venerdì 17 aprile 2015

A Venezia - 1 -

L’entrata principale al museo era sbarrata già da qualche tempo, e cartelli logori indicavano un accesso laterale. Certe impalcature, forse non del tutto rispettose della sicurezza, costringevano ad abbassare la testa, pensavo fosse un giusto esercizio di umiltà per i forestieri di passaggio.

Una, due gocce, tre… un giro di vento gelido, la polvere della strada davanti ai miei passi si fece a buchi, come quelli che fa la capalonga sulla spiaggia di Grado, poi la pioggia pesante, ghiacciata, profeta d’autunno, incominciò a battere con violenza sopra i teli di nylon malamente stesi a proteggere le attrezzature del cantiere: un grosso compressore a nafta annerito, una vecchia betoniera elettrica, assi di varia misura e natura, e sacchi di cemento, rimasti così, accatastati sopra il pallet con il quale erano stati scaricati dal burcio. Gettati con malagrazia in un angolo, sotto la pioggia, senza nemmeno la seppur minima protezione di un pezzo di telo, c’erano badili e picconi, sembravano anch’essi museali, memoria di quando gli utensili tenevano un’anima, e quelli in particolare, erano attrezzi fondamentali e rispettati nell’edilizia, prima dell’avvento delle mini-scavatrici, delle mini-ruspe, dei mini-uomini; sono certo che mio padre, pover’uomo, sarebbe corso per metterli al riparo. I pochi veneziani passavano via di fretta dal ponte dell’Accademia e sparivano come folletti dentro a chissà quale calle misteriosa, o forse, più semplicemente, spingevano stancamente una porta per poi salire le scale di modeste case operaie. La magica città sembrava quasi sghignazzare, mentre si stiracchiava, con piacere voluttuoso sotto quella pioggia rinfrescante che le scrollava di dosso un po’ di turisti. Come il selvatico, che accoglie con gratitudine l’acqua dal cielo che lo ristora e lo libera dall’assalto dei tafani, Venezia, quel mattino, allungava pigramente le gambe e cercava una posizione più comoda.

Un museo in restauro è come una lezione di anatomia, ti accorgi con stupore, che i gangli vitali di una creatura incantevole, osservati troppo da vicino, fanno un po’ schifo, ma per dire il vero, ad osservarla tutta, con disincanto, l’intera città di Venezia ricorda una lezione di anatomia. Dietro le facciate splendenti di marmi colorati, le viscere puzzolenti di certi rii ti spiegano senza aver bisogno delle parole l’origine straordinaria della vita.

Le pareti della piccola sala, quasi un’anticamera, che chissà da quanti anni non vedevano una mano di calce, avevano preso, con il passare del tempo, quel colore grigio freddo di certi giroscale delle case popolari tirate su di fretta alla fine degli anni ’60. A quei muri di cenere, la Tempesta del Zorzi da Castelfranco, el Zorzon, vi era appesa con svogliata noncuranza, come in altri tempi noi appendevamo i nostri poster; Pelizza da Volpedo accanto al Che, e qualcuno che se la tirava da intellettuale, vicino, a volte, vi attaccava anche l’opera del misterioso veneto, con le date e il luogo di una lontana mostra, a caratteri giganti. Più oltre, il salone era davvero troppo lungo, troppo alto, troppo tante cose, sgraziato, privo di armonia, diviso in due per tutta la sua lunghezza da una serie di poltroncine di finta pelle e ferro zincato che, scrostandosi faceva ruggine. L’intero stanzone aveva l’aria da sala d’aspetto di un qualche centro prelievi. A cavalcioni delle poltroncine, con una gamba di qua l’altra di là, la ragazza poteva avere diciotto anni, forse meno, di sicuro non di più; i capelli quasi rossi, tenuti assieme in una coda improvvisata, la faccia pulita e gli occhi truccati appena da un sottile velo di sfrontatezza infantile le donavano un’aria da Maddalena di montagna. Vestita ancora d’estate, con una canottiera stropicciata e un paio di pantaloni di jeans corti, corti come solo prima dei vent’anni puoi indossare senza diventare ridicolo. Aveva le gambe nude e forti, da atleta; da cervo, scriverebbe un poeta mancante di ispirazione, lo stesso poeta, che forse indugerebbe sul seno, come si dice… in fiore. Non ancora donna, direbbe sempre lui.. il poeta … non ancora bella. La ragazza voltava ritmicamente la testa, ora da un lato della sala ora dall’altro, come uno spettatore di tennis.

