sabato 18 aprile 2015

A Venezia - 2 -

Le poche parole scambiate con quella ragazzina con i capelli quasi rossi, sarebbero sicuramente rimaste le sole, se, appena fuori dalla sala, il vecchio non si fosse fermato lungo lo stretto corridoio, a rendere il giusto omaggio al grande pittore della sua terra, Jacopo da Ponte chiamato da tutti Bassano, il cui padre si era trasferito in quella cittadina ai piedi dei monti, ma che era nato e aveva vissuto a lungo lassù, in Altopiano, e in Altopiano aveva anche dipinto. «Non ti sembra che faccia le pecore uguali al tuo amato Tiziano». Di nuovo, quella voce bassa e strana lo fece sobbalzare, ma questa volta non stava facendo nulla di male, cosi rimase al suo posto e sorrise. «Certo - rispose- perché sono le stesse pecore, razza Foza, quelle che ancora oggi, proprio in questi giorni, stanno lasciando i pascoli alti del Portule per scendere nella pianura pedemontana lungo le rive del Brenta».

«Vo bo khenntar iar, Mario?». La voce della ragazza già per sua natura cosi diversa si fece poco più di un sussurro e si avvolse di nuovo mistero. Di sicuro non vi fecero caso i pochi visitatori di lingua italiana, ché a Venezia, da lunghi secoli si incrociano tutte le lingue del mondo. Neppure i giapponesi, o i cinesi che negli ultimi tempi avevano incominciato ad arrivare a frotte, se ne fecero meraviglia, ché tanto per loro, tutte le lingue erano straniere. Ma il vecchio sentì un calore inusitato avvolgergli il corpo, deglutì e fece per rispondere qualcosa, ma le parole non riuscirono a trovare l’aria. «Da dove venite Mario?». Ripeté sillabando la ragazza, incerta, timorosa di avere fatto una gaffe e preoccupata che il vecchio non avesse inteso la domanda. «Vo au dahumman», da casa, mormorò il vecchio montanaro… «Da casa» ripeté trasognato… vo Humman…

La sorpresa di trovare in quella città dalle mille lingue anche la sua antica, che credeva dimenticata da tutti, scosse l’anima del montanaro, non riusciva proprio a credere che quella ragazzina impertinente parlasse la lingua antica dei padri. Con agitazione crescente, tipica dei vecchi, volle sapere tutto di lei: di chi fosse figlia, chi fossero i suoi nonni e i genitori dei nonni, da quale contrada provenissero e in fine, come mai si trovasse a Venezia. «Vivo con i miei da qualche parte di pianura, e a Venezia studio all’accademia, mi piace disegnare e a volte dipingere» rispose divertita e a sua volta sorpresa la ragazza. Che però, come fanno i giovani, non dava grande peso a quella strana coincidenza. Con gesti preziosi, quella bizzarra creatura tolse dalla borsa, che portava a tracolla, un blocco di fogli da disegno, di quelli migliori, da dodici euro l’uno, poi con una minuscola matita incominciò a tracciare le forme della pecora del Bassano.

«Se guardi in fondo ai quadri di Jacopo puoi distinguere le nostre montagne, anche Tiziano lo fa». La voce del vecchio aveva l’eco di una tenerezza profonda, ma allo stesso tempo suonava ferma, l’ultima cosa che desiderava era di apparire patetico. La ragazza continuava a tracciare linee sulla carta, con sorprendente rapidità, senza nemmeno avere l’aria di guardare quello che stava facendo e ignorando del tutto il vecchio con il cappello di feltro sulla testa nuda. Ogni tanto la giovane si portava l’indice della mano destra, disegnava con la sinistra, sulle labbra per bagnarlo di saliva, poi lo passava velocemente sopra le righe tracciate con la matita morbida ottenendo misteriose sfumature di grigio, le stesse scure sfumature che le rimanevano appiccicate alle labbra. Cosi stavano quei due, fermi in mezzo allo stretto corridoio, per un tempo che non saprei dirti, gentile lettore, ricordo solo che le comitive dei cinesi stanche di aspettare si misero in fila per passare. Improvvisa, come lo scoppio di un temporale, la risata pulita della ragazza rotolò sopra le antiche pietre, sopra le cornici, sopra le tele, i colori, e il vecchio trasalì (era la giornata dei sobbalzi) i suoi pensieri furono spazzati via, come dalla neve di una valanga primaverile da quella voce insolita alla quale non riusciva ad abituarsi. «Che ne dici Mario, ti piace?». Sulla carta da acquerello le pecore del Bassano seguivano docili uno stretto tratturo chiuso ai lati dalle lastre di pietra piantate profonde nella terra, le nostre stoanplattn, e dietro veniva il pastore, e il pastore aveva il volto del vecchio delle montagne che le stava accanto. «È molto bello, non che io me ne intenda, certo, ma credo che tu abbia del talento ragazza». «Se ti piace te lo regalo ma solo se ti piace davvero».

