mercoledì 15 maggio 2013

A far erba in montagna


Era l’anno 1943, il terzo anno di una guerra lampo che invece divampava in tutta l’Europa e nel  mondo. 

Arrivavano in paese le notizie frammentate dell'ecatombe dei nostri soldati nella disastrosa campagna di Russia.  Piu’ di novantamila alpini sterminati in maniera orribile nella steppa. Molti di essi, ventenni, erano del nostro paese. Il buon parroco don Aldo Bordin, da poco arrivato in parrocchia, dopo la roccambolesca partenza del suo predecessore, cercava di consolare come poteva la povera gente disperata e... piena di fame.  

E chi lavorava la magra terra, se gli uomini buoni e sani erano in guerra? Erano le povere donne, con a carico anziani e bambini...  sempre pieni di fame... ed in più, la primavera scarsa di piogge e l’estate molto calda non promettevano nulla di buono per i raccolti...

Fu anche per questo motivo che "i Miei" decisero di “andar a far erba in montagna".  Mio zio Stefano, ”Parco” per i foresti, "zio piccolo”  per noi, per la sua bassa statura, era scapolo e viveva in casa con noi. Egli possedeva un lotto nella Val dei sassi, metà era sotto i Soji di Campolongo, l’altra metà era sopra, vicino al Forte. Era una delle poche cose che aveva salvato dai processi per il possesso di una palazzina, da cui era stato depredato. Era andato a controllare e sicuro del fatto suo, aveva già costruito il baito.  “Allora zio”, chiesero le mie sorelle... l’erba? Non le lasciò finire: ”Agne dal bon dio! -disse- l'erba... la me  bate al cavaléto” facendo segno con la mano alla cintura. Forse era vero, pensarono le mie sorelle, era piccolo! 

Iniziamo a preparare le cose necessarie e non erano poche... El scalà, infilare su ogni ruota un palo di un  metro da una parte e dall’altra la “cordicéla” legata con la "soga" e poi il "caliero, le sésole, el roncòn, el menaròto, la false attaccata al branco del scalà, con el coaro e la pria". Gli zaini con patate, teghe, formajo, uvi sodi e una polenta fresca.  

I nostri vicini,  sentito  che andavamo a far erba in Campolongo, decisero di venire pure loro. Si sarebbero recati alla Tana dei Mori, zona che si trova in cima alla valle  omonima, sotto el prà de Zorzi  e non essendoci strade transitabili erano obbligati a portare in  sù l’erba trecento metri per un sentiero ripido e scosceso.                                                                                                                                  

Alle tre del mattino sveglia e, prese sulle spalle
scalà, rue e zaini, si parte sù per la Singéla. I vicini si accodano e dopo un po', più in sù, troviamo il loro zio Bepi pronto con el scalà  di sua costruzione sulle spalle...Non sto qui a descrivere la fatica  che può fare un uomo con el scalà sulle spalle, di notte in una strada così impervia con il rischio di perdere l’equilibrio in ogni bocaròlo... o una donna con uno zaino pesante ed una ruota equipaggiata. Ogni dosso, ogni buco nell’oscurità è un dolore! Ogni fermata é come la via Crucis. 

Primo arresto al Salto, poi al Buso, poi un po’ di più, al Capitello, sopra el Sojo alto e finalmente alla Val dell’inferno.  Qui  ci si ferma a fare una frugale colazione, si ricompone el caréto e messi gli zaini ed il materiale sopra, si parte per la strada dei Castelletti fino al prà de Zorzi.  Ai miei tempi vi era una grande prateria.  In tempi antichi era l’arrivo dei greggi che salivano nelle nostre montagne passando per la “strada dei pastori”. 

