sabato 14 dicembre 2024

Girovagando

Civita di Bagnoregio



Civita di Bagnoregio, ormai anche i franosi sassi di tufo del luogo la conoscono come “La città che muore”, pochi invece – compreso io prima di leggerlo su Santa Wiki – sanno che il nomignolo le fu assegnato da Bonaventura Tecchi, scrittore prolifico che ci aveva trascorso la giovinezza.
Spesso vi ho parlato sulla mia pagina di Ghost Town, un fenomeno che mi affascina molto; Civita di Bagnoregio non può propriamente definirsi città fantasma e – a dirla tutta – anche quello che è ormai il suo claim pare piuttosto poco adatto. Civita, infatti, ben lungi dal morire è sempre piena di turisti che fanno il breve tour del centro storico e si avventurano per il ripido e ventoso ponte che lo collega al resto del mondo.
La storia di Civita è antichissima, con radici etrusche e un fiorente periodo medievale. Il problema del posto è però sempre stato il terreno su cui venne edificato: franoso fino all’inverosimile, sua croce e delizia vista l’importanza turistica assurta nel tempo.
L’isolamento di questa minuscola Mont Saint Michel d’Italia – lì ci sono le maree, qui le frane, ma vabbè – è antico.
Il borgo era infatti unito all’esterno da una striscia di terra franata per un sisma nel lontano 1794. Si costruì allora un ponte di pietra che fece il suo sporco lavoro fino alla II Guerra Mondiale.
In quei tempi di nazisti in ritirata, un curioso hobby si era diffuso tra gli ottusi sturmtruppen: farsi saltare dietro i ponti o bombardarli.
Ora, far saltare il ponte che unisce alla civiltà un borgo praticamente disabitato è questione che fa a botte con qualsiasi logica. Sì, se non si avesse a che fare con dei pazzi, ovviamente.
Per costruire il nuovo ponte ci si prende tutto il tempo che ci vuole, mica come Giulio Cesare che ne faceva tirare su uno e poi abbatterlo a scopo dimostrativo nel tempo della pennichella pomeridiana: ci vogliono vent’anni. Quando ci si prepara – e siamo nel 1964 – all’inaugurazione, che succede? Il ponte crolla prima ancora di essere mai percorso.
Quello che dura tuttora è del 1965, non sarà proprio un capolavoro, ma almeno regge. Al di là di un sistema di parcheggi esoso e discutibile e di qualche esercente che forse starebbe meglio in una vera Ghost Town, Civita è un posto davvero magico, specie in una giornata piuttosto scura e tormentata come quella in cui la visitiamo.
La suggestione del bel borgo arrampicato sulla collina tufacea è particolare, tanto da aver attirato molti registi e – giornalmente – torme di turisti. Il ponte è pedonale, ma può essere percorso sia dai trattorini che fanno la spola per portare rifornimenti e turisti impossibilitati a percorrerlo a piedi, sia dai motorini dei pochissimi residenti.
Questo provoca un effetto un po’ straniante: accanto alle belle e ben tenute strutture medievali si stagliano spesso motorini truccati che tracciano un ideale filo diretto tra il Medioevo e un quartiere popolare di periferia.
L’antica Civita era molto più grande, ma una bella parte è franata: palazzi, abitazioni e ben quattro delle cinque porte originali. Rimane Porta Santa Maria, quella che accoglie i visitatori. Di particolarmente notevole, all’interno del borgo, non c’è poi molto: sono la suggestione del posto e la compattezza del borgo medievale a meravigliare il turista.
Come anche una signora che notiamo, attirati dalle facezie e dalle espressioni di meraviglia del ragazzino che la accompagna: la donna è visibilmente terrorizzata dall’idea che il paese possa franarle sotto i piedi da un momento all’altro. A nulla le giova sapere che la scienza dà a Civita ancora qualche secolo di tempo.
Chi ha tempo non perda tempo, recita però l’antico adagio. E allora, senza aspettare che Civita fatalmente scompaia, mi auguro il più tardi possibile, un giretto da quelle parti è straconsigliato. A meno che non siate amanti delle Ghost Town dure e pure, quelle dove trovi i soffitti crollati e la gazzosa ancora nel frigo: se volete quelle atmosfere suggestive e un po’ morbose, a Civita troverete decisamente troppa gente.
E una città che tutto fa, tranne che morire.

testo e foto di
Andrea La Rovere web

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