Sono stato benevolmente richiamato sulla grammatica della mia scrittura del dialetto perché non uso i segni grafici classici del veneto(2). É vero! Evito i caratteri che convenzionalmente si usano per rendere la fonetica del dialetto (X; Ł; ò, assenza di doppie, ecc.) perché ritengo che la nostra parlata abbia (avesse) suoni diversi dalla pronuncia veneta/vicentina, che possono essere restituiti anche con il consueto alfabeto italiano.
Ad esempio: pétola si pronuncia asciuttamente come si scrive, non pètoea; idem polenta, che non è mai poenta o połenta; la “z” sonora diventa sempre “d” Tonezza=Tonéda, zenocio=dénocio, zenèro=déndre. Zé, con la z sorda, per “è” mi pare più autentico di xe.
Considerando anche che la zeta, che in veneto è pressoché assente, da noi rimane (sempre sorda [ts]), specialmente nei termini di derivazione cimbra. Così pure le doppie, che in veneto non si usano, mi sembra siano invece necessarie in molti termini nostrani. Questo similmente a tutta la montagna vicentina, ma da noi con caratteristiche anche peculiari.
Considerando anche che la zeta, che in veneto è pressoché assente, da noi rimane (sempre sorda [ts]), specialmente nei termini di derivazione cimbra. Così pure le doppie, che in veneto non si usano, mi sembra siano invece necessarie in molti termini nostrani. Questo similmente a tutta la montagna vicentina, ma da noi con caratteristiche anche peculiari.
Lascio comunque ai glottologi di dirimere queste faccende. Io cerco di rendere i suoni il più fedelmente possibile con gli strumenti ordinari della lingua italiana, senza alcuna velleità accademica.
A San Pietro si parla (parlava) un veneto più duro, spigoloso, aspro e spesso con termini diversi e accenti traslati rispetto a quello dell’area pedemontana.
Una parlata che ci assomiglia parecchio!
Essa non ha la morbidezza del Vicentino né la simpatica cantilena del Trentino; anche se fa da ponte territoriale tra i due, mi pare che non li leghi come invece sarebbe naturale aspettarsi.
Si avverte che è una lingua non ancora completamente metabolizzata. Quella di un luogo che pur essendo situato in una valle di antico transito, è stato comunque culturalmente ed etnicamente isolato ed è tuttora in fase di uniformazione con la regione cui appartiene. Alcuni forse ricorderanno che nella decina di Km che separano Barcarola da Lastebasse ogni paese, per non dire contrada, avesse elaborato una propria piccola specificità. Certo ora non più, la parlata si è incivilita, alterata e uniformata alla sintassi italiana, ma in un passato non lontano si riusciva a distinguere se uno veniva dal Maso piuttosto che dal Casotto o da Pedescala (entro neanche tre chilometri di raggio), soltanto dalla pronuncia o da certi particolari modi di esprimersi.
Si avverte che è una lingua non ancora completamente metabolizzata. Quella di un luogo che pur essendo situato in una valle di antico transito, è stato comunque culturalmente ed etnicamente isolato ed è tuttora in fase di uniformazione con la regione cui appartiene. Alcuni forse ricorderanno che nella decina di Km che separano Barcarola da Lastebasse ogni paese, per non dire contrada, avesse elaborato una propria piccola specificità. Certo ora non più, la parlata si è incivilita, alterata e uniformata alla sintassi italiana, ma in un passato non lontano si riusciva a distinguere se uno veniva dal Maso piuttosto che dal Casotto o da Pedescala (entro neanche tre chilometri di raggio), soltanto dalla pronuncia o da certi particolari modi di esprimersi.
Molte delle parole ormai cadute in disuso avevano origine e desinenze non venete e divennero ostiche alla pronuncia anche ai locali che avevano crescenti difficoltà a legarle al dialetto vicentino che si stava imponendo; perciò sono state velocemente abbandonate a favore dei sinonimi veneti, a volte distorcendone pure il significato.
Derivavano dal cimbro(3), peraltro parlato nel territorio comunale fino agli albori del secolo scorso.
Derivavano dal cimbro(3), peraltro parlato nel territorio comunale fino agli albori del secolo scorso.
Ne sono rimaste vestigia nei soprannomi più antichi delle nostre famiglie:
Bàisse, Betéle, Garbàto, Màule, Pàmele, Godi,…
Nei toponimi: Chéstele, Sléche, Bisa/Bìsele, Tóra, Chipa, ...forse: Joa, Nóre, Trudi, ecc.
