuscolo gregge, che lei adesso portava avanti da sola. Sarebbe una bella storia da raccontare, pensò l’uomo delle montagne, se non fosse che lui se la ricordava bene la prima volta che i suoi passi sul sentiero alto del Portule incrociarono quelli della ragazza di Bosnia. Con un gesto spontaneo le si avvicinò tendendole la mano, lei corse a nascondersi dentro una muga e incominciò a tremare come una bianca betulla nella tempesta, non sopportava più, lo avrebbe scoperto solo più tardi, la vicinanza di un uomo. Chissà, forse sarebbe stata quella, la storia da raccontare, una brutta storia di cui anche lui, italiano, europeo e uomo si vergognava. Mario cercò di scacciare i brutti pensieri e come faceva da qualche anno, andò al vecchio furgone Volkswagen per invitare la donna a casa sua, dove come sempre, le avrebbe offerto una cioccolata densa, quasi un budino, e bollente di cui entrambi erano ghiotti. Si abbracciarono a lungo (una conquista di cui era orgoglioso) poi davanti alla cioccolata la ragazza disse con soddisfazione mista a sarcasmo: «Hai saputo Mario che hanno condannato gli olandesi per tre morti». Si riferiva al ruolo avuto dai caschi blu olandesi nei giorni del massacro. «Già», rispose lui, ma benché si sentisse ancora una volta profondamente vigliacco, non aveva voglia di sciupare la gioia dell’incontro e la luce di quella giornata di sole, che poteva essere l’ultima prima della neve, con ricordi cupi. Non possiamo volergliene al vecchio per questo, perché quando incominci a sentire sempre più distintamente il suono della viola con cui si accompagna la signora che tutto dispone, ogni istante diventa spaventosamente prezioso. Cosi, incominciò a raccontare alla pastora bosniaca di quella ragazzina dai capelli quasi rossi che parlava la lingua antica dei padri. Le fece vedere il disegno che teneva ancora arrotolato accanto al bagaglio e la pastora fece un fischio di meraviglia e ammirazione, «Ma… sono le mie pecore! Come ha fatto a conoscerle quella ragazzina di città?». «Oh beh, le ha semplicemente copiate da un mio vecchio amico pittore».

Erano dolci quelle sere d’ottobre che si incamminavano spedite verso la notte misteriosa dei morti. Il vecchio e la donna passavano gran parte delle nottate seduti sulla panca della legna accanto al fuoco a parlare, parlavano di guerre, di odi senza senso, di violenze senza nome. «Succede sempre cosi – diceva il vecchio – quando, per chissà quale misteriosa alchimia, gli uomini imparano il valore della convivenza pacifica capita sempre qualcosa che rompe tutto, cosi è stato per la prima guerra del secolo scorso, quassù passavano da una parte all’altra della frontiera senza difficoltà e arrivavano fino nella Russia degli zar e poi all’improvviso si sono presi a cannonate…». Per fortuna, in quelle sere si parlava anche di pascoli e pecore, di fieno e permessi di transito per le greggi e la volta che passavano di là Paulin con la sua fisarmonica assieme a qualche altro compaesano si tirava tardi cantando e bevendo vino caldo.

Un mattino, avvisata da chissà quale segno ancestrale, la pastora mise in movimento le sue pecore, era arrivato il tempo di scendere definitivamente in pianura per quell’anno, i due amici si salutarono con commozione dandosi appuntamento per l’autunno successivo. «Mi raccomando Mario fagli una bella cornice a quel disegno perché se lo merita», sono state queste le ultime parole gridate dalla donna che si spensero in un eco lontano.

Due giorni dopo la partenza delle pecore, mezzo metro di neve copriva la contrada.

Il dio dell’inverno aveva steso la sua mano gelata sulla nostra terra e non è propriamente un dio benevolo per un vecchio, l’inverno è stagione di pazienza e i vecchi sono impazienti di vita, perché sanno che il loro tempo è breve. Mario no, lui era diverso, aveva imparato la pazienza in inverni lontani e cupi, di neve nera, cosi si piegò come fa l’erba sotto la carezza del vento e l’inverno gli passò sopra come una carezza. La stagione delle rose ritornò ancora una volta e con le rose tornò anche la voglia di nuova vita. Mario si sentiva nel naso, in gola e sullo stomaco quella sensazione che si ha da convalescenti, uno strano gusto, che volge il pensiero alla malinconia, senza capirne la ragione. Così la sera del giorno di giugno in cui compiva gli anni, decise che era giusto festeggiare; come di consueto passò prima dal cimitero a portare un fiore sulla tomba dei genitori, poi più tardi andò con alcuni amici e la compagna di tutta la vita, in una pizzeria appena fuori paese. Chissà, forse non si stupì neppure, quando riconobbe quella voce, cosi diversa da tutte le voci che si incrociavano nel locale. «I signori hanno già ordinato?». «Clio, cosa ci fai quassù lontano da casa?». «Signor Mario, che gioia incontrarla. Ho scelto di venire a fare la stagione in altopiano, volevo conoscere le montagne dei miei vecchi.» Questa volta a differenza di Venezia i commensali si guardarono stupiti quando i due incominciarono a parlare fra loro fitto, fitto nell’antica lingua, i cui suoni germanici si coloravano di accenti veneti e arcaiche parole latine.

