sabato 18 agosto 2012

La luce del sud



Vincenzo da alcuni giorni tormentava la tela su cui aveva disegnato una casa persa nella campagna assolata della provincia siciliana.
Stendeva i colori con rabbia, quasi con inquietudine, poi li copriva con altri colori, poi con altri ancora, in una tavolozza confusa e sofferta.
Nella stanza, non profumo di terra e di zagare in fiore, solo l’odore intenso della trementina, mischiato con l’odore di chiuso e di minestra che proveniva dall'attigua cucina nella quale armeggiava la moglie Daniela.
Di tanto in tanto, Vincenzo gettava lo sguardo al di là dei vetri della finestra che gli stava davanti, da cui filtrava una luce fiacca che illuminava malamente il locale e scrutava le case della contrada dove lui abitava da ormai quarant'anni.
Vecchie costruzioni “ingrumate” una sull’altra, allineate alla meno peggio lungo il pendio della corte che scivolava veloce sin quasi dentro il greto del torrente Astico che scorreva ad un tiro di sputo dalle ultime case piantate sull’umido della riva.
Il fragore dell’acqua, che proprio all’altezza della contrada superava lo sbarramento usato per deviarne il flusso verso le poste dei mulini, era smorzato dai vetri e con l’abitudine ne era diventato una compagnia, ma all’inizio il fastidio era stato tanto, giorno e notte con quel rumore che entrava come un'ossessione nella testa: un vero tormento che disturbava pensieri e sonni.
Queste case vicine al fiume formavano la “contrà di Bessè” in quel di Chiuppano, nei secoli luogo industre e vitale per via dell’acqua, crocevia di merci e di persone che vivevano attorno ai mulini, all’industria tessile, alla lavorazione del ferro e ad un piccolo mercato in cui si scambiavano le farine e i prodotti della molitura con i prodotti che arrivavano dall’esterno anche dall’altopiano di Asiago.
Una piccola sagra, in occasione del santo patrono del paese San Michele, si teneva il 29 settembre di ogni anno. Se ne ricordavano ancora i vecchi rimasti. ”Bei tempi” sospiravano con un filo di nostalgia nella voce.
Le famiglie principali erano quelle di sempre: ”i De Muri detti Finchi e i Dal Prà detti Sojari”, gente di fiume e di commercio che avevano attraversato i secoli e le brentane con tenacia ed umiltà. Gente nata in grembo all’Astico schiva e forte, generosa e dura. Altre figure, ormai le ultime di quell'epopea dell’acqua che la “brentana” del 1966 aveva cancellato distruggendo il ponte del “Majo” e il mulino della “Singela” popolavano la corte: “Toni il maressiàlo”, Jovàni Guglielmi, “Cente” e la vecchia Italia che aveva consumato i loro giorni tra i sacchi di farina del mulino dei “Sojari” e le ceste di panni da lavare nell’acqua corrente.
Tanti se ne erano andati per età, altri avevano cambiato paese per avvicinarsi al posto di lavoro nelle fabbriche di Piovene, Thiene e vicinanze.
Chi invece aveva scelto la strada dura dell’emigrazione partendo per terre e destinazioni lontane al di là del mare e della paura. Vi erano ora della case vuote con i segni del tempo e dell’antico uso abbandonate da anni, gonfie di umidità e piene di ricordi.
I colori della contrada erano i colori del tempo che se ne era andato, delle persone che non c’erano più, dei pochi vecchi che restavano custodi dei ricordi e del passato, delle malinconie di chi se ne era andato lontano a cercare fortuna.
Una tavolozza malinconica, come la luce che arrivava obliqua dopo aver superato i pendii e le balze della discesa che degradava dal piano del paese giù, giù a sfiorare i tetti delle case. Il rumore sordo dell’acqua sullo sfondo a volte distraeva e disturbava i pensieri, ma poi passava assorbito dall’abitudine.
Non era quella la luce che aveva in mente Vincenzo che ostinatamente tentava di portare nelle sue tele. Quella che cercava era la luce intensa del paese della Sicilia, Piazza Armerina, dove era nato, la stessa che ricordava negli occhi di sua madre Irene, morta di parto a poco più di trent’anni nel mezzo della vita e nel pieno della dolcezza.
Forse per questo Vincenzo si era fatto pittore, perché cercava i colori e la luce che si erano spenti con la sua giovinezza svanita troppo presto nella tristezza dei giorni intorno al 1972.
