A pensarci, è sorprendente come queste due semplici parole, cariche di assenza, siano anche piene di presenza. Dire “mi manchi” significa riconoscere che l’altro occupa uno spazio unico nella nostra vita, uno spazio che, senza di lui, resta vuoto. È un’espressione di vulnerabilità, perché ammette che non siamo autosufficienti, che abbiamo bisogno dell’altro per sentirci completi.
In quel “mi manchi” c’è un mistero profondo: l’essere umano è fatto per la relazione, per la comunione. Dio stesso, nell’incarnazione, ci ha detto qualcosa di simile: “mi manchi”… e per questo si è fatto vicino, colmando con la sua presenza il vuoto che ci separava da Lui.
Ma c’è di più. “mi manchi” non è solo un sentimento nostalgico; è un grido d’amore, un invito alla reciprocità. È come dire: tu sei così importante che la tua assenza si fa sentire in ogni fibra del mio essere. La tua unicità non può essere sostituita.
Viviamo in un tempo in cui tutto sembra effimero, dove si consuma e si dimentica velocemente. Eppure, in quelle parole c’è un desiderio eterno, una ferita che può essere guarita solo nella pienezza dell’incontro.
Forse dovremmo chiederci: quante volte diciamo “mi manchi”? E, soprattutto, quante volte lo viviamo come un’opportunità per ricostruire relazioni autentiche, per ricordare a chi ci è caro quanto conta davvero nella nostra vita?
In fondo, “mi manchi” ci invita a riscoprire il senso più profondo dell’amore: la capacità di riconoscere nell’altro un dono irripetibile, e di custodirlo, anche quando sembra lontano.
È il linguaggio del cuore che anela a ciò che dura per sempre.
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