Nei termini: Snébele, Chìtele, sgnéco, Snàra, bióto, Cróte, Ghénghele, Béghele, Slìba, pitufàre, Befèl, Rùfa, Saane, Stéela, slìndese, snoràre, smeàro, Flassa, Móose, Schìnche, sdréc, Clàmara, ..e tanti altri che magari ai più anziani torneranno in mente.
Mi sono spesso chiesto la ragione di questa singolare situazione e di come parlassero i nostri progenitori in passato. In ciò fui anche fuorviato dalle varie pubblicazioni sulle “isole linguistiche” che si fissano sull’evidenza attuale (facile), ipotizzano contorte derivazioni etniche(4) e interpretazioni di nomi e toponimi, ma frequentano meno la logica e gli usi e costumi della nostra gente.
La documentazione scritta in merito sull'alta valle dell'Astico è purtroppo assai carente, ma alcuni viaggiatori e studiosi del XVIII-XIX° secolo (Schmeller, Brentari, Pezzo, Maccà e il nostro Dal Pozzo) ci hanno lasciato comunque delle tracce sufficienti a farci un'idea della situazione all'epoca.
Nella sua visita del 1833, l'insigne linguista tedesco J. Andreas Schmeller, notò con sorpresa che si parlasse ancora cimbro a Lastebasse (Casenuove di San Marco) e che addirittura alle Carotte fosse usato anche dai bambini. Lo stupì ancor più il fatto che lo fosse in una forma decisamente più pura di quella che aveva appena udito da alcuni pochi anziani nei soprastanti altipiani di Lavarone e Folgaria, dove ormai l'antica lingua era già spenta. Riscontrò poi che più oltre nella valle, a Casotto e San Pietro prevalesse il veneto.
L'irredentista trentino Ottone Brentari, scrisse che si parlasse ancora l'antica lingua al maso Scalzeri nel 1850, come pure a Montepiano e Boscoscuro.
L’Abate Dal Pozzo, che era di Castelletto e quindi sapeva il fatto suo, si rammaricava che già alla fine del 1700 Pedescala avesse ormai perso la parlata nazionale.
La sera del 30 settembre 1833, lo Schmeller giunse a San Pietro, accompagnato da Don Matteo Dal Pozzo, curato di Casotto. Di San Pietro annota che non si parla più la lingua tedesca da molto tempo. [..aber längst nich mehr deutsch sprechenden Gemeinde..]. Quella lingua che a Rotzo, che era allora il capoluogo comunale ma geograficamente più marginale, resistette fino alla Prima Guerra mondiale.
Il padre Gaetano Maccà, autore di una voluminosa storia delle chiese del territorio vicentino, visitò San Pietro verso il 1805 e annotò che la popolazione parlava “oggidì” la lingua italiana. Parimenti si espresse per Pedescala scrivendo che “al presente“ parlasi la lingua italiana (intendendo ovviamente la veneta). Nel medesimo periodo scrisse che ad Enego e Lusiana “parlasi italiano” (senza specificazioni temporali), che a Foza si parlava un cimbro più puro rispetto agli altri centri interni dell'Altopiano, affiancato all’italiano. Di Gallio argomentò che si parlasse italiano in paese ma non nelle sue contrade sparse, quantunque l’italiano si capisse, ma che 40 anni prima esso non fosse affatto in uso. Non specificò invece la parlata per i paesi dell’altopiano dov’era ancora corrente il cimbro (Asiago, Roana e Rotzo); evidentemente considerava del tutto ovvia la cosa. Così per gli altri paesi vicentini fuori d’areale cimbro, dove non ritenne ovviamente di rilevare quale lingua parlassero gli abitanti. Queste specificazioni portano a ritenere che proprio in quel periodo si fosse imposto a San Pietro, come a Pedescala il veneto come lingua corrente di relazione, ma che questa situazione fosse recente e ancora persistessero tracce della parlata cimbra. Anche don Marco Pezzo, nella sua opera del 1763 si rammaricava che S. Pietro e Pedescala stessero perdendo o avessero già perso l'uso corrente del cimbro similmente a tutta la fascia orientale di Enego-Lusiana-San Donato del Covolo.
Nel 1610 il conte Caldogno, nel riuscito tentativo di allargare alle montagne dell’Alto Astico la Milizia dei 7 Comuni per meglio presidiare dei confini della Serenissima, scrisse che Tonezza e Lastebasse si intendessero senza problemi con quelli dell’Altopiano perché parlavano la medesima lingua.
