Le poche parole scambiate
con quella ragazzina con i capelli quasi rossi, sarebbero sicuramente
rimaste le sole, se, appena fuori dalla sala, il vecchio non si fosse
fermato lungo lo stretto corridoio, a rendere il giusto omaggio al
grande pittore della sua terra, Jacopo da Ponte chiamato da tutti
Bassano, il cui padre si era trasferito in quella cittadina ai piedi
dei monti, ma che era nato e aveva vissuto a lungo lassù, in
Altopiano, e in Altopiano aveva anche dipinto. «Non ti sembra che
faccia le pecore uguali al tuo amato Tiziano». Di nuovo, quella voce
bassa e strana lo fece sobbalzare, ma questa volta non stava facendo
nulla di male, cosi rimase al suo posto e sorrise. «Certo - rispose-
perché sono le stesse pecore, razza Foza, quelle che ancora oggi,
proprio in questi giorni, stanno lasciando i pascoli alti del Portule
per scendere nella pianura pedemontana lungo le rive del Brenta».
«Vo
bo khenntar iar, Mario?». La voce della ragazza già per sua
natura cosi diversa si fece poco più di un sussurro e si avvolse di
nuovo mistero. Di sicuro non vi fecero caso i pochi visitatori di
lingua italiana, ché a Venezia, da lunghi secoli si incrociano tutte
le lingue del mondo. Neppure i giapponesi, o i cinesi che negli
ultimi tempi avevano incominciato ad arrivare a frotte, se ne fecero
meraviglia, ché tanto per loro, tutte le lingue erano straniere. Ma
il vecchio sentì un calore inusitato avvolgergli il corpo, deglutì
e fece per rispondere qualcosa, ma le parole non riuscirono a trovare
l’aria. «Da dove venite Mario?». Ripeté sillabando la ragazza,
incerta, timorosa di avere fatto una gaffe e preoccupata che il
vecchio non avesse inteso la domanda. «Vo au dahumman», da casa,
mormorò il vecchio montanaro… «Da casa» ripeté trasognato… vo
Humman…
La sorpresa di trovare in
quella città dalle mille lingue anche la sua antica, che credeva
dimenticata da tutti, scosse l’anima del montanaro, non riusciva
proprio a credere che quella ragazzina impertinente parlasse la
lingua antica dei padri. Con agitazione crescente, tipica dei vecchi,
volle sapere tutto di lei: di chi fosse figlia, chi fossero i suoi
nonni e i genitori dei nonni, da quale contrada provenissero e in
fine, come mai si trovasse a Venezia. «Vivo con i miei da qualche
parte di pianura, e a Venezia studio all’accademia, mi piace
disegnare e a volte dipingere» rispose divertita e a sua volta
sorpresa la ragazza. Che però, come fanno i giovani, non dava grande
peso a quella strana coincidenza. Con gesti preziosi, quella bizzarra
creatura tolse dalla borsa, che portava a tracolla, un blocco di
fogli da disegno, di quelli migliori, da dodici euro l’uno, poi con
una minuscola matita incominciò a tracciare le forme della pecora
del Bassano.
«Se guardi in fondo ai
quadri di Jacopo puoi distinguere le nostre montagne, anche Tiziano
lo fa». La voce del vecchio aveva l’eco di una tenerezza profonda,
ma allo stesso tempo suonava ferma, l’ultima cosa che desiderava
era di apparire patetico. La ragazza continuava a tracciare linee
sulla carta, con sorprendente rapidità, senza nemmeno avere l’aria
di guardare quello che stava facendo e ignorando del tutto il vecchio
con il cappello di feltro sulla testa nuda. Ogni tanto la giovane si
portava l’indice della mano destra, disegnava con la sinistra,
sulle labbra per bagnarlo di saliva, poi lo passava velocemente sopra
le righe tracciate con la matita morbida ottenendo misteriose
sfumature di grigio, le stesse scure sfumature che le rimanevano
appiccicate alle labbra. Cosi stavano quei due, fermi in mezzo allo
stretto corridoio, per un tempo che non saprei dirti, gentile
lettore, ricordo solo che le comitive dei cinesi stanche di aspettare
si misero in fila per passare. Improvvisa, come lo scoppio di un
temporale, la risata pulita della ragazza rotolò sopra le antiche
pietre, sopra le cornici, sopra le tele, i colori, e il vecchio
trasalì (era la giornata dei sobbalzi) i suoi pensieri furono
spazzati via, come dalla neve di una valanga primaverile da quella
voce insolita alla quale non riusciva ad abituarsi. «Che ne dici
Mario, ti piace?». Sulla carta da acquerello le pecore del Bassano
seguivano docili uno stretto tratturo chiuso ai lati dalle lastre di
pietra piantate profonde nella terra, le nostre stoanplattn, e dietro
veniva il pastore, e il pastore aveva il volto del vecchio delle
montagne che le stava accanto. «È molto bello, non che io me ne
intenda, certo, ma credo che tu abbia del talento ragazza». «Se ti
piace te lo regalo ma solo se ti piace davvero».