La sua famiglia aveva lasciato quella terra bella e crudele per cercare una vita meno grama al nord dove in cambio della fatica e della nostalgia vi era la promessa del pane caldo e di un tetto.
Il padre Giuseppe, aveva lavorato come bracciante sui campi e poi nelle cave di pietra a spaccare sassi per pochi soldi, in grado a malapena di sostentare la famiglia. Una vita dura, dura come la terra cotta dal sole di quella campagna, aspra come il sapore acre del sudore.
Così un giorno presero il treno con poche valigie e qualche sogno in tasca: la meta era il nord, non importava dove, contava solo lasciarsi alle spalle quella vita.
Il nord che tante braccia aveva chiamato a sé dentro le fabbriche e i capannoni, a riempire le città e le periferie.
Uomini con la pelle bruna mal sopportati, poco tollerati qualche volta respinti.
Su qualche bar vi era scritto: ”Vietato entrare ai cani e ai meridionali”, oppure: ”Non si affitta ai terroni”.
Frasi come frustate, come coltelli che entravano nella carne viva e la dilaniavano con un dolore intenso che non aveva ragione se non nella radice stupida di un pensare volgare e intollerabile.
Il nord era anche questo, un ingranaggio che girava caricato dalle braccia di quegli uomini del sud, che stritolava le vite, i sogni e l’illusione, subito perduta, che ci sarebbe stata una nuova società da costruire, con più amore e meno ingiustizia.
Quel treno si lasciava dietro una Sicilia dai rigurgiti feudali con gli anacronistici riti della “fuitina” e del matrimonio riparatore, del delitto d’onore e dell’omertà.
Ma anche la Sicilia orgogliosa e coraggiosa di Franca Viola che si oppose con la sua famiglia al tiranno di turno, la Sicilia civile e fiera di Vittorini e di Brancati e quella impegnata e arguta di Sciascia.
Davanti avevano un’Italia che s’era lasciata ormai alle spalle il sogno del benessere per tutti, della televisione che aveva avvicinato come mai prima, il nord al sud, ma che stava distruggendo le culture antiche creando una nuova civiltà che si appiattiva sui valori dei consumi e dell’omologazione più greve.
Un’Italia che rapidamente si avviava dentro il tunnel del terrorismo e delle lotte sociali, degli attentati e dei segreti di stato.
Dal finestrino cambiavano i panorami, le pianure e le terre, ma le periferie delle città erano sempre uguali e grigie con uomini cupi che sembravano muoversi senza ragione.
Io li vidi arrivare in un giorno d’autunno del ’67.
Spingevano un carretto carico di valigie e di miseria; avevano un’aria triste di gente stanca e malinconica.
Non avevano sole nei loro occhi, ma quel velo di tristezza di chi ha lasciato tutto per una terra che poteva dar lavoro, ma senza troppo affetto e con qualche gelo negli sguardi.
Traversarono il paese e la gente guardava questi “forèsti” passare come se fossero di un altro mondo, come se fossero venuti a “rubare” il lavoro.
A quei tempi “forèsto” era chi non era nato in paese e lo rimaneva per sempre, anche se vi risiedeva per anni, figuriamoci questi che venivano da chissà dove, con quel linguaggio incomprensibile e quel “ciauscamento” nel parlare.
Quando seppero che erano Siciliani, subito li associarono alla mafia, l’unica equazione immediata con quella terra, pensarono anche al bandito Giuliano, perché fu un certo capitano Luca che abitava a Santorso ad avere una parte consistente nella risoluzione di quella vicenda criminosa dei primi anni ’50.
Non so se si potesse parlare di razzismo, sicuramente di diffidenza, che in qualcuno sconfinava con l’avversione.
“No sta darghe réta che i se inderega come le moréje” era la versione paesana delle scritte ostili che nelle grandi città bandivano queste persone.
Vi erano però anche testimonianze di accoglienza e di solidarietà che cancellavano tutto il resto, tutta la ritrosia e la diffidenza.
Trovarono alloggio ovviamente in periferia, laggiù in contrà Bessè, ormai mezza vuota, abitata solo dagli ultimi vecchi, da qualche gatto sospettoso e dalle “risàrdole” distese al sole a dormire sui vecchi muri.
Sembravano quasi la versione moderna della “Sacra Famiglia” quella che cercò riparo in una notte di duemila anni fa e lo trovò in una stalla; poveri cristi spinti come allora dalla necessità.