Fino a tutto il XVIII° secolo San Piero era un paese di al massimo 400 anime, con famiglie che si formavano all’interno della stessa comunità e con ricorrenti escursioni parentali nei paesi limitrofi lungo l’Alta Valle e le Montagne circostanti, com’era consuetudine in tutto il comprensorio. I legami fuori da questo furono sempre assai limitati e similmente per le comunità confinanti.
Ben pochi forestieri infatti si stabilirono definitivamente da noi e non ho nozione di matrimoni avvenuti fuori dal territorio considerato.
D’altra parte è del tutto comprensibile che una zona dalla vita certamente più tribolata, chiusa e parlante al suo interno un idioma diverso non offrisse particolari attrattive alla gente del piano.
Ben pochi forestieri infatti si stabilirono definitivamente da noi e non ho nozione di matrimoni avvenuti fuori dal territorio considerato.
D’altra parte è del tutto comprensibile che una zona dalla vita certamente più tribolata, chiusa e parlante al suo interno un idioma diverso non offrisse particolari attrattive alla gente del piano.
Sono figlio di generazioni di emigranti di lunga data, ovvero di persone che trascorsero in paese magari soltanto la fanciullezza, allevati spesso dai nonni e che poi non ebbero eccessiva frequentazione con il dialetto veneto parlato in paese e ancor meno con l’italiano. Quel dialetto che si stava velocemente corrompendo per l’incipiente sviluppo e le accresciute relazioni con l’esterno, che invece nelle famiglie emigrate si mantenne statico, come appreso in gioventù.
Ecco allora che da bambino mi capitava di sentir echeggiare in famiglia motti che provenivano dal buio del tempo e da una lingua sconosciuta e misteriosa.
Era il retaggio di parole che i miei vecchi avevano sentito a loro volta da bambini dai loro nonni e ogni tanto emergevano, fortemente alterate ma evocative di un passato che mi sfuggiva, seppur mi affascinava.
Fu quando dovetti a mia volta emigrare e praticare il tedesco e i suoi dialetti che quei suoni e i loro significati cominciarono a svelarsi. Ho il rammarico di non aver avuto allora l’età e la consapevolezza per poterli registrare e che ora purtroppo sono relegati nella vaghezza di lontani ricordi.
In seguito ho cercato di annodare quegli esili fili, spulciando libri, documenti, registri parrocchiali e curiali, catasti, archivi, atti e pratiche della nostra gente fin dove mi consentivano i miei limiti di tempo e di cultura.
La limitatezza e la frammentarietà delle fonti mi hanno costretto a fare molte congetture e a percorrere e scartare molte ipotesi, finché mi sono ragionevolmente convinto che a San Pietro si sia parlato cimbro fin quasi alla fine del settecento, ma con qualche residuo strascico anche nel secolo successivo*.
Con forme e modalità che però è bene precisare, per evitare fraintendimenti.
La limitatezza e la frammentarietà delle fonti mi hanno costretto a fare molte congetture e a percorrere e scartare molte ipotesi, finché mi sono ragionevolmente convinto che a San Pietro si sia parlato cimbro fin quasi alla fine del settecento, ma con qualche residuo strascico anche nel secolo successivo*.
Con forme e modalità che però è bene precisare, per evitare fraintendimenti.
Probabilmente la parlata e la comprensione del cimbro coabitò lungamente con quella veneta che si stava affermando. Ritengo che la nostra comunità sia stata bilingue per molto tempo, forse per un paio di secoli, trovandosi in una situazione prima di diglossia e quindi di dilalia(5), prima che il veneto prevalesse definitivamente. È in una forma dilalica molto corrotta e frammentata che ritengo sia sopravvissuta, almeno in alcune famiglie, fino ai nostri trisavoli*.
Sul principio del XVI° secolo il veneto dovette essere praticato soltanto dalle persone che dovevano necessariamente aver contatti con l’esterno: autorità, preti, osti, commercianti, carrettieri, pastori, ecc. Anziani, donne e bambini non ne avevano bisogno e per le relazioni locali e con i paesi limitrofi si usava la lingua nazionale. Soltanto chi ne aveva effettiva necessità doveva servirsi del veneto. Non c’erano allora istituzioni o strumenti che obbligassero tutti a confrontarsi con esso, come la scuola, i media o la leva.