Io ho visto il montanaro
prendere il foglio, arrotolarlo con cura, e poi assieme li ho visti
uscire con decisione dal museo, lanciando un’ultima occhiata alla
tempesta del Giorgione, enigmatica solo per chi è cosi cieco e
presuntuoso da non comprenderne la semplicità.
Avrei potuto seguirli, ma
non l’ho fatto, sapevo fin troppo bene, dove il vecchio delle
montagne era solito andare a mangiare le sarde in savor con la
polenta bianca, bagnate dal bianco dei colli euganei che fa sfiorare
l’infinito. Avevo la matematica certezza che se avessi voluto li
avrei trovati in quel bacaro in fondo al sottoportego con le mani
unte di pesce.
Era notte fonda quando la
piccola automobile lasciò l’autostrada per arrampicarsi sui
tornanti che portavano in Altopiano, sul sedile dietro il vecchio
ciondolava la testa di un sonno leggero che forse sonno non era, ma
solo una straordinaria rilassatezza che gli permetteva di riordinare
ad uno ad uno gli eventi della sua lunga vita, da quelli più lontani
e tragici a quelli appena capitati.
Di tutte le persone, gli
scrittori importanti, gli artisti della biennale, i registi
acclamati, e i politici venuti apposta da Roma per tirarlo dalla loro
parte, che aveva incontrato negli ultimi giorni nella città della
laguna, il vecchio ora ricordava solo la ragazza, non ancora donna,
che parlava l’antica lingua e senza saperlo sul suo viso la
geografia di rughe si distese in un sorriso beato.
Quando arrivarono, la
piazza del piccolo paese era deserta, con un po’ di fatica l’uomo
scese dall’auto e assieme alla notte, dalla sua montagna, gli venne
incontro l’odore dell’autunno. L’autunno, sapete, ha una
fragranza propria, aspra forse, ma capace di penetrare l’anima
dalle narici, pochi la riconoscono. È l’aroma di ortica fradicia,
mescolato a quello delle foglie appena cadute, e al primo odore di
legna bruciata e di vento da sud. La vita in fondo altro non è che
un lungo cammino di odori sfuggenti. Incomincia con il profumo di
èstle, come la madre chiamava l’odore di nido, l’odore di culla,
continua con quello incerto dei fiori quando, adolescente giochi a
nascondino nei prati, poi nemmeno ti accorgi e già l’odore forte
dei corpi dei vent’anni è passato e ti lascia in eredità il
tenero odore di biancheria pulita. Nei tuoi anni migliori ti godi
l’odore di polenta e di crauti, quello del vino vecchio e del
fieno, l’odore di scuola e di stalla e sopratutto l’odore della
neve che solo il cuore impara. Ma alla fine, comunque siano corse le
tue stagioni ti attende sempre l’odore dell’autunno.
Respirò forte il vecchio
e il fiato si fece nuvola di vapore, in montagna quella stagione di
mezzo precipitava già nell’inverno.
L’alba della luna
stracciava le nuvole e dalle nuvole il profilo delle montagne, contro
il cielo di maiolica blu, sembrava infinitamente più alto del
solito.
Andrea Nicolussi Golo - 2a parte -
Penso anch'io che "La vita in fondo altro non è che un lungo cammino di odori sfuggenti". L'odore dell'autunno è quello che ci accompagna tutto l'inverno, è propizio alla meditazione, ed è quello che penetra l'anima, come dici Andrea.
RispondiEliminaGrazie Andrea per i tuoi bellissimi racconti,tanto avvincenti , pieni di vita e di ricordi......
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