martedì 5 febbraio 2019

Do you speak Elobioesto?



Gianni Spagnolo © 190131
Quando frequentavo la prima classe delle superiori a Schio, ci fu un compagno di quella città che mi chiese a brucicapelo: Ma ti vegnitu dal Tveto? 
Lì per lì non realizzai subito. Ero appena tornato dalla Svizzera, dov'era emigrata la mia famiglia e dove  frequentavo le scuole in tedesco e quello era il mio primo approccio con il mondo, per me del tutto nuovo, della Pedemontana vicentina. 
Capii poi che il Tretto era il piccolo altopiano a nord-est di Schio, dove pronunciavano la “erre” arrotata e questo, unitamente al fatto che mi esprimevo in Elobioesto, mi faceva automaticamente ascrivere, da parte di quei cittadini, alla categoria dei montanari trogloditi. 
La mia classe era piuttosto variegata, ma non eravamo in molti a venire dalla montagna. I miei compagni provenivano principalmente dalla piana fra Schio e Thiene e alcuni parlavano addirittura in italiano. La lingua nazionale non era certo un problema, ma non avevo l’abitudine a parlarla e nemmeno, a dire il vero, il dialetto veneto che girava in zona.
  • Che ora élo?
  • Andò situ bio stà?
  • Galo piovésto algìri?
No, .. non c’eravamo proprio per niente! 
Così potevo al massimo interloquire con qualche compagno che veniva dai Gisbenti o dai Beber, ma a Schio bisognava esprimersi diversamente, con un dialetto più edulcorato, pulitino e italianizzato, pena lo stigma sociale. Lì ho capito che la mia lingua madre, L’Elobioesto, sarebbe morta con me ed è incominciata la mia conversione linguistica al veneto corrente, o, per meglio dire, all’italiacano.
  • Che ora xe?
  • Dove seto stà?
  • Ga piovudo ieri?
Questa trasformazione, per la verità, era già in atto un po' tutta la montagna vicentina, decretando l’estinzione dell’Elobioesto in maniera ovattata e inavvertita, come probabilmente accadde alla parlata cimbra qualche tempo prima, ma io lo scoprivo solo allora. Chi infatti ha vissuto questa evoluzione dall’interno non se n’è neppure accorto, tanto è stata progressiva e avvolgente; se n’è avveduto invece chi vi ha assistito da fuori, come gli emigranti. Oggi  capita che ascoltiamo con po' di fastidio termini sporadici che ci erano invece del tutto famigliari da bambini. "Elo" era una nostro arcaismo specifico, dato che il "xe" era entrato nell'uso in tempi recenti.Bio” è sparito del tutto; non si può certo tradurre: “dove sei avuto stato”, vero? Coniugare i verbi in "esto" poi, lo evitiamo come la peste, preferendo la desinenza in "ù" o "udo" che li accomuna all’italiano (vegnù, savudo, ecc.) e che fa più fine.  Se ci pensiamo, però, la lingua è l’aspetto che maggiormente ci caratterizza e ci lega la nostro ambiente d’origine: è un marchio di fabbrica, un imprinting indelebile. L’inflessione e la cadenza appresa da bambini ci seguiranno per tutta la vita. Potremo poi imparare qualsiasi altro idioma, ma mai passare per originari. C’è chi vede con fastidio l’inflessione locale quando qualcuno pur si esprime in un corretto italiano; a me invece no, è un piccolo elemento di umanità nell’omologazione imperante. Peraltro pare che l’avversione riguardi solo le cadenze settentrionali, dato che per le altre c’è un’assuefazione mediatica pressoché totale.
Poi dipende dalla sensibilità di ognuno. Io sono affascinato dalle diverse modalità espressive. Riesco a distinguere al volo, per esempio, se “Signore delle Cime” cantato in italiano alla radio, è eseguito dai coristi trentini della SAT oppure dai Crodaioli Di Bepi De Marzi. 
Chissà che lingua parlavano i nostri progenitori un migliaio d’anni fa e come avranno gestito nei secoli l'avvicendamento idiomatico fra parlate barbare e romanze. Verosimilmente s’è trattato di una mutazione continua e progressiva della quale non si sono nemmeno accorti. Basta riflettere sulla nostra situazione attuale: non abbiamo ancora del tutto metabolizzato l’italiano che già lo infarciamo abbondantemente di parole inglesi per sembrare più moderni e acculturati. I nostri figli e nipoti si troveranno presto nella stessa condizione dei cimbri d'un paio di secoli fa o dei parlanti veneto dei giorni nostri: un bilinguismo asimmetrico stratificato in base alla cultura e all’età. Allora sarà l'inglese che farà la parte del leone, ma neanch'esso sarà più quello della Queen Elizabeth. Progrediamo fra evoluzioni e involuzioni della lingua verso approdi inimmaginabili. 
Forse prossimamente non sarà neanche più il caso di parlare di lingue, dato che per comunicare abbiamo già cominciato ad usare i pittogrammi, come nel Neolitico. Contrazioni, faccine, smorfie e sopratutto immagini; d'altra parte siamo immersi nella cultura dell'apparenza e chissà dove ci porterà. In un futuro ormai alle porte non sarà neppure necessario conoscere le lingue, considerata la rapida evoluzione che si sta verificando nel mondo della traduzione computerizzata e dei sintetizzatori vocali. Oggi è di moda studiare le lingue straniere, gli studenti vi si applicano in gran numero e male certamente non fa. I genitori e i nonni, che spesso faticano a gestirne una, ne vanno orgogliosi, pensando di fare un sicuro investimento sul futuro dei pargoli. Mi viene spontaneo il parallelo, un po' cinico per la verità, ai nostri anni settanta quando frotte di giovani studiavano segreteria d'azienda o ragioneria, inconsapevoli che di lì a poco la rivoluzione informatica avrebbe di fatto ridotto al lumicino quelle professioni allora in auge. 


3 commenti:

  1. Biivel oarn saint-z?
    Ba pisto gabést?
    Hat-z gareghet ghéstarn?

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  2. 1) elobioesto
    2) italiacano
    3) cimbro 7C

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