Tutti in comunità parlavano il cimbro, ma sapevano anche il veneto; chi più e chi meno. L’unico forestiero poteva essere il prete. Anche questo credo non fosse un gran problema: noto che se anche il beneficio della parrocchia fu assegnato nominalmente a sacerdoti esterni, questi preferissero sempre affittarlo ad un curato della zona. Intere famiglie che vivevano nelle contrade più appartate o che esercitavano i mestieri dei boschi o dei campi potevano non venir proprio in contatto con realtà diverse dalla locale e quindi mantenere a lungo usi e lingua tradizionali.
Dal rapporto del conte Francesco Caldogno, colonnello delle milizie dei 7 Comuni, alla Serenissima (anno 1598):
“Questi uomini delli Sette Comuni, siccome tutti gli altri delli monti vicentini, per l’ordinario, parlano in tedesco, con tuttoché molti abbiano anco la lingua italiana ..// .. Né sono molte decine d’anni, che parte di loro vicini alla città hanno perso quella lor lingua…. ”
“Questi uomini delli Sette Comuni, siccome tutti gli altri delli monti vicentini, per l’ordinario, parlano in tedesco, con tuttoché molti abbiano anco la lingua italiana ..// .. Né sono molte decine d’anni, che parte di loro vicini alla città hanno perso quella lor lingua…. ”
Questa situazione credo si sia protratta a lungo, sempre più pregiudicata dagli eventi che potevano ferire a morte la comunità e interrompere i legami secolari; su tutti: guerre e pestilenze.
Avvenne così infatti anche con la Grande Guerra, che con il suo corollario di distruzione, esilio, ricostruzione e innovazione, decretò sostanzialmente e repentinamente la fine dell'antica lingua nei 7 Comuni.
Non così invece a Luserna, dove il maggior isolamento e il ripetuto esilio in terre germanofone probabilmente contribuì a rafforzare i caratteri specifici della comunità e permise di tramandarne l'idioma fino ai giorni nostri, grazie anche ad una encomiabile volontà di salvaguardarla.
Fra la fine del Settecento e la prima metà del secolo successivo accaddero avvenimenti che minarono profondamente le nostre comunità e la loro coesione sociale. Con la caduta della Repubblica Veneta, l’occupazione napoleonica e i successivi riassetti dopo il Congresso di Vienna, si aprì un periodo di grandi tribolazioni. Ci furono paurose carestie, intervallate da anni di abbondanza che non poterono essere sfruttati per carenza di forze, creando le premesse per successiva miseria. Infine per ben due volte, nel 1836 e nel 1855, imperversò il colera decimando la scarsa popolazione della valle e anche tifo e malattie da debilitazione fecero la loro parte.
Durante l'ultima epidemia di colera a San Pietro, nell’estate del 1855, morirono 57 persone (i capitelli della Campagna e dei Lucca furono eretti a voto). Vennero sepolti di notte, senza esequie e senza registrarli per l’estremo scoramento della popolazione. Si arrivò a levare le patate seminate dai campi! Questo da il segno di quale sia stato il livello di prostrazione e debilitazione della comunità. Quali categorie soccombettero più numerose? Certamente i più anziani e i più piccoli: proprio gli anelli principali della catena della tradizione,… che probabilmente si ruppe!
I retaggi più antichi lasciarono il posto al nuovo e più promettente avvenire, anche nella lingua.
Durante l'ultima epidemia di colera a San Pietro, nell’estate del 1855, morirono 57 persone (i capitelli della Campagna e dei Lucca furono eretti a voto). Vennero sepolti di notte, senza esequie e senza registrarli per l’estremo scoramento della popolazione. Si arrivò a levare le patate seminate dai campi! Questo da il segno di quale sia stato il livello di prostrazione e debilitazione della comunità. Quali categorie soccombettero più numerose? Certamente i più anziani e i più piccoli: proprio gli anelli principali della catena della tradizione,… che probabilmente si ruppe!
I retaggi più antichi lasciarono il posto al nuovo e più promettente avvenire, anche nella lingua.
Non appena cessata la pestilenza, si assistette infatti ad un forte incremento demografico, e all’arrivo di nuove famiglie da fuori. Allora la gente resisteva alla vita donando la vita!
Mio bisnonno paterno Domenico Spagnolo, classe 1851, in famiglia era chiamato: Méneghele, sua moglie Caterina: Càtele, i bimbi di casa: nìnele, …la capra: mémele. Diminutivi e vezzeggiativi improbabili nel dialetto veneto: erano gli ultimi barlumi dalle braci di una lingua che si spegneva nel focolare della Storia. Relegata nell’ultimo suo baluardo: il lessico familiare; il linguaggio degli affetti!
