L’entrata principale al
museo era sbarrata già da qualche tempo, e cartelli logori
indicavano un accesso laterale. Certe impalcature, forse non del
tutto rispettose della sicurezza, costringevano ad abbassare la
testa, pensavo fosse un giusto esercizio di umiltà per i forestieri
di passaggio.
Una, due gocce, tre… un
giro di vento gelido, la polvere della strada davanti ai miei passi
si fece a buchi, come quelli che fa la capalonga sulla spiaggia di
Grado, poi la pioggia pesante, ghiacciata, profeta d’autunno,
incominciò a battere con violenza sopra i teli di nylon malamente
stesi a proteggere le attrezzature del cantiere: un grosso
compressore a nafta annerito, una vecchia betoniera elettrica, assi
di varia misura e natura, e sacchi di cemento, rimasti così,
accatastati sopra il pallet con il quale erano stati scaricati dal
burcio. Gettati con malagrazia in un angolo, sotto la pioggia, senza
nemmeno la seppur minima protezione di un pezzo di telo, c’erano
badili e picconi, sembravano anch’essi museali, memoria di quando
gli utensili tenevano un’anima, e quelli in particolare, erano
attrezzi fondamentali e rispettati nell’edilizia, prima
dell’avvento delle mini-scavatrici, delle mini-ruspe, dei
mini-uomini; sono certo che mio padre, pover’uomo, sarebbe corso
per metterli al riparo. I pochi veneziani passavano via di fretta dal
ponte dell’Accademia e sparivano come folletti dentro a chissà
quale calle misteriosa, o forse, più semplicemente, spingevano
stancamente una porta per poi salire le scale di modeste case
operaie. La magica città sembrava quasi sghignazzare, mentre si
stiracchiava, con piacere voluttuoso sotto quella pioggia
rinfrescante che le scrollava di dosso un po’ di turisti. Come il
selvatico, che accoglie con gratitudine l’acqua dal cielo che lo
ristora e lo libera dall’assalto dei tafani, Venezia, quel mattino,
allungava pigramente le gambe e cercava una posizione più comoda.
Un museo in restauro è
come una lezione di anatomia, ti accorgi con stupore, che i gangli
vitali di una creatura incantevole, osservati troppo da vicino, fanno
un po’ schifo, ma per dire il vero, ad osservarla tutta, con
disincanto, l’intera città di Venezia ricorda una lezione di
anatomia. Dietro le facciate splendenti di marmi colorati, le viscere
puzzolenti di certi rii ti spiegano senza aver bisogno delle parole
l’origine straordinaria della vita.
Le pareti della piccola
sala, quasi un’anticamera, che chissà da quanti anni non vedevano
una mano di calce, avevano preso, con il passare del tempo, quel
colore grigio freddo di certi giroscale delle case popolari tirate su
di fretta alla fine degli anni ’60. A quei muri di cenere, la
Tempesta del Zorzi da Castelfranco, el Zorzon, vi era appesa con
svogliata noncuranza, come in altri tempi noi appendevamo i nostri
poster; Pelizza da Volpedo accanto al Che, e qualcuno che se la
tirava da intellettuale, vicino, a volte, vi attaccava anche l’opera
del misterioso veneto, con le date e il luogo di una lontana mostra,
a caratteri giganti. Più oltre, il salone era davvero troppo lungo,
troppo alto, troppo tante cose, sgraziato, privo di armonia, diviso
in due per tutta la sua lunghezza da una serie di poltroncine di
finta pelle e ferro zincato che, scrostandosi faceva ruggine.
L’intero stanzone aveva l’aria da sala d’aspetto di un qualche
centro prelievi. A cavalcioni delle poltroncine, con una gamba di qua
l’altra di là, la ragazza poteva avere diciotto anni, forse meno,
di sicuro non di più; i capelli quasi rossi, tenuti assieme in una
coda improvvisata, la faccia pulita e gli occhi truccati appena da un
sottile velo di sfrontatezza infantile le donavano un’aria da
Maddalena di montagna. Vestita ancora d’estate, con una canottiera
stropicciata e un paio di pantaloni di jeans corti, corti come solo
prima dei vent’anni puoi indossare senza diventare ridicolo. Aveva
le gambe nude e forti, da atleta; da cervo, scriverebbe un poeta
mancante di ispirazione, lo stesso poeta, che forse indugerebbe sul
seno, come si dice… in fiore. Non ancora donna, direbbe sempre
lui.. il poeta … non ancora bella. La ragazza voltava ritmicamente
la testa, ora da un lato della sala ora dall’altro, come uno
spettatore di tennis.
