Mia madre abitava in una casa in costiera al sole, proprio dove comincia il piano alla fine della strada in salita che sale da Caltrano.
Era una casa costruita intorno agli anni dieci del ‘900 e acquistata poi da mio nonno negli anni a ridosso alla Grande Guerra in cui vi aveva installato le sue attività commerciali.
Una piccola merceria con la rivendita di stoffe, di lane, di scampoli e anche tutto quello che poteva servire per la casa in quei tempi: varecchina, sapone, pattina, piccola cartoleria, qualche giocattolo …..
Col tempo vi aggiunse una rappresentanza con rivendita ed assistenza di macchine per cucire Singer, la cui insegna per anni ha campeggiato sulla facciata dell’edificio.
Era una casa costruita intorno agli anni dieci del ‘900 e acquistata poi da mio nonno negli anni a ridosso alla Grande Guerra in cui vi aveva installato le sue attività commerciali.
Una piccola merceria con la rivendita di stoffe, di lane, di scampoli e anche tutto quello che poteva servire per la casa in quei tempi: varecchina, sapone, pattina, piccola cartoleria, qualche giocattolo …..
Col tempo vi aggiunse una rappresentanza con rivendita ed assistenza di macchine per cucire Singer, la cui insegna per anni ha campeggiato sulla facciata dell’edificio.
Verso gli anni ‘50 arrivò anche un distributore di benzina, l’unico della zona ad erogare il carburante alle poche macchine di allora e alle tante moto che percorrevano quelle strade scassate. Poi vennero i figli e le spose, tutti insieme a riempire le stanze di vita e di lavori in una comunanza laboriosa e complice.
La casa dominava dall’alto tutto il pendio che ripido scendeva fino alla strada che imboccava il ponte gettato sull’Astico e che congiungeva le rive dei paesi di Chiuppano e di Caltrano.
Delle vecchie “scalette” come le chiamavano, tagliavano rapide il costone ed offrivano una comoda scorciatoia a chi doveva raggiungere Chiuppano o la sua stazione del treno e da lì partire per le varie destinazioni.
Siepi e vecchi alberi costeggiavano in fila questo cammino nascondendo d’estate parte del panorama, mentre d’inverno, la vista sgombra dal fogliame, lasciava intravedere l’Astico, laggiù tra i sassi e il ponte vecchio.
Oltre il ponte sopra un pianoro, la chiesa parrocchiale di Caltrano con l’alto campanile, il monumento ai caduti al centro della piazza su cui si affacciavano il municipio e le scuole elementari dalle severe linee architettoniche di fine ottocento.
Dall’alto questa vista era una cartolina piena di attività e di vita, di giochi di bambini e di un viavai di gente.
Giannina, mia madre, da bambina si incantava a guardare questo panorama incollata con la fronte al vetro freddo della finestra della sua camera.
Guardava e fantasticava ed il pensiero la portava lontano; cercava di indovinare il suo domani, gli anni che sarebbero venuti, quelli in cui lei probabilmente sarebbe stata sposa e poi madre.
Pensieri di una bambina, forse troppo grandi, anzi sogni ad occhi aperti, così poteva dimenticare che i suoi fratelli Ninin e Rino erano lontani a combattere in terra d’Africa e non sapeva quando e se li avrebbe rivisti, ma soprattutto cercava di dimenticare la sua malattia che l’aveva segnata nel morale e nel fisico in maniera devastante: aveva perso tutti i capelli e i denti si erano ridotti a qualche spezzone in una bocca ormai sguarnita.
Era il regalo per i suoi vent’anni del tetano che intorno al 1940, lasciava poco spazio alla guarigione, perché pochi casi si erano risolti positivamente.
Lei poteva dirsi già fortunata per esserne uscita malconcia ma viva, afferrata in extremis, forse per miracolo, dopo aver ricevuto l’estrema unzione.
Le era rimasta una debolezza infinita e un torpore addosso che la teneva incatenata come in una morsa.
Comunque, in quei giorni, piano piano le forze le ritornavano, assistita amorevolmente da mia nonna e mia zia Teresina moglie di Ninin, tra una medicina, una novena di preghiere e una scodella di brodo.
Lo sguardo di mia madre malata era spesso posato su quella piazza di là dal fiume; d’estate illuminata dal sole che la faceva sembrare quasi un miraggio, ma d’inverno coperta di neve o di brina e inondata d’ombra, perché i raggi del sole in quella stagione non arrivavano.
Troppo sghembi che lasciavano in fretta quella conca senza riuscire ad arrivare per terra.
Seguiva i giochi dei bambini e il movimento dei carri che salivano lenti la strada tortuosa che spariva tra le case.
Mia madre, meditava e quel gioco del sole diventava quasi una metafora della vita: ogni stagione una fase dell’esistenza, la speranza, l’illusione, la vita e la morte.
Così si alternavano le stagioni in un gioco di luci e di ombre che quella bambina seguiva da dietro il vetro.
L’inverno di solito era lungo e rigido, disteso sulla terra gelata e trattenuto tra i rami degli alberi spogli, difficile da cacciare, anche quando il cielo dopo Natale mostrava un chiarore diverso .