Io ho visto il montanaro prendere il foglio, arrotolarlo con cura, e poi assieme li ho visti uscire con decisione dal museo, lanciando un’ultima occhiata alla tempesta del Giorgione, enigmatica solo per chi è cosi cieco e presuntuoso da non comprenderne la semplicità.

Avrei potuto seguirli, ma non l’ho fatto, sapevo fin troppo bene, dove il vecchio delle montagne era solito andare a mangiare le sarde in savor con la polenta bianca, bagnate dal bianco dei colli euganei che fa sfiorare l’infinito. Avevo la matematica certezza che se avessi voluto li avrei trovati in quel bacaro in fondo al sottoportego con le mani unte di pesce.

Era notte fonda quando la piccola automobile lasciò l’autostrada per arrampicarsi sui tornanti che portavano in Altopiano, sul sedile dietro il vecchio ciondolava la testa di un sonno leggero che forse sonno non era, ma solo una straordinaria rilassatezza che gli permetteva di riordinare ad uno ad uno gli eventi della sua lunga vita, da quelli più lontani e tragici a quelli appena capitati.

Di tutte le persone, gli scrittori importanti, gli artisti della biennale, i registi acclamati, e i politici venuti apposta da Roma per tirarlo dalla loro parte, che aveva incontrato negli ultimi giorni nella città della laguna, il vecchio ora ricordava solo la ragazza, non ancora donna, che parlava l’antica lingua e senza saperlo sul suo viso la geografia di rughe si distese in un sorriso beato.

Quando arrivarono, la piazza del piccolo paese era deserta, con un po’ di fatica l’uomo scese dall’auto e assieme alla notte, dalla sua montagna, gli venne incontro l’odore dell’autunno. L’autunno, sapete, ha una fragranza propria, aspra forse, ma capace di penetrare l’anima dalle narici, pochi la riconoscono. È l’aroma di ortica fradicia, mescolato a quello delle foglie appena cadute, e al primo odore di legna bruciata e di vento da sud. La vita in fondo altro non è che un lungo cammino di odori sfuggenti. Incomincia con il profumo di èstle, come la madre chiamava l’odore di nido, l’odore di culla, continua con quello incerto dei fiori quando, adolescente giochi a nascondino nei prati, poi nemmeno ti accorgi e già l’odore forte dei corpi dei vent’anni è passato e ti lascia in eredità il tenero odore di biancheria pulita. Nei tuoi anni migliori ti godi l’odore di polenta e di crauti, quello del vino vecchio e del fieno, l’odore di scuola e di stalla e sopratutto l’odore della neve che solo il cuore impara. Ma alla fine, comunque siano corse le tue stagioni ti attende sempre l’odore dell’autunno.

Respirò forte il vecchio e il fiato si fece nuvola di vapore, in montagna quella stagione di mezzo precipitava già nell’inverno.

L’alba della luna stracciava le nuvole e dalle nuvole il profilo delle montagne, contro il cielo di maiolica blu, sembrava infinitamente più alto del solito. 
Andrea Nicolussi Golo - 2a parte - 


2 commenti:

  1. Penso anch'io che "La vita in fondo altro non è che un lungo cammino di odori sfuggenti". L'odore dell'autunno è quello che ci accompagna tutto l'inverno, è propizio alla meditazione, ed è quello che penetra l'anima, come dici Andrea.

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  2. Grazie Andrea per i tuoi bellissimi racconti,tanto avvincenti , pieni di vita e di ricordi......

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