Lingua misteriosa il cimbro, che alcuni volevano fosse semplicemente una sorta di bavarese medioevale, ma di questo il vecchio non è mai stato convinto; dove avrebbero imparato il latino nel 1200 dei poveri roncadori baiuvari?

L’uomo delle montagne raccontò alla ragazza di pianura della pastora bosniaca, che aveva riconosciuto le proprie pecore nel disegno che lei gli aveva fatto a Venezia e ancora di altre cose a proposito di quella donna. «Vorrei conoscere questa signora forte che custodisce le pecore». Nonostante il condizionale nella voce della ragazza c’era tutta l’ansia di un ordine, cosi, senza perdere tempo, i due si accordarono per il mercoledì successivo, giorno di riposo della ragazza, per salire ai pascoli alti del Portule e incontrare la pastora.

Quel giorno di giugno, scelto per andare sui pascoli alti, era uno di quelli che il Signore del mondo regala ogni tanto (con parsimonia) agli umani per consolarli dell’esistere. Cuscini di giacinti selvatici e botton d’oro finivano a ridosso dell’ultimo fazzoletto di neve, che un sole ormai d’estate faceva luccicare come un solitario sull’anello di una sposa all’altare. Le pecore pascolavano tranquille, batuffoli di lana trasportate qua e la dalla brezza di quota; si, non poteva che essere cosi quel paradiso che gli uomini e le donne si sono giocati per un frutto acerbo.

La pastora era intenta ad arrostire una grossa fetta di polenta sulla piastra del focolare quando li vide entrare, si girò di scatto e corse ad abbracciare Mario e subito dopo riconobbe Clio.«Anche se non ti ho mai vista so chi sei, Mario mi ha fatto vedere il tuo disegno e mi ha parlato a lungo di te» La ragazza di città le tese la mano e si sorprese nel ricevere in cambio la stessa stretta forte che le era solito dare, ma mai di riavere. Era emozionata Clio, emozionata e curiosa, voleva conoscere nei più piccoli particolari la vita dei pastori, andava avanti e indietro, sembrava un naufrago che finalmente appoggiasse il piede sulla terra ferma, ogni cosa la incuriosiva e la incantava.

La pastora aggiunse alcune fette di polenta sulla piastra e dei grossi pezzi di tosella, quel cibo rustico arrostendo sfrigolava e nella hütt si spandeva un profumo che da solo valeva un’amicizia. Per magia sulla tavola comparvero alcune bottiglie di vino piemontese, che Mario aveva infilato nello zaino prima di partire, cosi si sedettero attorno al desco con maggiore allegria, la donna di Bosnia senza togliersi il cappellaccio con paraorecchie, ché in montagna, si sa, anche le giornate più luminose nascondono un brivido di freddo... Mentre mangiavano, per la verità il vecchio faceva più finta di mangiare, che mangiare per davvero, la ragazza di pianura si stregava ad osservare la donna di Bosnia e quasi furtiva tracciava segni con la piccola matita sopra fogli da acquerello. Finito di mangiare non si trattenne: «Devo farti un ritratto, ma un ritratto vero, non un semplice disegno come quello che ho regalato a Mario, voglio fare un dipinto a olio e mi dispiace ma ci vorrà del tempo e tu dovrai avere molta pazienza con me.» Nell’ ansia di parlare Clio si mangiava le parole.

Mario le notizie, le apprese dai gestori della pizzeria, Clio aveva preso l’abitudine di raggiungere la pastora ogni giorno libero che aveva, e sul finire di agosto con la fine del periodo di maggior lavoro, aveva lasciato la pizzeria e si era trasferita armi e colori sulla montagna “con quella delle pecore” gli dissero.

Mario decise una domenica mattina di inizio settembre di andare a trovare le due donne, infilò nello zaino un paio di quelle bottiglie di vino forte che avevano fatto loro compagnia la volta precedente, chiamò la pastora sul suo telefono satellitare si fece dire dove si trovava e si mise in cammino. Incrociò il gregge verso mezzogiorno, ormai a mezza montagna, dalle parti del Tèrmar. Fu gioia vera quell’incontrarsi in un crocicchio di strade, tra Trentino e Veneto, dove un tempo correva l’antico confine tra gli imperi centrali e la serenissima repubblica di San Marco e che festa di polenta e formaggio fecero, seduti accanto al furgone Volkswagen. La pastora non si tolse il pesante giaccone di pelle imbottito, ché in montagna anche la più serena delle giornate può finire in un brivido di freddo… ma questo l’ho già scritto… hai ragione gentile lettore… Parlarono di pecore, e della lana che non voleva più nessuno, e che ormai l’unico guadagno di un gregge era la vendita degli agnelli da carne, una cosa che farebbe mordere di rabbia Tönle Bintarn: «Gli agnelli sono nati per crescere e fare lana non per finire nel piatto dei signori ufficiali.» diceva sempre l’antico pastore. Parlarono di pittura e di come certe volte la montagna si mostrasse proprio come un quadro di Giovanni Segantini, il pittore di Arco che visse a Maloia in Engadina, grande ritrattista di pecore e vacche. Parlarono a lungo della passione di Clio per la montagna e per le sue bestie e di come avesse deciso di rimanere a dare una mano alla pastora per il prossimo autunno, poi si vedrà.

