giovedì 21 febbraio 2019

Uovo o gallina?



Gianni Spagnolo © 190210
Meglio l’uovo oggi o la gallina domani? 
La domanda era al più oziosa, ma oggi la risposta mi pare propendere decisamente a favore dell’uovo. Tanto al domani chi ci pensa più? Viviamo in una società incline a vivere l’attimo e a non pensare all'avvenire, giacché si vuole tutto e subito. Del futuro, più o meno prossimo che sia, s’è persa la capacità di visione. L'unica tematica a lungo termine che inquieta sono i cambiamenti climatici, ma è talmente di moda che sicuramente ci stuferemo presto.
Ad ogni giorno basta la sua pena! Una massima evangelica che sembra caratterizzare la nostra epoca, mancandovi tuttavia la luce della Provvidenza, che non è più tenuta in gran considerazione. 
Carpe diem!
Pare che ci animi un corto respiro in tutti gli ambiti. Propugniamo l’equivalenza fra desideri e diritti riducendo l'uomo alla pura pulsione e alla sua funzione desiderante. I doveri sono negletti, mentre ogni desiderio è lecito e ogni tipo di repressione è sbagliata a prescindere. Fuggiamo dal senso di responsabilità pensando di non essere mai chiamati a rispondere delle nostre scelte. Anche alla politica, conseguentemente, non par vero di operare solo sul breve o brevissimo periodo dei cicli elettorali, l’unico orizzonte che si può o vuole permettere. (Almeno per quanto riguarda le democrazie compiute, perché in altri ambiti il lungo termine è tenuto invece in grande considerazione e credo che ce ne accorgeremo presto).
Eppure, sacrificarsi per un futuro migliore posponendo la soddisfazione immediata dei bisogni non essenziali, avere un orizzonte di gratificazione che abbracciava anche figli e nipoti, era invece un tratto caratteristico dei nostri genitori. Con un tale orizzonte essi hanno affrontato sforzi e privazioni oggi inconcepibili. Allora l'appagamento immediato di esigenze non indispensabili era ritenuto una dissipazione, un lusso riprovevole. Da qui l’etica del risparmio, il culto del dovere e la sobrietà  come filosofia e prassi di vita. Spesso non bastava un’esistenza per pianificare il godimento dei frutti di quelle privazioni, anche perché vi era di ostacolo una mentalità così conformata: ecco allora che sarebbero stati i figli a beneficiarne, o addirittura i nipoti. Una simbiosi generazionale sul quale camminava la speranza collettiva. In quel contesto anche fare figli non era più un’assicurazione sul futuro come nella precedente società agricola, ma una proiezione di sé. Il fatto che i figli potessero godere del frutto del loro lavoro, lo nobilitava e non lo rendeva vano. In fondo si sapeva per esperienza che nulla è acquisito in via definitiva.
Oggi un simile modo di pensare è considerato anacronistico e antieconomico, quando non antisociale. Sarà perché dall’ultimo dopoguerra non abbiamo più vissuto in precarietà di vita e dunque pensiamo che le condizioni di benessere raggiunte siano imprescindibili e irreversibili. Questa inedita assuefazione all’appagamento e l’incapacità di comprendere i nessi causali, ci sta portando, anche solo per noia, addirittura alla negazione di noi stessi, del nostro essere, sulle ali di un malposto senso di colpa. Assistiamo  perciò al rifiuto della centralità storica della nostra cultura nella definizione e nella dignità della persona umana. Diventiamo facilmente allofili: consideriamo l’Altro sempre su un piano superiore eticamente preferibile: le culture extraeuropee, le religioni non cristiane, l’Islam e la galassia di tendenze di stili di vita e di genere sono eticamente meglio. Ciò che appartiene al nostro canone tradizionale è male, o tuttalpiù superato, come la famiglia. Il sommo ideale politico è quello d'un mondo in cui le identità siano confuse in un’umanità neutra, utopica, dove alla convivenza tra i popoli dovrebbe sostituirsi una mescolanza totale, in cui le specificità culturali siano irrilevanti. 
Si dimentica, come sempre, ciò che la Storia insegna, ovvero che senza un’etica che attrae le altre la convivenza diventa uno scontro insuperabile e foriero di disastri. Se non sbaglio era Gramsci che rilevava che: "La storia insegna ma non ha scolari". Non c'è poi da stupirsi se la realtà, con tutto il suo portato di confusione ed eterogenesi dei fini, ci presenta il conto.
Il problema angosciante è che è proprio la nostra generazione, quella dei cosiddetti baby boomer (nati fra il 1945 e il 1964) ad essere chiamata in causa. Siamo giusto noi ad aver costruito questa società ricevendo il testimone dalla generazione che ci ha preceduto, la quale, appunto perché aveva vissuto disastri inauditi, viveva un’etica più salda di quella che noi elaboriamo e trasmettiamo ai nostri figli. Almeno così pare a me, dal mio piccolo angolo visuale. 
Vero è che la rottura con il passato è stata voluta e cercata con determinazione e dai moti del '68 ha caratterizzato la nostra epoca. Quel testimone lo abbiano lasciato sdegnosamente cadere a terra in un sussulto di orgogliosa incoscienza, buttando via il bambino assieme all’acqua sporca, come sempre accade in tutte le rivoluzioni. Forse è proprio ai nostri giorni che possiamo constatare come l’immaginazione sia arrivata finalmente al potere, contando non più la realtà dei fatti, ma la percezione che se ne ha. 
Cosa ne è derivato infatti di tutti questi sconvolgimenti una volta che i contestatori sono diventati classe dirigente? Che modello di società hanno costruito? Su quali valori condivisi si basa? Che prospettive persegue?
Nello scritto posso usare ipocritamente la terza persona plurale, ma in coscienza è la prima ad essere interpellata. Anche se non sono stato mai attratto da quella temperie rivoluzionaria, sento comunque il peso della responsabilità generazionale.




2 commenti:

  1. Gianni, come non condividere ogni parola...disamina crudele e dolorosa, ma corretta.

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