martedì 21 maggio 2019

Residui cimbri nella toponomastica di San Pietro Valdastico


Gianni Spagnolo © 190513

Della toponomastica minuta di San Pietro Valdastico abbiamo già trattato in un Post pubblicato quattro anni fa(1). Esso si riferiva alla raccolta dei nomi locali che ancora persistevano nei ricordi della generazione che ha vissuto il passaggio dalla precedente civiltà rurale. 
Fu un lavoro volontaristico, fatto alla buona e senza pretese, volto a raccogliere le tracce rimaste del passato prima che venissero definitivamente cancellate dalla memoria. Il frutto di quella ricerca è in gran parte visibile nelle tabelle sinottiche allestite presso il parcheggio del vecchio casello turnario. Più rigorosi, documentati ed articolati sono invece gli studi sulla toponomastica del tratto superiore della Valle dell’Astico e segnatamente quelli condotti anni prima da Alberto Baldessari per l’area di Pedemonte, nell’ambito del DTT (Dizionario Toponomastico Trentino) e di Lorenzo Munari per Lastebasse, confluiti nelle loro pubblicazioni documentaristiche e storiche (2/3)Recentissimo poi è il pregevole lavoro di Ivo Matteo Slaviero sui nomi del confinante territorio di Rotzo(4)Nessuna analisi sistematica è stata invece condotta per San Pietro  (ma direi per il comune di Valdastico nel suo complesso), complice forse una demotivante carenza di fonti storiche superstiti alle quali attingere. Qui ci limiteremo pertanto ad analizzare soltanto due aspetti della nostra toponomastica, che poi alla fine vedremo che arrivano a convergere:
§  In che epoca si sono formati ed affermati i toponimi locali?
§  Quanti di essi sono di derivazione cimbra?

È notorio infatti che i nomi dei luoghi testimoniano l’evoluzione linguistica di una zona e possono fornire informazioni altrimenti inafferrabili. Dividiamo intanto per comodità i toponimi in 3 categorie principali:
o  Toponimi ufficiali di mappa: nomi di paesi, fiumi, valli principali, rilievi più evidenti, ecc.;
o  Toponimi morfologici circoscritti: nomi di valli e vallecole laterali, di rilevi secondari, di malghe, di boschi, di grotte, di masi, ecc.;
o  Toponimi minuti d’uso esclusivamente locale: nomi di campi, di pascoli, di boschi, di sentieri, di bàiti, di capitelli, di rive, di are, di sorgenti, ecc.
Abbiamo visto in precedenti Post(4/5) che fino alla  prima metà del XIX° secolo l’uso della lingua cimbra era ancora ben praticato nella parte alta della Valle dell’Astico e segnatamente a Lastebasse e Carotte, per poi scemare scendendo giù al maso Scalzeri e scomparire del tutto da lì in poi.  Ciò rispecchia sostanzialmente la formazione dei toponimi locali, la cui origine è cimbra per circa l’80% sulla testata di valle, per scendere a meno del 50% agli Scalzeri e ridursi al 10% di Casotto (beninteso sono percentuali indicative, data l’incertezza di attribuzione di parecchi toponimi corrotti).
E a San Pietro?
Da un’analisi ponderata direi che siamo sull’ordine del 5%, se consideriamo l'insieme; saliamo a circa il 10% se escludiamo i toponimi moderni, cioè quelli evidentemente risalenti alle due ultime generazioni. Che conclusioni possiamo trarre da queste ridotte percentuali? A San Pietro s’è mai parlato cimbro? E in che epoca?
I pochi indizi lasciatici dai visitatori sette/ottocenteschi dicono di sì, anche perché altrimenti il contributo sarebbe stato nullo, ma soprattutto perché la formazione della toponomastica minuta è meno statica di quanto pensiamo.
Va considerato che neanche il dato degli Scàlzeri significa che lo parlasse un tempo solo una parte della popolazione rispetto alle Carotte, ma semplicemente che gli Scalzeròti cessarono di praticare l'antica lingua qualche tempo prima dei loro paesani più a monte e questo si riflesse sui nomi dei loro luoghi, che vennero in parte aggiornati in quell'intervallo. Per avere un quadro obiettivo bisognerebbe sapere infatti in che epoca si sono formati i toponimi in questione, essendo rappresentativi solo della lingua effettivamente parlata allora.
Vediamo intanto le 3 macro categorie formulate prima. I toponimi del gruppo A) sono prevalentemente di origine latina/italiana in tutto l’areale cimbro; alcuni hanno radici probabilmente anteriori all’epoca romana, come p.e. i torrenti Astico e Assa, sulla cui etimologia ancora si discute. Si tratta comunque di nomi codificati da secoli, usati nelle mappe e negli atti ufficiali, nella determinazione dei confini di stato e di giurisdizione ed è quindi ovvio che siano stati sempre espressi nella lingua ufficiale e tali rimasti.
I toponimi del gruppo B) sono quelli che risentono maggiormente dell’influenza cimbra, perché indicanti luoghi minori e di rilevanza soltanto locale, come p.e.: Trùgole, Cròjere, Sléche, Spitz, Chéstele, Nore (nelle varie declinazioni), Bise (nelle varie posizioni), ecc. 
I toponimi del tipo C) sono quelli che ricorrono in un ambito ancora più circoscritto, di contra’ più che di paese, e servono ad indicare le più minute articolazioni del territorio. Il loro uso era prevalentemente legato all'economia rurale del luogo, particolarmente a quella silvo-pasorale.