Da un po’ di tempo la donna vestita di nero strisciava guardinga tra un larice, un ginepro e i maestosi abeti bianchi, non voleva essere vista e solo chi sa di bosco poteva individuarne di tanto in tanto il suo apparire. Mario attese il momento opportuno, quando la donna si staccò dalla macchia e rimase per un attimo allo scoperto in una radura. «Khennt Stinele, zo trinkha an slunt boi.» La signora cimbra alzò un braccio in segno di saluto e di risposta all’invito di bere un goccio di vino, conosceva il vecchio con la barba bianca e sapeva di potersi fidare. Non si perse in inutili smancerie com’è d’uso tra gente di montagna, sorrise appena alle parole nell’antica lingua pronunciate dalla ragazza di città, bevve il suo vino in un solo sorso e porse il bicchiere per averne dell’altro, mentre si passava il dorso della mano sulle labbra, poi si strinse forte nello scialle nero, un brivido senza preavviso le fece accapponare la pelle, che si sa in montagna, passano certe correnti di aria fredda.... Salutò appena mormorando Vorgèll’z Gott: che Dio ve ne renda merito e allontanandosi a piccoli passi veloci si fece un frettoloso segno della croce come per allontanare un pensiero maligno. Il gruppetto seguì per un attimo l’ombra nera di lutto tornare a confondersi con gli spiriti inquieti della foresta.

Mario lasciò le due donne quando ormai il sole era scomparso già da un po’ oltre la piana di Vezzena. La giornata era stata indubbiamente buona e felice ma una strana sensazione accompagnava l’uomo delle montagne, come se qualcosa quel giorno non fosse stato detto, e poi che strano, Clio non gli aveva mostrato qualche suo lavoro, il ritratto della pastora per esempio, non ne aveva nemmeno accennato. Strinse forte la cacciatora, per un attimo anche lui avvertì un freddo insolito per quella stagione e una striscia di nebbia si infilò di prepotenza nel cuore della valle.

Le notizie questa volta, Mario, non dovette andare a cercarsele, ne parlarono in molti sull’altopiano e qualcosa ne scrissero anche i giornali nella cronaca locale, incidente scrissero, inspiegabile aggiunsero alcuni.

Fu una lunga pena, l’attesa del gregge in quei giorni di novembre, per il vecchio che per noi vegliava sulle stagioni. Ma una mattina, puntuali, le pecore di razza foza si presentarono pacifiche e silenziose attorno alla casa del montanaro, il furgone Volkswagen era guidato dall’uomo generoso che aveva dato il gregge alla donna di Bosnia, a piedi Clio dava qualche voce ai cani. Non ci fu festa nell’incontrarsi, tennero tutti gli occhi bassi, solo Clio ruppe il silenzio con una domanda che rimase senza risposte: «Perché?»

Ne passarono di giorni, prima che la ragazza di pianura si decidesse di bussare alla porta della piccola casa dove Mario abitava, teneva in braccio qualcosa di ingombrante, che quasi le cadde per terra nell’ansia di stringere con entrambe le mani quelle del vecchio:«Credo che lei avrebbe voluto che lo tenessi tu il suo viso sulla tela, non sono stata brava come credevo, ne ho dipinto gli occhi ma non sono riuscita a trattenerne l’anima, alla fine lei ha fatto quello che ha creduto giusto fare e se ne è andata portandosi dietro lo zaino segreto che la accompagnava da quei giorni di Srebrenica. -Tieni le mie pecore- sono state le sue ultime parole, ed è questo che farò.» «Già» fu la sola parola che disse il vecchio, mentre scrutava attento quegli occhi leggermente allungati resi sulla tela da pennellate rapide e nervose intrise di blu oltremare, non aveva mai notato quanto su quel volto, in quegli occhi di notte scura si leggesse lo spirito slavo.

Cosi finisce questa storia, cosi finisce il racconto del contastorie, ma per una volta, solo per questa volta gentile lettore, lascia che usurpi il nome di scrittore e da scrittore di fantasie ne modifichi il finale a mio piacimento, mi arrogo il diritto di scriverne un altro.

Dalla cima della montagna dal nome incantato da dove nei giorni sereni si può vedere la magica città della laguna, il vecchio con la barba bianca teneva gli occhi chiusi a taglio per seguire il lento andare di un gregge attraverso la grande pianura e in fondo all’orizzonte, una pioggia d’oro cadeva sui marmi delle chiese millenarie, due ragazze seguivano le pecore, ogni tanto si spintonavano, poi giocavano a rincorrersi, le loro risate d’argento arrivavano sin lassù, il vecchio sorrise, tirò una grossa presa di tabacco e si lasciò scappare un sospiro: «Beata gioventù!» 
Andrea Nicolussi Golo - 3a e ultima parte -


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