Il vecchio invece, con il Borsalino di feltro sformato, appoggiato di sghimbescio sulla testa nuda, sembrava non vedere altro che l’opera estrema del pittore a lui più caro, il sommo Tiziano Vecellio. Da sempre, considerava quella pietà livida, l’altra faccia, la scura, di quella, purissima, di Michelangelo Buonarroti, ma in fondo al cuore sentiva con amarezza, che la maestria del toscano di Caprese non poteva essere sfiorata, nemmeno da chi aveva eletto a preferito.

Nello stanzone non c’erano guardiani, e il vecchio, come trascinato da una forza senza nome, di centimetro in centimetro si faceva sempre più vicino al grande telero, sino a sfiorarlo, solo allora sentì sibilare all’orecchio quella voce roca e strana: «Che fai vecchietto, vuoi che scatti l’allarme?». Come un bambino sorpreso a fare “le brutte cose” il vecchio si fece tutto rosso in faccia e con un unico lungo passo si allontanò dall’opera di quasi due metri, mentre confusamente farfugliava delle scuse. «Non devi scusarti con me, non sono mica del museo, io, e poi so bene come ci sente davanti a un quadro che si ama, ti viene la voglia incontenibile di toccarlo, di sentirne il colore a contatto con le dita, a me capita spesso; piacere mi chiamo Clio… no, non aggiungere anche tu come l’automobile…per favore». Il vecchio sorrise, sollevato da quella naturale confidenza che solo i giovani sanno dare senza riserbo e senza rispetto. «No - rispose- Clio, come la musa della Storia, figlia di Zeus e Mnemosine, oppure… come la moglie del nostro Presidente della Repubblica, beh, io invece sono Mario».

La ragazza strinse con forza inconsueta quella mano offerta, mano di pelle dura, mano da badile e di colore incerto come la corteccia del larice, poi se ne tornò dondolando verso le poltroncine grigie, e un attimo dopo era come se non si fosse mai mossa, le gambe, una di qua e una di là e una insolita concentrazione sul volto. Il vecchio si avviò lento verso l’uscita della sala, dedicando solo un’occhiata distratta ai capolavori trionfanti del Tintoretto, appesi sulla parete opposta al suo Tiziano, lui, del veneziano, preferiva di gran lunga le opere della Scola Grande di San Rocco e forse pensava, che non fosse nemmeno giusto contrapporre l’opera dolorosa del Cadorino a quei teleri squillanti. Toppa arte, l’Italia ha troppa arte, senza sapersela meritare; in qualsiasi paese del mondo, attorno ad ognuno di questi quadri costruirebbero un museo apposta, in Italia li accatastiamo dentro ai granai.

Fuori, la pioggia aveva iniziato a cadere con meno forza, e da quello che poteva ancora essere considerato un temporale di tarda estate, si era trasformata in pioggia vera, pioggia che dura. Pioggia da stagione morta che fa marcire le foglie cadute, pioggia che fa accendere le stufe e desiderare il riposo. 
Andrea Nicolussi Golo - 1a parte-

4 commenti:

  1. Bentornato Andrea, sentivo la mancanza dei tuoi racconti. Ritorno dopo un periodo di salute birbante e mi fa piacere di ritrovarti. Immagino chi ti richiama quel vecchio, ma mi immedesimo un po' anchio in lui.

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    1. Grazie Philo anche per me sono ritorni da viaggi non sempre felici e scrivo. è bello che ti ritrovi nelle mie povere parole, ecco è bello grazie. Andrea

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  2. Proprio stasera stavo pensando... Philo, come mai latita? con tutta la diatriba sulle separate...

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  3. Tasi valà, che l'è sta poco ben poareto. El ga mastegà ciòi in pìe par no poder dir la sua sule separate.A ghìn so ben copia mi che me ga tocà ciuciarme tute le so paturnie. Ma me par che Persefane pal momento nol ghe sente mia massa de torselo, elora te vedarè che pianpianelo el riva co le so lecadine.

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