L’idea che mi son fatto analizzando i gruppi B) e C) è che i primi siano di formazione ben più antica dei secondi e che i toponimi del gruppo C) riferiti alla parrocchia di San Pietro risalgano ad un'epoca relativamente recente, cioè non oltre il paio di secoli fa, quando la parlata era ormai veneta. A questa conclusione mi portano le seguenti considerazioni: 
1.- La nostra inveterata abitudine ad associare i luoghi ai proprietari o alle persone con le quali hanno una qualche attinenza;
2.- La massiccia colonizzazione della montagna a seguito della distribuzione dei lotti in enfiteusi (1861 - I toponimi rinvenuti sono prevalentemente riferiti a quest'area)
3.- La straordinaria espansione demografica della seconda metà del 1800, che ha portato ad uno sfruttamento e ad una parcellizzazione intensiva del territorio;
4.- La tendenza a declinare alla veneta ogni termine.
Cerchiamo di analizzarle una per una:
La 1): Per quanto ne so, dalle storie tramandate in famiglia e in paese, la quasi totalità delle persone cui si riferiscono i toponimi riguarda gente vissuta fra la seconda metà del 1800 e quella del secolo successivo. Tanto per dirne alcune: Ara de Clemente, Campo del Non, Nora de Camilòto, Rive de Gànbaro; quasi tutti i bàiti, le are, i capitelli della Singéla, ecc. La maggior concentrazione è riferita alla zona boschiva montana, giacché in paese i toponimi propriamente intesi erano pochi (Aldere, Vegre, Canpagna, Pré de l'Astego, le contra', le valli, ecc.) e tutti gli altri indicativi di luogo erano riferiti ai loro proprietari, che tutti conoscevano (la riva de Menegante, la rosta de Baratieri, el Sasso de Godi e così via) e perciò destinati fatalmente a mutare con l'avvicendarsi delle generazioni. 
La 2) I boschi dei versanti che digradano verso valle furono di proprietà comunale fino al tardo '800, pur gravati dagli usi civici. Riterrei pertanto che l'identificazione e la personalizzazione minuta di quei luoghi sia avvenuta successivamente alla distribuzione dei lotti, in quanto prima ce n'era meno necessità.
La 3) Nel 1861 il comune di Rotzo provvide infatti a lottizzare e distribuire i boschi in enfiteusi alle famiglie del paese, cosicché molti diventarono proprietari e si dovettero identificare con assoluta precisione luoghi e confini dei lotti per l’accanita competizione nello sfruttamento delle risorse. Nello stesso periodo si adattò la Singèla al transito dei carriaggi, facendone un’arteria vitale nell'economia del paese, cosa che prima fu in misura senz'altro minore. Val dei Mori, Val del Paolo (attualmente Buso), Val dell’Inferno e Val di Vaccaretto sono gli unici toponimi nella zona della Singèla che ho trovato finora documentati prima del 1850.
La 4) Alcuni toponimi non hanno un significato oggi evidente; pensiamo alle valli di Torniéro, di Lujàn, delle Seràje, dei Mariasì; a posti come Sprécolo, Parsùi, ecc.. Torniero, p.e., in veneto significa tornitore, ma è un’attività un po’ improbabile da associare ai nostri paesani e a quella località: vedrei più verosimile la corruzione di qualche termine antico come DornenTondar (Val degli Spini o del Tuono). Lujàn oggi non ci dice niente, ma un significato l'avrà pur avuto in origine; azzardo da Löonan, nel senso di frana, slavina, evento certo non infrequente su quegli erti pendii.
