sabato 18 agosto 2012

Il Natale del ferroviere



     Il casellante mi guardava severo, senza parlare, mai una parola, mai un gesto con la mano, mai un accenno di saluto.
Quel silenzio mi intimoriva era, il colore della mia timidezza che accendeva il viso e mi faceva piantare lo sguardo per terra, tra i sassi e la ruggine dei binari.
Trascinavo la mia cartella a fatica tra l’erba del sentiero che costeggiava la ferrata; di tanto in tanto mi fermavo a raccogliere qualche sasso colorato della massicciata che la maestra Reginetta Piccini mi aiutava poi a catalogare, o verso l’autunno, le ultime more confuse nel groviglio dei rovi ormai spogli.
Intorno a novembre mi incantavo a guardare le pigre lucertole che si godevano gli ultimi giorni di sole distese tra i sassi tiepidi o qualche raro moscone che intontito si alzava in un pesante e stanco volo.
Quando passavo davanti alla stazione quell’uomo in divisa era piantato come un piolo sulla porta della minuscola sala d’aspetto , mani dietro alla schiena, gambe divaricate e sguardo fisso perso tra i campi e gli alberi che allora insistevano ai confini della stazione, al di là della recinzione.
Sembrava un soldato impettito e rigido a guardia di un presidio; scrutava l’orizzonte guardingo e inesorabile.
Sopra, in alto, poco sotto lo sporto del tetto campeggiava la scritta Ferrovia Chiuppano- Caltrano, ormai sbiadita dagli anni e dal sole.
Quel giorno di dicembre del ’64 era l’ultimo giorno di scuola prima delle vacanze di Natale; stesso percorso, stessi pensieri che affollavano la mia testa come una liturgia che mi accompagnava in quel percorso.
Solo il freddo, quel giorno, mi morsicava le mani e il viso tormentando i miei passi:
dal cielo gravido di neve scendevano volteggiando le falive bianche che si adagiavano coprendo i sassi e la ruggine.
Un vento di traverso turbinava le foglie secche tra i binari dritti e scuri della ferrata e si confondevano lontano col niente e la foschia.
Uno pettirosso intirizzito saltellava tra i rovi che bordavano il viottolo ed era l’unica macchia di colore, in quel mondo sospeso tra la neve ed il cielo
Avevo freddo ed avevo fretta di tornare a casa per ritrovare un po’ di tepore della stufa a legna che riscaldava la cucina insieme con lo sguardo premuroso di mia madre che mi aspettava sul cancello.
Così in prossimità della stazione accelerai il passo, anche per scappare dalla sagoma rigida del casellante, piantata al solito posto.
Non vedevo l’ora di varcare il vecchio cancello di ghisa che si apriva cigolando: era il segnale che la mia casa era poco lontana.
Quel giorno, però, quell’uomo in divisa grigia colore dell’orizzonte scuro e minaccioso mi chiamò con un tono che non era severo: “Fermete!… scolta qua!… vien drento!”
Fui colto di sorpresa, non sapevo se far finta di non aver sentito o se dovevo fermarmi davvero.
Mi fermai, impietrito dall’emozione che vinse la voglia di tornare a casa in fretta, con la neve che adesso scendeva decisa tormentandomi il viso e intorno, ormai, la coltre bianca copriva ogni cosa.
Il casellante si fece vicino, posò gli occhi sulla mia sagoma timida e minuscola coperta da un cappottino misero e consumato; credo che un misto di tenerezza e di bonomia lo pervase in quel momento perché aggiunse:
“No ver paura, a go da darte na roba”.
Mi prese per mano e sentii la sua mano grande e calda chiudersi sulla mia, mentre la porta della sala d’aspetto si apriva e un buon tepore che veniva da una stufa di coccio rosso in un angolo mi carezzava il viso intirizzito.
Entrammo in fretta e la porta si richiuse alle nostre spalle con un colpo sordo.
Sulle panche di legno consumato un vecchio aspettava chissà quale treno, o forse era lì per scaldarsi un poco; in alto l’antico orologio col suo ticchettio rompeva quello strano silenzio.
Per terra, sul pavimento lucido di palladiana, i segni del tempo e dei passi di tanta gente che era passata da questa stazione inaugurata nel lontano 1907.
Io viaggiavo con la mente… lontano, lontano; immaginavo valigie, lacrime, giovani con tante speranze e vecchi che tornavano dopo una vita lontana da casa, immaginavo soldati, fidanzate, mani alzate in segno di saluto, immaginavo le merci, le lane dei Rossi di Piovene, i legnami delle segherie del cav Santacatterina, i ferri delle fucine della Valdastico e altro e altro ancora.
Tornai sui miei passi, in quella stanza: mi trovai davanti ad un piccolo presepe che occupava un angolo di un minuscolo vano, un disimpegno che era di fianco alla sala d’aspetto illuminato dalla luce che filtrava da una finestrella.
Il bue, l’asinello, qualche piccolo pastore, la piccola famiglia, erano lì davanti a me
che parevano discesi dal cielo con quella neve.
Rimasi a bocca aperta, in silenzio, non so per quanto tempo, quando mi accorsi che una donna, in un angolo mi guardava.
Era la moglie del ferroviere che era invecchiata con lui tra quelle stanze e quei binari, tra treni, carrozze ed orari.