Il vecchio invece, con il
Borsalino di feltro sformato, appoggiato di sghimbescio sulla testa
nuda, sembrava non vedere altro che l’opera estrema del pittore a
lui più caro, il sommo Tiziano Vecellio. Da sempre, considerava
quella pietà livida, l’altra faccia, la scura, di quella,
purissima, di Michelangelo Buonarroti, ma in fondo al cuore sentiva
con amarezza, che la maestria del toscano di Caprese non poteva
essere sfiorata, nemmeno da chi aveva eletto a preferito.
Nello stanzone non
c’erano guardiani, e il vecchio, come trascinato da una forza senza
nome, di centimetro in centimetro si faceva sempre più vicino al
grande telero, sino a sfiorarlo, solo allora sentì sibilare
all’orecchio quella voce roca e strana: «Che fai vecchietto, vuoi
che scatti l’allarme?». Come un bambino sorpreso a fare “le
brutte cose” il vecchio si fece tutto rosso in faccia e con un
unico lungo passo si allontanò dall’opera di quasi due metri,
mentre confusamente farfugliava delle scuse. «Non devi scusarti con
me, non sono mica del museo, io, e poi so bene come ci sente davanti
a un quadro che si ama, ti viene la voglia incontenibile di toccarlo,
di sentirne il colore a contatto con le dita, a me capita spesso;
piacere mi chiamo Clio… no, non aggiungere anche tu come
l’automobile…per favore». Il vecchio sorrise, sollevato da
quella naturale confidenza che solo i giovani sanno dare senza
riserbo e senza rispetto. «No - rispose- Clio, come la musa della
Storia, figlia di Zeus e Mnemosine, oppure… come la moglie del
nostro Presidente della Repubblica, beh, io invece sono Mario».
La ragazza strinse con
forza inconsueta quella mano offerta, mano di pelle dura, mano da
badile e di colore incerto come la corteccia del larice, poi se ne
tornò dondolando verso le poltroncine grigie, e un attimo dopo era
come se non si fosse mai mossa, le gambe, una di qua e una di là e
una insolita concentrazione sul volto. Il vecchio si avviò lento
verso l’uscita della sala, dedicando solo un’occhiata distratta
ai capolavori trionfanti del Tintoretto, appesi sulla parete opposta
al suo Tiziano, lui, del veneziano, preferiva di gran lunga le opere
della Scola Grande di San Rocco e forse pensava, che non fosse
nemmeno giusto contrapporre l’opera dolorosa del Cadorino a quei
teleri squillanti. Toppa arte, l’Italia ha troppa arte, senza
sapersela meritare; in qualsiasi paese del mondo, attorno ad ognuno
di questi quadri costruirebbero un museo apposta, in Italia li
accatastiamo dentro ai granai.
Fuori, la pioggia aveva
iniziato a cadere con meno forza, e da quello che poteva ancora
essere considerato un temporale di tarda estate, si era trasformata
in pioggia vera, pioggia che dura. Pioggia da stagione morta che fa
marcire le foglie cadute, pioggia che fa accendere le stufe e
desiderare il riposo.
Andrea Nicolussi Golo - 1a parte-
Bentornato Andrea, sentivo la mancanza dei tuoi racconti. Ritorno dopo un periodo di salute birbante e mi fa piacere di ritrovarti. Immagino chi ti richiama quel vecchio, ma mi immedesimo un po' anchio in lui.
RispondiEliminaGrazie Philo anche per me sono ritorni da viaggi non sempre felici e scrivo. è bello che ti ritrovi nelle mie povere parole, ecco è bello grazie. Andrea
EliminaProprio stasera stavo pensando... Philo, come mai latita? con tutta la diatriba sulle separate...
RispondiEliminaTasi valà, che l'è sta poco ben poareto. El ga mastegà ciòi in pìe par no poder dir la sua sule separate.A ghìn so ben copia mi che me ga tocà ciuciarme tute le so paturnie. Ma me par che Persefane pal momento nol ghe sente mia massa de torselo, elora te vedarè che pianpianelo el riva co le so lecadine.
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