domenica 19 agosto 2012

1969 Lo sbarco sulla luna


1969 : La luna

La giornata che precedette lo sbarco sulla luna la ricordo bene, la porto dentro di me in un ricordo dolce che mi accompagna ormai da tanti anni.
Io avevo 15 anni, un’età di sogni e di speranze che si fissano dentro e restano per tutta la vita con il loro carico di nostalgia e di dolcezza.
Ero in vacanza dopo il primo anno di superiori a Schio, all’ITIS Silvio De Pretto,
il caldo aveva fatto la sua parte e l’afa avvolgeva tutto come una melassa appiccicosa.
Sul far della sera qualche lucciola aveva illuminato di poesia il suo breve e leggero volo e scuri "brombajuj" avevano volteggiato pesanti tra le foglie degli alberi.
Profumi di fiori nell’aria, il gelsomino fiorito sul piccolo cortile sembrava coperto di piccole stelle; lontano sulla strada del Costo qualche automobile era scesa lenta dall’altopiano di Asiago, villeggianti di un giorno che tornavano a perdersi nella pianura.
Mio padre, a quel tempo, lavorava alla Lanerossi nei duri turni giornalieri: quel 20 luglio era domenica, giorno di riposo.
Un giorno di riposo per modo di dire, perché il mattino lo aveva passato a sudare sulla terra, quella riva sassosa e ripida che dava un po’ di vino, qualche ortaggio, dei fichi, dei pomi e delle ciliegie: il necessario per arrotondare il magro stipendio per mandare avanti la famiglia di cinque persone.
Il pomeriggio, come sempre di domenica, mio padre era andato a fare un giretto al Costo, la contrà sopra casa nostra per giocare a bocce o a carte da Bastianon, da Volpato o alla Riva, le tre osterie che da sempre si contendevano gli avventori in poco spazio.
La sera era ritornato "olando" come diceva mia madre: qualche bicchiere in più lo rendeva allegro e disponibile e come sempre ci aveva portato qualche caramella, anzi, quel giorno ci furono anche tre gelati, che a quel tempo erano rari.
Li aveva tolti da un cartoccio che colavano; noi senza troppo aspettare li prendemmo ingordi e golosi.
Mia madre si era recata a messa prima a Caltrano, aveva portato con sé le mie sorelle minori.
Io, già ragazzo, ormai stentavo a seguirla nelle sue peripezie religiose e piano piano mi allontanavo da quella strada che da sempre mi aveva indicato.
Poi l’avevo vista trafficare con i fornelli e le pentole per il pranzo di mezzogiorno:
brodo con le tagliatelle fatte in casa, salsetta di conserva, prezzemolo e cipolla, carne lessata di manzo e di gallina: la liturgia del pasto domenicale.
Lei curava la casa, si occupava di noi figli e degli animali, si alzava ogni giorno di buon’ora, che non battevano ancora le sei e di solito andava a letto presto, appena il sole scompariva dietro il monte Sumàn dopo aver chiuso la stalla, sistemato il bestiame e aver raccomandato a tutti di andare a letto presto.
“Disi anca na preghiera”, insisteva guardandomi sempre più rassegnata alla mia faccia che diceva già tutto senza parlare.
Io avevo sempre meno voglia di andare a letto presto e di pregare, mi stavo facendo grande e lei questo lo avvertiva.
Gli animali erano quelli domestici: galline, anatre e conigli, un musso che serviva nei lavori duri della terra e una capra per quel po’ di latte che necessitava.
In casa, unico segno di una modernità, una televisione, comprata con sacrifici e risparmi: da poco arrivata, spalancava una finestra sul mondo.
Era piazzata in cucina su un carrellino a ripiani di vetro e quando era spenta veniva coperta da un drappo a fiori, ricavato da una vecchia tenda color "cagaréla".
A quei tempi vi erano solo due canali, il primo e il secondo e di solito non si andava oltre le nove di sera a seguire le programmazioni; “Carosello” era una specie di confine al di là del quale nelle famiglie si andava raramente.
