Ecco, io vorrei sapere se i resilienti sono anche capaci di comprendere chi non ce la fa, e quindi di assisterli, confortarli, aiutarli. Se conoscono, oltre alla resilienza, anche l’accudimento, il soccorso, la cura. Perché solo chi conosce la propria debolezza è in grado di comprendere la debolezza altrui. Solo chi è caduto può sostenere chi sta cadendo. E sa soccorrere con parole che non siano di generico incoraggiamento, ma di autentica partecipazione, quella che i greci chiamavano compassione, nell’accezione, non di compatire, ma di partecipare a quel « patire» comune di cui nessuno può dirsi immune.
Di partecipazione abbiamo bisogno. Di socialità e non di orgoglio individuale ostentato da chi ce l’ha sempre fatta. Mettere in comune le sconfitte mi pare molto più interessante che resistere o vincere a tutti i costi. Confucio una volta disse: Un uomo è grande non perché non ha fallito. O perché si è rialzato. Ma perché da quel fallimento ha imparato che quella che ora vedi come una debolezza, un giorno diventerà la forza di qualcun altro. Perché la vera forza non è sorpassare chi ti sta davanti, ma tendere la mano verso chi ti cammina dietro.
Umberto Galimberti
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