Essendo i toponimi del gruppo C) di formazione estemporanea, d’uso molto specifico e circoscritto e finora mai registrati, sono pure soggetti alla mutazione dei tempi, delle abitudini e, a maggior ragione, della lingua parlata. Ecco perché sono convinto che essi si siano formati nel nostro paese in epoca recente, quando ci si esprimeva solo in veneto. Meno quelli del gruppo B) la cui maggiore antichità fa risuonare di più l’antica lingua e che forse furono soggetti a processi di traduzione/conformazione per la loro maggior persistenza nel tempo. Notare come i nomi che non hanno più significato corrente siano spesso declinati in forma diversa accentuando il processo di corruzione (Lujàn/Dujàn/Duglian, Sprécolo/Spècolo, Krojer/Croiere, Trozo/trodo/strodo, ecc.)
Facciamo un piccolo esempio, giusto per evidenziare come possa modificarsi un toponimo minuto nostrano in un paio di generazioni, pur restando all'interno dello stesso contesto linguistico; figurarsi poi con una sostituzione linguistica in atto. 
La mia famiglia ha un piccolo podere situato: “In Sima ala Fontana, rénte al Creàro, sora dela Strada Nova, soto al Canpéto de Isaco”. Questa era l’indicazione dettagliata del luogo che avrebbe dato mio nonno. Lui apparteneva ai tempi in cui della fontana lì sotto c’era ancora memoria, la strada per Rotzo l’avevano appena costruita e Isacco Nicolussi, che coltivava con passione il suo campetto lì sopra, era un suo coetaneo ed amico. Io invece allora ignoravo che lì sotto ci fosse mai stata una fontana, il créaro ho scoperto cosa fosse vari anni dopo, quella strada non mi pareva affatto nuova perché l'avevo sempre vista e mi sembrava vecchia e Isacco non l'ho mai conosciuto perché era già morto. Perciò mi chiedevo che razza di strani riferimenti usassero i vecchi per identificare il territorio, che a me non dicevano assolutamente nulla. 
A noi ragazzi d'allora bastava dire “su pal Canpéto”, con buona pace di Isacco buonanima; perché allora c’era ancora un campetto, cioè un'ampia terrazza ormai incolta, con a margine un bel bàito a due piani che ce lo rendeva particolarmente caro. Ora, dopo che quel pianoro è stato rimboscato circa quarant’anni fa, non lo si potrebbe neanche più definire campetto, per cui se qualcuno, io p.e., dovessi oggi usarlo per allevarci, che ne so: delle capre, esso verrebbe facilmente chiamato il “boschetto di Gianni” o “delle capre” o chissà cos'altro s'inventerebbero i paesani per denominare questa novità. Ecco come, nel giro di un paio di generazioni possono modificarsi le cose, senza lasciare traccia alcuna del precedente vissuto.
Il Chéstele e la sua valle, ovvero i bastioni nei quali nel 1936 è stata incastonata la diga maggiore, era un toponimo che quand'ero bambino era usato solo dai vecchi. Noi chiamavamo il posto "su par la diga" o la "Val dele Giare". In alternativa gli anziani la chiamavano “I tri Camìni” oppure "Val de Menegòsto",  associandola al soprannome della famiglia che ci abitava a ridosso nel suo tratto inferiore e ai disastri patiti nel 1924/34 di cui conservavano vivida memoria (ma forse più che altro perché erano coetanei del Vecio Menegòsto). La mia generazione dunque ha sentito nominare sporadicamente il Chéstele, ma quella successiva non più e del toponimo rimarrà traccia soltanto perché è stato trascritto, altrimenti sarebbe scomparso. Vediamo dunque che ognuno preferisce usare i riferimenti che più gli sono consueti per identificare il suo habitat, ma che questi tendono inevitabilmente a modificarsi col trascorrere delle generazioni, adattandosi alle mutate circostanze.