La cucina era una piccola stanza di tre metri per tre con un minuscolo vecchio tavolo quadrato, una vetrina di legno scuro con le porte mal ridotte, la stufa a legna bianca smaltata e un fornello a gas alimentato da una bombola; il frigorifero arriverà più tardi, in quel momento una "moscaròla" appesa nel sottoscala preservava i cibi dalle mosche.
Era l’unico locale riscaldato d’inverno e quasi tutte le attività domestiche si svolgevano al suo interno.
Mia madre cucinava, cuciva, stirava, noi ragazzi studiavamo e facevamo i compiti sul tavolo e mio padre a volte si metteva in un angolo a caricare le cartucce per il fucile da caccia o trafficava con funghi da pulire o uccelli da spennare.
Le pareti erano grigie di fumo e di muffa; i pochi colori che ormai rimanevano si perdevano in una specie di ricamo che di anno in anno diventava più scuro.
Ebbene, la sera del 20 luglio del ‘69 una strana inquietudine aleggiava in quella piccola stanza.
Da giorni la vicenda dell’Apollo 11 teneva banco in televisione, nei discorsi della gente, che seguiva la vicenda con un misto di curiosità, di orgoglio e di paura: l’uomo sulla luna, un sogno che aveva attraversato i millenni e la storia.
Alle 20 tutti eravamo davanti alla televisione, mancava solo mia madre che non amava attardarsi e perdere tempo in quel modo.
Mio padre, mezzo addormentato, si era messo in un angolo, guardava la tv che sembrava incantato, non so se lo interessassero le vicende lunari o se il vino lo aveva messo in un’orbita sua che lo portava chissà in quali paradisi.
Mia madre aveva chiuso per tempo la stalla e, più in fretta del solito, si era ritirata in camera per andare a dormire.
Era superstiziosa e secondo lei il violare quella superficie non avrebbe portato bene all’umanità, anche perché quel giorno aveva sentito la cavra fare un brutto "sésto".
“Le bestie le capisse prima, quando che sucéde qualcossa de bruto, no volarìa che quel poro can…”. Aveva lasciato cadere così la frase senza dire altro per esprimere il suo dissenso per quell’impresa che portava l’uomo nel futuro.
Il "porocan", inutile dirlo, era Armstrong.
L’antenna del nostro apparecchio televisivo era posta sulla punta di un albero, un vecchio carpine grosso e alto la cui sommità era stata sacrificata al caso; era lì che il segnale si captava in maniera netta e limpida, perché la nostra casa era in una conca a ridosso del ponte e c’erano difficoltà di ricezione.
Tutto filava dritto se non c’era vento e la sera era quieta, ma appena la brezza si faceva sostenuta si vedevano strane ondulazioni sullo schermo, le immagini cominciavano a dondolare, come fa una gondola che affronta le onde del mare.
Quella sera sembrava ci fosse calma, pochi i fremiti di foglie, la cronaca di Tito Stagno coinvolgente e precisa faceva da guida a quelle immagini di tre uomini che, per la prima volta, si accingevano a mettere piede sul pianeta pallido.
Collins, Aldrin e Armstrong i tre astronauti sembravano incarnare il sogno e la volontà dell’uomo che ancora una volta si era spinto al di là di tutto, anche del suo coraggio.
La Luna dalla finestra della piccola cucina la vedevo grande e tonda, sembrava una polenta appesa al cielo, solo una piccola nuvola ne oscurava una parte.
Il tempo passava in fretta, le immagini arrivavano un po’ confuse, discorsi e commenti si susseguivano rapidi; dalla sede Nasa di Houston Ruggero Orlando entrava preciso e illuminante nei dettagli dell’impresa.
Ad un certo punto le immagini cominciarono ad ondeggiare fastidiosamente per poi scomparire quasi del tutto.
Si era alzata una brezza abbastanza sostenuta che faceva ondeggiare l’antenna.
Mio padre si affacciò alla finestra, la Luna era al di là del vetro, immobile e chiara e l’albero su cui stava l’antenna fremeva vistosamente.
“Ostia, anca el vento ga da éssarghe stasera” esclamò nostro padre scrollandosi di dosso il torpore del sonno e del vino.