Nascosti i carìti in una spissina i nostri vicini prendono il sentiero che scende alla Tana dei Mori e noi  quello che ci porta a Campolongo.  Bisogna dire che se il loro non era bello, il nostro, tutto buchi e salti non era migliore, ma arrivati sul luogo, uno spettacolo stupendo si apriva davanti ai nostri occhi: l’Adamello, le Dolomiti, le Alpi, la pianura padana fino a Venezia... Mia sorella cominciò a farmi le raccomandazioni d’uso, perché se era vero che l’erba era tanta, alta e bella, il posto era pericoloso, in pendenza, duecento metri più in basso c’era uno strapiombo di seicento metri!  Mio fratello prese la falce e cominciò a lavorare, mia sorella ed io con la sésola dove lui non arrivava. 

Mio zio faceva i lavoretti attorno al baìto ed il fuoco per brustolare la polenta.  Il pasto fu presto fatto: polenta e formaggio.  Il sole picchiava forte: entrammo tutti sotto il baito e ci riposammo fino alle tre per poi ricominciare a far erba fino a notte. Non ci fu bisogno della ninna nanna, appena mangiato, piombammo in un sonno profondo, ristoratore. Quando ci svegliammo al mattino, il sole era già alto e cominciava a scaldare. C’era un po' di

aquasso, se era un po’ penoso per noi della sésola, era buono per la falce perché si fa meno fatica quando l’erba é bagnata.  Verso le undici mia sorella andò a preparare il pranzo: polenta fresca e na tecia de patate e teghe. 


Dopo il sacrosanto riposino, si incominciò a preparare i fassi de fen. Per farli si mettevano due corde di due metri incrociate, si cominciava con mettere al centro un brassò di erba secca, poi ai lati, e cosi via; messa la quantità voluta si stringeva. Una corda da una parte aveva fisso un pezzo di legno di venti centimetri, sagomato, con due buchi  a egual distanza dal  centro e per stringere si infilava la corda libera nel buco, e si tirava al massimo. La stessa cosa si faceva con l'altra. Quando le quattro carghe furono pronte, le discendemmo con molta fatica al prà de Zorzi  e dopo esser risaliti ed aver preparato altri quattro fassi  de erba, ebbimo il diritto ad una bella scodella de latte con polenta brustolà  e a una fetta de salame e via a letto. Alla mattina alle otto eravamo già pronti per caricare el caréto.    

Messi dei grossi e lunghi rami sotto, si cominciò a mettere l’erba sempre cercando che el caréto restasse in equilibrio.  Due rami ai lati, si mettono le due  cordicele una davanti e l’altra dietro, si infila un palo  e con  un altro detto  strendaòro si attorciglia attorno la cordicéla: finito! El caréto de erba é pronto. Il nostro era talmente carico che sembrava un carro armato. Attaccate le corde per tirare, mio fratello in mezzo, mia sorella a destra ed io a sinistra, si parte; ma quanto é lunga la strada dei Casteliti... non finisce mai...  

Alla val dell’inferno ci fermiamo per fare el stroso de dase. Lo si attacca dietro al caréto, ed ogni volta che la strada si fa ripida ci salto sopra... ciapàndome bote e gratùni dapartuto.  Ed ecco che arrivano i Fundi... Quante fatiche, quante lacrime, quanti sudori, quale doloroso contributo hanno dovuto pagare a quel lungo pianoro la povera gente! Prima avanti con un caréto, poi l’altro e via così fino in cima al Pontaròn.


Per fortuna, noi ci fermiamo ai Baise. 
Arriviamo con el caréto sotto el porton dela teda, ed in poco tempo scarichiamo l’erba. Prima di scendere a casa  prepariamo el scalà e le rue per il giorno dopo...

Perché domani... si ricomincia...

Lino Bonifaci

 

12 commenti:

  1. IL VENTO DELLA VALLE15 maggio 2013 alle ore 08:46

    Caro Lino, ci regali una discrezione magistrale di un lavoro umile e faticoso, quello di "far erba in montagna". Ma è possibile che eravamo così "poareti" da sacrificarci tanto per arricchire le nostre "tede" di erba, niente altro che di erba...? Per dar da mangiare a una mucca e due capre e ricavarne un po' di latte! Eppure, lo si faceva!
    E la chiamavamo vita! E si mangiava di gusto! E c'era anche posto per essere allegri e contenti!
    Il Vento della Valle

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  2. Mi confermi una nozione di geografia importante. I nostri "veci" dicevano che in una giornata chiara da in cima Campolongo si poteva vedere anche Venezia. Che meraviglia: Dolomiti da una parte e Venezia dall'altra! Io non le ho mai viste. Ma ci credo.
    L'AIRONE

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    1. certamente, dopo un temporale e con un buon binocolo si vede il campanile di s. marco, a occhio nudo la laguna veneta.