Proviamo a fare il parallelo con l’evoluzione del dialetto veneto parlato nel corso di un secolo. Dal 1950, periodo in cui il dialetto era parlato e capito da tutti e con lessico ben differenziato dall’italiano e una ricchezza di modi di dire originali dovuti al suo radicamento sociale, al 2050 quando probabilmente non lo parlerà correntemente più nessuno. Resteranno forse l’accento tipico, alcuni termini e desinenze. In qualche remoto anfratto sopravviverà ancora una comunità di irriducibili che sarà debitamente studiata, censita, soggetta di tesi di laurea, le verrà forse dedicato anche un Istituto di Cultura.
Qualcosa resisterà negli affetti, quando a qualche nonno scapperà uno strambotto che susciterà l’ilarità dei nipotini, ..come succedeva a me da bambino!
Questo a significare che se il declino del nostro dialetto (e il bilinguismo con l’italiano) durerà circa un secolo, sottoposto ad attacchi d’ogni genere (fine della civiltà rurale, emigrazione, industrializzazione, istruzione diffusa, mass media, mode imperanti, globalizzazione, ecc.), quello del cimbro potette durare molto più a lungo, avendo nessuno di questi nemici e per amico l’isolamento.
A mio avviso però con una differenza sostanziale: mentre il veneto si presta ad essere facilmente fagocitato dall’italiano, non così il cimbro nel veneto, che non ne ha i suoni e la sintassi. Quindi la sostituzione ritengo sia avvenuta molto repentinamente: nell’arco d’una sola generazione!
Scomparsa quella generazione bilingue che aveva vissuto il trapasso, le nuove crebbero col veneto e si perse subito ogni memoria del cimbro che non potette, per ovvie ragioni di incompatibilità linguistica essere assorbito dal veneto e neanche più compreso. Nel frattempo s’impose l’istruzione obbligatoria in italiano e fu chiara la direzione della Storia. È altresì assodato che il parlar cimbro fosse associato a concetti di arretratezza, povertà e ignoranza e quindi soffocato anche dalle incipienti tendenze moderniste e nazionaliste.
A tal proposito giunge illuminante una riflessione lasciata scritta dall'Abate Agostino dal Pozzo Prunnar nel 1790:
“ Eppure chi li crederebbe! In un angolo dei Sette Comuni, dove attesa la situazione, il linguaggio tedesco potrebbesi conservare e più puro, e più a lungo che in altri luoghi, gli abitanti sono venuti da qualche tempo a tale riscaldamento di fantasia, che odiano e vilipendono la propria lingua, vergognandosi di parlarla quasi fosse un disonore e una infamia servirsene. Non basta proibiscono ai figli di apprenderla, e agli ospiti di parlarla nelle loro case, a fine di abolirla ed annientarla. E non è questa una barbara e inaudita crudeltà detestare il linguaggio, che succhiarono col latte: che fu si caro ai loro antenati: che caratterizza e distingue la nostra privilegiata nazione dalle vicine, e ch’è l’argomento più decisivo che abbiamo della nostra antichità ed origine: Argumentim originis? Ben si può applicare a costoro il rimprovero che Cicerone scagliò contro a que’ Romani che trascurarono di coltivare il proprio idioma, appellandoli scimuniti e vanarelli! Questi tali in pena di aver cooperato alla perdita della nativa lor lingua, meriterebbero d’esser privati del beneficio di godere dei privilegi accordati alla nazione de’ Sette Comuni, di cui si vergognano d’esser parte disdegnando di parlarne la lingua”
Gianni Spagnolo
15 agosto 2012
15 agosto 2012
Note:
(2) Per il nostro dialetto uso indifferentemente il termine vicentino o veneto, intendendo genericamente la parlata della zona.
(3) Cimbro è ormai accettato come sinonimo di parlata locale di origine germanica, senza l’accezione di derivazione diretta dal popolo dei Cimbri, giudicata inconsistente dagli studiosi.
(4) Sull’origine della popolazione della nostra zona (fascia di montagne e valli che va dai Lessini alla Valsugana) si è scritto e ipotizzato di tutto. Ultimamente pare prevalere la tesi di immigrazioni di famiglie dall’area bavarese fra il XII° e il XIV° secolo. Personalmente non sono affatto convinto di tale ipotesi e spero che nuovi e più approfonditi studi possano gettare migliore luce sull’origine di questi insediamenti.