Costa Longa e Costa Curta, toponimi riferiti alle rive delle attuali località di Baise e Valeri e documentati ad inizio 1800, io li ho letti sulla vecchie mappe, non li avevo mai sentiti prima in paese.  Sulla testata della Torra troviamo p.e. la valle del Cimitèro, toponimo risalente all'epidemia di colera del 1836, quando tre malghesi vittime del morbo vennero sepolti in loco per evitare il contagio in paese. Come si chiamasse prima quella valle non è dato di sapere, ma un nome l'avrà certo avuto. 
Molti luoghi hanno nomi qualificativi (Soji russi, Sojo alto, Sojo bianco, Val dell'erba, dell'orso, del corvo, Dosso dei làrese, Costa dei fagàri, ecc.), che essendo di palese significato ben si prestavano ad essere direttamente rinnovati nella parlata dominante. Ai nostri giorni, pur esprimendoci in dialetto, tendiamo p.e. a dire sentiero (usando l'italiano), quello che da ragazzi chiamavamo tranquillamente "trodo", oppure ad usare oggi anziché "ancò", perché ci sembrano termini troppo rustici da perpetuare. L'avessimo fatto cinquant'anni fa ci avrebbero senz'altro presi per dei petoléta. Un'autocensura che in pochi anni certificherà la fine del nostro dialetto. Possono rimanere alcuni arcaismi, come scafa, ma forse solo perché non sappiamo come tradurla. Figuriamoci dunque cosa possa essere successo a cavallo fra il 18° e 19°secolo, in tempi di epocali mutazioni economiche, sociali e politiche; nell'ordine: collasso della Serenissima, avvento di Napoleone, ripetute carestie e pestilenze, restaurazione asburgica.
Giova qui riproporre l'amara riflessione scritta già nel lontano 1790 da don Agostino Dal Pozzo, indiscutibilmente informato e competente in materia:
 “Eppure chi li crederebbe! In un angolo dei Sette Comuni, dove attesa la situazione, il linguaggio tedesco potrebbesi conservare e più puro, e più a lungo che in altri luoghi, gli abitanti sono venuti da qualche tempo a tale riscaldamento di fantasia, che odiano e vilipendono la propria lingua, vergognandosi di parlarla quasi fosse un disonore e una infamia servirsene. Non basta proibiscono ai figli di apprenderla, e agli ospiti di parlarla nelle loro case, a fine di abolirla ed annientarla. E non è questa una barbara e inaudita crudeltà detestare il linguaggio, che succhiarono col latte: che fu si caro ai loro antenati: che caratterizza e distingue la nostra privilegiata nazione dalle vicine, e ch’è l’argomento più decisivo che abbiamo della nostra antichità ed origine: Argumentim originis? Ben si può applicare a costoro il rimprovero che Cicerone scagliò contro a que’ Romani che trascurarono di coltivare il proprio idioma, appellandoli scimuniti e vanarelli! Questi tali in pena di aver cooperato alla perdita della nativa lor lingua, meriterebbero d’esser privati del beneficio di godere dei privilegi accordati alla nazione de’ Sette Comuni, di cui si vergognano d’esser parte disdegnando di parlarne la lingua”

Riferimenti al testo:
(2) I Lastarolli di Lorenzo Munari - La Serenissima, Vicenza - 2002 
(3) I nomi parlano: viaggio intorno ai nomi di luogo di Pedemonte di Alberto Balessari e Tullio Pasquali - 2004
(4) Rotzo. Toponimastica storica e aspetti di vita della comunità di Ivo Matteo Slaviero - 2014

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