Passavano i giorni rigidi di Gennaio che si allungavano lentamente a “onse” e la sera scendeva meno rapida a cancellare i colori; poi coi primi di febbraio arrivava il tempo della sagra per il patrono San Biagio: il tre di Febbraio
Quel giorno il cuore di mia madre batteva forte ed uno stupore sorpreso seguiva i primi raggi che riuscivano di buon’ora ad illuminare la piazza.
Era contenta perché c’era anche la giostra a girare e a rallegrare i bambini più agitati del solito.
Era il segnale che l’inverno era ormai alle spalle e si avvicinava sicura la primavera.
Anche l’aria per quanto fredda, portava con sé un alito dolce che faceva pensare che di lì a poco ci sarebbero state le gemme e i primi fiori nei posti esposti al sole.
Erano i giorni della speranza e della rinascita e con il morale diverso anche la malattia sembrava meno dura.
Le forze in mia madre parevano ritornare più in fretta e pareva che il sangue scorresse leggero nelle vene, come la linfa che tornava a circolare sotto la corteccia degli alberi.
L’inverno lasciato ormai solo sui mucchi di neve che lenta si scioglieva era per certi versi la malattia che lentamente stava andando via lasciando mia madre alla sua giovinezza.
Vennero i giorni sereni della primavera e con lei le forze e la guarigione.
Poi altri giorni, altre stagioni e altri anni, il matrimonio, i figli e la vita normale di una donna normale, ma sempre a me raccontava di quei primi giorni di febbraio con il sole sulla piazza.
L’alba di un giorno nuovo, di una vita con davanti la speranza.
Ora mia madre è diventata vecchia, viaggia intorno ai 90 anni, ma la sua mente è splendidamente illuminata dalla ragione e i ricordi fluiscono sicuri.
Quella casa sulla riva adesso è vuota, la vita se ne è andata via da quelle stanze : sono tutti morti .
L’ultima, nel marzo scorso, mia zia Eleonora 82 anni cognata di mia madre era rimasta la custode solitaria di quell’antica dimora.
Di vivo ora, resta solo il gatto, che aspetta desolato sulla porta forse il ritorno della sua padrona e di lì non si muove se non per prendere il cibo che una volta al giorno mio cugino gli porta.
E resta ancora quella finestra sulla la piazza che mia madre guardava da bambina.
Nel febbraio appena passato, proprio nel giorno di San Biagio, mia madre ha voluto tornare dopo tanti anni dietro a quella finestra a guardare da dietro i vetri infondo alla valle. Credo fossero quasi cinquant’anni che non tornava in quel posto e una certa emozione l’aveva presa nell’affrontare lentamente le scale di legno che la portavano al piano di sopra.
I colori alle pareti erano quelli di sempre; quel bianco calce dato alla meno peggio con pennellate pesanti e grasse, le ragnatele sugli angoli sembravano avere impigliato il tempo e la polvere dentro la tessitura della tela.
Anche i pensieri e i ricordi di mia madre sembravano impigliati nell’intreccio delle emozioni; il silenzio e gli occhi lucidi, raccontavano più delle parole, e dicevano del tempo che se ne era andato e forse del poco che le restava.
Si accomodò su una vecchia sedia con la paglia consumata ed il legno tarlato, che pareva ancora quella di tanti anni prima in cui sedeva sfinita dalla malattia.
Il respiro era affannoso per lo sforzo nella salita delle scale, sembrava ancora il respiro pesante del tempo giovane con la difficoltà della salute.
Vide subito che il panorama dalla finestra era cambiato: i vecchi alberi scomparsi con le siepi e anche le “scalette” erano state spostate dall’antico percorso.
Rivide la piazza con la chiesa, il campanile e il municipio; solo il monumento era stata tolto e ricollocato in un altro posto tra i cipressi del parco.
Ma quello che cercava mia madre era il sole che in quei giorni doveva essere tornato in quel posto dopo l’inverno. E difatti i raggi erano là: toccavano terra e illuminavano lo spazio intorno in un abbraccio caldo e luminoso.
Io che seguivo la scena da un angolo della stanza vidi una lacrima che scendeva tra le rughe del suo viso. Sembrava l’acqua dell’Astico quando d’estate a stento si faceva strada tra i sassi del greto. Dovetti controllarmi per restare zitto, io non centravo niente in quella scena, c’era davanti a me una donna che rivedeva la sua vita, dall’alba al tramonto e forse quella era l’ultima volta che vedeva il sole in quella piazza. Mia madre poggiò la fronte sul vetro freddo e solo allora forse realizzò che era tornata dietro alla finestra dove da giovane aveva sognato una sua vita , la guarigione, dei figli e un domani. Lontana sulla piazza girava una giostra tra i giochi dei bimbi e macinava giri, chi saliva e chi scendeva, parevano i giorni della vita che erano passati in fretta. “Me resta pochi giri!! ormai i xé smontà tuti dala giostra e no me despiase ormai de smontare anca mi” commentò mia madre, assorta, quasi sgomenta.
Maurizio Boschiero
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