La conoscevo perché, d’estate, quando mi mettevo con il viso contro la recinzione di cemento nei pomeriggi assolati e pigri a guardare i treni, lei con la mano mi salutava, senza dire niente.
La sentivo una presenza dolce come il profumo dei tigli che in primavera odoravano l’aria.
Era il mio passatempo preferito osservare il via vai dei treni, i passeggeri che arrivavano e partivano e persi in mille strade ed io viaggiavo con la mente dentro quelle carrozze che portavano via la mia timidezza e qualche volta la tristezza di un’infanzia non troppo facile.
Il ferroviere intanto era sparito: non sapevo dove era finito, ma poco dopo riapparve con un pacco tra le mani, avvolto in vecchi giornali ingialliti, tenuti con lo spago.
Era un involucro abbastanza ingombrante, alto e largo poco meno di quanto lo può essere un bambino delle elementari.
Me lo sistemò fissandolo a tracolla sulla mia schiena: non era pesante ma avevo anche la cartella da portare e con quella neve si rischiava di cadere.
Avevo capito poco di quel regalo e non mi capacitavo di essere in quelle stanze che tante volte avrei voluto visitare ma che per la severità del capostazione mi erano state sempre precluse.
“Tra poco i treni no i passarà pi e n’altri dovemo nar via! finìa la storia…sémo deventà veci!” sussurrò allora quell’uomo che ora vedevo come un vecchio; sotto il berretto che s’era tolto aveva i capelli candidi come la neve che fuori cadeva.
Allora capii che quello era quasi un addio, i treni si sarebbero fermati per sempre e quei vecchi avrebbero dovuto abbandonare la stazione; una grande tristezza discese su di me e si confuse col sapore dolce del Natale che di lì a poco sarebbe arrivato.
Ora provavo una grande tenerezza per quei casellanti; avevano accompagnato i miei passi di bambino e mi avevano visto crescere, con loro avevo attraversato i rigidi inverni e le stagioni della mia infanzia.
Sentivo in cuor mio che anche per me si chiudeva un ciclo; stavo diventando grande e abbandonavo quel mondo di favola fatto di treni e di giochi, di maestri e di vacanze, di neve e di sogni.
Tornai sui miei passi immerso nella tormenta di neve che ora vorticava rabbiosa sulla strada e tra i rami.
Passai a fatica tra le case del Costo, sulla pianta di caki di Placido i merli appollaiati sui rami beccavano ingordi gli ultimi frutti arancioni che parevano lampioni accesi in quel mondo dipinto di bianco.
Una piccola lampadina illuminava la bottega di merci di mia nonna; passai oltre a fatica con le scarpe che sgrensavano calpestando la neve fresca.
Qualche macchina procedeva a fatica, con le ruote che mordevano a vuoto l’asfalto.
Poi giù per la strada a fatica, contro il vento, con quel fardello legato alla schiena che pareva un’ala di un vecchio angelo del presepe e, in fondo alla strada, la sagoma infagottata di mia madre che mi aspettava davanti al capitello della Madonna del rosario.
Mi prese per mano e insieme attraversammo il ponte; in breve fummo a casa avvolti dal tepore dolce della stufa che bruciava con strepitii allegri la legna.
Il vetro della finestra era ornato di un ricamo che il gelo aveva disegnato.
Sul tavolo un po’ di minestra fumante che sorbii in fretta e che mi scaldò sciogliendo quel freddo che aveva attraversato il povero paletot.
Raccontai quello che mi era accaduto: mia madre mi ascoltava attenta ma avevo fretta di aprire quel pacco tenuto con lo spago che avevo depositato accanto al piccolo presepe di casa mia.
Rischiai di scottarmi la lingua, non sapevo trattenere la mia curiosità.
Appena finito afferrai l’involucro, lo depositai sulla tavola che mia madre aveva liberato dai piatti e con una forbice tagliai gli spaghi che tenevano i giornali.
Li tolsi piano e tra le mani mi trovai una vecchia mappa dell’Italia in rilievo, con segnate, bene in rosso, tutte le linee ferroviarie.
In un angolo c’era anche la data, 1889 Torino, autore Giuseppe Roggero editori L Roux e C.
Rimasi senza fiato, come rapito, quel pezzo di storia che chissà per quanto tempo era stato appeso alla parete della stazione e quanti Natali aveva visti.
La lasciai sul tavolo per tutto il tempo delle vacanze: viaggiavo per quel binari rossi con la fantasia, su e giù per l’Italia, passando gallerie e monti, regioni e città.
Mia madre intanto mi informò che la nostra stazione cessava la sua attività a breve, il 31 marzo del 1964.
Quello fu il più bel regalo che credo di aver ricevuto in un Natale, attaccai quella mappa alla parete della mia camera e mi accompagnò per gli anni a venire.





                                                                                                          Maurizio Boschiero

Nessun commento:

Posta un commento

Girovagando

  Il passo internazionale “Los Libertadores”, conosciuto anche come Cristo Redentore, è una delle rotte più spettacolari che collegano l...