"A ghe penso mi" disse lasciando la sedia su cui era seduto.
Sapevamo che in questo caso bisognava correggere l’orientamento dell’antenna, cosa non rara in casa nostra.
Guadagnò in fretta l’uscita e noi lo seguimmo dalla finestra: la sua sagoma scura si confondeva con le ombre mosse dal vento, il chiarore della luna colorava quella scena di poesia e di mistero.
Prese una lunga scala a pioli e ciondolando la poggiò al carpine.
Per uno strano gioco ottico sembrava che la Luna fosse poggiata sulla punta dell’albero, pareva la cometa di Natale, un’immagine surreale di quell’estate lontana.
Salì piano, un piolo dopo l’altro, sù e ancora sù fino alla …Luna, anzi più prosaicamente all’antenna.
Mia sorella più piccola aveva il naso schiacciato sul vetro e guardava quella scena: il sonno forse le faceva vedere quello che non vedeva, del resto Carosello era passato da più di un’ora e mai si era trattenuta tanto alla televisione.
Ma quello era un evento straordinario e imperdibile, anche agli occhi della nostra severa madre.
“Mama, mama, me popà zé nà su la luna co’ a scala” gridò aprendo la porta della camera.
Apparve nostra madre assonnata ed arruffata, il volto teso e pallido: forse stava dormendo ma quella notte era una notte speciale.
Guardò come interdetta dalla finestra la scena che sembrava dell’altro mondo.
“Maria Vergine, cossa falo su là che l’omo, vorlo nare a copàrse?”…
“No ’l sarà mia ancora olando”…
Snocciolò una serie di considerazioni e di brontolamenti poi aprì la finestra.
“Giovàni, Giovàni, nemo zó vuto copàrte?…”Signore varda in zó!”
In quel momento il cane cominciò ad abbaiare forte e a ruota il musso, forse disturbato, ragliò furiosamente ad un’ora che non era mai successo.
In poco tempo la cagnàra che ne seguì divenne una cosa esilarante; pareva che tutti dovessero svegliarsi per quell’evento che lassù si stava vivendo.
Io mi misi a ridere senza ritegno, un riso irrefrenabile che contaminò anche il resto della famiglia, facendo irritare ancora di più nostra madre.
“Vilàni de vilàni!... e ti caporiòn, invesse de jutàrme te si lì che te ridi come un semo...
bravo, ma bravo, te me la pagarè”, minacciò stizzita.
Mio padre, lassù, mosse di qua e di là l’antenna finché l’immagine riapparve chiara nel momento in cui Tito Stagno e Ruggero Orlando, in un dualismo contrastato, annunciavano che l’Apollo 11 aveva toccato finalmente il suolo lunare.
“Se vede, se vede pupà….i zé rivà”, gridai forte.
Erano le 22 e 17 del 20 luglio 1969.
Nostra madre irritata tornò a ritirarsi, poi anche gli animali si calmarono.
La sagoma scura dell’uomo sulla scala lentamente discese scalino dopo scalino, piano che sembrava un astronauta.
Fummo grati a nostro padre che quella notte sfidò il vento, il sonno e il vino per consegnarci quelle immagini.
“Ghetu visto gnente popà là fóra?“ chiese candidamente mia sorella Lorena quando rientrò con la faccia stanca color del disco appeso al cielo.
“No, bela, ma se no ghe jera quela nuvola me sà ca gavarìa visto anca i astronauti nar zó” rispose con un sorriso furbo.
“Ma cossa gavévela quela fémena da sbraitàre dala finestra?" concluse facendo finta di non aver capito quello strepito che aveva svegliato tutti.
Più tardi verso le 23 Armstrong pose il piede sinistro sulla superficie lunare.
“Un piccolo passo per l’uomo, un grande balzo per l’umanità” commentò il comandante americano.
“Bravi ciò e che coràjo” disse mio padre mentre i suoi occhi celesti si inumidivano di lacrime per la commozione.
Io invece pensavo sì a quell’impresa, ma anche a Woodstock, l’evento d'amore e musica che si era svolto pochi giorni prima e che aveva visto mezzo milione di giovani riuniti in un sogno di libertà.
Ma quella era un’altra storia.



Boschiero Maurizio 

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