(5) Per diglossia s'intende un bilinguismo diviso per sfere d’azione. Es.: si parla solo dialetto in famiglia e all'interno della propria comunità e si parla solo italiano al di fuori di esse. Invece la dilalia vede una lingua prevalente parlata in tutti gli ambiti e una lingua soccombente parlata solo in un ambito ristretto, ma comunque assieme alla prevalente. Es.: si parla italiano anche in famiglia, ma solo in famiglia, o con chi ci può intendere, si parla anche dialetto. La forma dilalica è ovviamente la fase conclusiva e più corrotta dell’esistenza di una lingua, ma essa può sussistere anche per lungo tempo all’interno di famiglie o comunità ristrette. È piuttosto difficile in tal contesto capire quando una lingua cessa definitivamente di essere praticata, dato che l’evidenza superficiale esterna (sociale) può anche non manifestarla.
In questo scritto esprimo considerazioni che derivano dalle mie esperienze personali e familiari, dalle mie informazioni e dalle mie riflessioni, avendo praticato da dilettante la storia locale con ricerche appassionate, anche se poco organiche ed ortodosse. Non ho alcuna pretesa di dare risposte esaustive o tesi inconfutabili ad argomenti che restano piuttosto arcani anche a chi vi si è cimentato con maggior cultura e mezzi.
Eh sì caromio, anca chìve dale me bande i diséa che no se ghéa mai parlà slambroto, ma ala prova dei fati gera solo la memoria a essere massa curta. Pò ghe gera anca gente, de quili che comandava, che no ghe comodava mia masa che ste robe se saésse. Pensete che i gera rivà a ciaparsela anche coi tori burlini. Stiani noi se rendéa gnanca conto, no saèndo de altro i pensava che i stramboti dei veci fusse roba da rinco.
RispondiEliminaSempre molto interessante ed istruttivo, dovrebbero chiamarti a far qualche oretta nelle scuole della Valle...
RispondiEliminaTroppo Bravo
Grazie coscri, troppo buono. Ma credi veramente che queste storie interessino a qualcuno? Ricordare è impegnativo, è più facile dimenticare, come si è sempre fatto.
EliminaRicordare è un dovere per chi ne ha le capacità, la rinuncia alla memoria è molto più grave in chi sa e sa di sapere che in altri. Ricorda Gianni la parobola dei talenti? Se la mia piccola voce le è di conforto la aggiungo volentieri alla sua/tua. Non è nel passato l'età dell'oro ma nel futuro,dal passato però possiamo trarre gli strumenti adatti per vederlo in modo chiaro, questo futuro che ci sfugge ogni momento. Spero davvero di incontrala e di potermo firmare con Amicizia.
EliminaAndrea
Pessimissimi refusi, chiedo venia!
EliminaAndrea
Non preoccuparti Andrea, che io batto saldo; era solo un'amara constatazione. Dai che ci troviamo in Luserna, così mi fai vedere il vostro Istituto. Sai che non l'ho mai visitato?
EliminaGianni, leggo sempre molto volentieri questi tuoi articoli. Del passato nostrano so poco non essendo nativa di qui. So quel poco che in questi anni ho sentito raccontare, apprendere del passato per capire (almeno ci provo) il presente
RispondiEliminaGrazie Renata, i tartufi più preziosi crescono sulle radici.
EliminaBella immagine Gianni ! Alla TV francese abbiamo una trasmissione-reportage/incontri, due volte al mese che si chiama :"des racines et des ailes" La finalità di questa transmissione è guardare il passato per capire il presente e dare delle piste per il futuro, con la volontà di mettere in luce delle personalità che agiscono sul terreno"
EliminaL'espressione viene da un proverbio ebraico che dice che i genitori devono dare al bambino due cose nella vita: le radici e le ali ; le radici per la fiducia e l'identità, le ali per (prendere il volo) aprirsi al mondo nel quale vive. L'uno non va senza l'altro.
Questa analisi è tutt'altro che dilettante! E' un contributo di valore scientifico. Chiaro e ragionato, bellissimo! Complimenti vivissimi.
EliminaMolto interessante, questa proprio non la sapevo.
RispondiEliminaMia Nonna veniva da Mosson paesino piccolo, frazione di Cogollo ,credo che anche li si parlasse cimbro perché molti toponimi da lei citati mi hanno fatto fare un tuffo nel passatto come steela,crote,
RispondiEliminaMenghele, Ninele e il più todesco di tutti
Russak ossia zaino.
Ella fa Frigo di cognome come molti altri nei paesi vicini.