Forse con l’unica differenza che questi arrivarono spingendo un carretto, allora avevano un somaro come mezzo di trasporto.
La casa non era propriamente una stalla, ma l’ex mulino dei “Finchi” piantato proprio sulla riva del torrente ormai fermo da anni, testimone solitario di una lotta perenne con l’acqua.
Sistemarono alla meno peggio qualche stanza, cercarono di cacciare da dentro l’odore di umidità e di chiuso, rattopparono le porte e le finestre con cartoni e pezzi di legno.
Quando pioveva l’acqua filtrava dal tetto e bagnava la poca roba che si erano portati e dovevano ripararsi come potevano sistemando secchi e pentole sui punti di maggior perdita.
Per riscaldarsi usavano la legna che a buon mercato trovavano sul greto, portata giù dalle piene e che si raggrumava in enormi grovigli, in attesa solo di essere recuperata da qualcuno di buona volontà.
In quel posto il rumore dell’acqua era proprio forte; un tormento per chi era abituato ai silenzi della campagna assolata e deserta; una brutta compagnia che non cessava un minuto né di notte né di giorno.
Irene più di tutti pativa quel frastuono che le “rimbombava” in testa e anche per questo rimpiangeva il suo paese e la sua casa lasciata laggiù, vuota, immersa nel silenzio; anche i giorni quassù le sembravano vuoti, andavano via lenti senza che nulla potesse cambiarli.
Solo la nostalgia e i tormenti la facevano da padroni, disperatamente presenti senza un attimo di tregua.
Comunque, un po’ alla volta si inserirono nella comunità e Giuseppe trovò un lavoro come muratore in un’impresa della zona, i figli in età scolare frequentarono la scuola, Irene si ingegnava in casa nei lavori soliti di una famiglia di sei persone.
Piano piano anche la diffidenza lasciò anche chi, per un po’ se ne era nutrito, per lasciare il posto a una convivenza serena e solidale.
Irene purtroppo se ne andò dopo pochi anni, troppo presto e troppo in fretta, in un’estate calda con le fastidiose cicale che frinivano quasi a dar manforte all’Astico.
La famiglia rimasta senza la madre, si strinse intorno al padre che con grandi sacrifici portò avanti i figli. Non era nuovo a faticare ma ci volle la forza di un titano, l’aiuto delle figlie più grandicelle e della gente di cuore per uscire da quegli anni disperati segnati anche dalla “fuitina” di una figlia che probabilmente aveva ancora dentro l’impronta della tradizione della terra natìa.
Il dolore duro, come la salita che portava in paese, fu superato piano con il tempo che levigava la perdita, come l’acqua aveva fatto con i sassi dentro al greto. La solidarietà di quella gente di fiume era la stessa che dimostrava quando l’acqua diventava paura e furia che spazzava via le cose, ma non la forza di reagire e l’aiuto a chi ne aveva bisogno.
Chissà se le tombe dei “Finchi “ e dei “Sojari” nel piccolo cimitero di Chiuppano, poste una accanto all’altra lungo il muro di cinta di fianco alla chiesa e rivolte verso il paese, non sono anche nella morte il simbolo di quell’unità e solidarietà che fu in vita.
A Vincenzo resta quel vuoto che gli ha lasciato la madre che lui cerca di colmare con la sua pittura e quel senso della luce che tenta di indovinare nei guizzi del colore.
Ormai è radicato nel paese e in modo forte in quella contrà che per lui è diventata la terra dove ha messo le nuove e profonde radici.
Forse a ricordargli la sua origine, laggiù nel sud, è solo quel suo nome poco usato da queste parti e quelli delle sue sorelle e di altri parenti arrivati dopo: Rosaria, Concetta, Cateno…Cioè una piccola colonia di gente trapiantata quassù negli ormai lontani anni ’60, in una piccola e laboriosa contrada in lotta eterna col tempo e con l’acqua, ma sempre ospitale con chi veniva da fuori, visto che in una sua casa trovò accoglienza appena dopo la prima guerra mondiale anche la famiglia del grande scrittore Mario Rigoni Stern che era venuta profuga da Asiago, in attesa della ricostruzione dell’Altopiano dopo i disastri del conflitto.

Maurizio Boschiero

Nessun commento:

Posta un commento

Girovagando

  Il passo internazionale “Los Libertadores”, conosciuto anche come Cristo Redentore, è una delle rotte più spettacolari che collegano l...