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  3. Bella narrazione. Penso ai racconti di mia mamma che, anche lei, andava "a far erba" sopra Valpegara. Mi diceva anche che andava cercare patate a Luserna, a piedi. Una vita fisica, difficile...

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  4. Carissimo Lino, più leggo i tuoi racconti più aumenta l'amore che provo per gli abitanti della Valdastico ricordo che anche negli anni della mia infanzia vedevo passare qualche carretto con l'erba quasi sempre accompagnato da donne forti e abbronzate dal sole cocente con i loro fazzoletti in testa e ai piedi a volte scarponi ma quasi sempre scalzarotti, erano instancabili ma sempre con il sorriso, forse la fatica tempra anche l'anima!!!!!Floriana

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  5. Una incensada a chi ha scelto le foto di accompagnamento del simpatico racconto di Lino. La polenta e il "formajo" sembrano veri, li tocchi e te li metti in bocca. Che sapore! E per ultima la foto della mitica casa dei Baise. Il ricordo della famiglia Carraro è sempre vivo nella mente di tutti i paesani... E quando la Valentina scendeva in paese per fare la spesa.... la sua voce alta o sonante echeggiava in tutta la valle.
    Aveva un "buongiorno" per tutti e qualcosa di piacevole da raccontare.

    UN PASSANTE CORTESE

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  6. Bravo Lino, è storia autenticamente vissuta che non va dimenticata.
    Pare impossibile fin dove ci si doveva spingere allora per sfruttare ogni risorsa che offriva il territorio,.. e chissà quanto male fa oggi passare a fatica per quegli stessi luoghi soffocati da vegetazione e cascami d'ogni tipo.
    Lo diceva sempre mio Padre: se tornasse i véci, i farìa le lagrìme..

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  7. Chi fatica in giovinezza, gode i frutti in vecchiezza.

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  8. Da vergognarsi a lamentarsi caro Lino! E' un vizio che abbiamo in tanti purtroppo. Con questo racconto ci fai vedere nitidamente "la differenza"... Speriamo ci rimanga impresso!

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  9. visti gli scenari, non è da escludere che si ritorni anche a far erba!

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  10. E' proprio vero che è grande pena per il povero procurarsi quello che gli manca, mentre per il ricco costa grande fatica custodire quello che gli avanza.
    E' piacevole leggere questi spaccati di esperienze che ci offre il sig. Lino, fanno riflettere. Grazie

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  11. Sono contento,che un pezzo di vita,vera, vissuta da me e da altri abitanti del nostro paese, abbiano suscitato in voi tante reazioni cosi positive. E pensate che questa era la vita dei "bacani".Loro potevano guardare all'inverno con nella caneva formaggio,burro,saladi e vin ...e le altre famiglie piu' povere??? Questa vita non era solo per Sanpiero ma per tutte le valli e gli altopiani.Quando dai Baise vedevamo quelli di Casotto, "grattare" con le mani sotto i "scrosi"
    del monte ci dicevamo: "Guarda quei pori can dove che i laora". Campolongo era un prato in confronto ed in piu' era come in paradiso. Non solo si vedeva tutta Venezia ma anche il mare e le navi da guerra.E tutte le nostre Alpi sempre cariche di neve a quei tempi. E si cantava.Le ragazze in opera a tagliare il frumento nelle vanede sotto i Valeri finito il lavoro si mettevano a cantare" quel mazzolin di fiori"....e con voce possente quelle in faccia dal maso rispondevano con la seconda strofa......

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