venerdì 21 gennaio 2022

Sòculi, sopèi e altri trapèi

 

[Gianni Spagnolo © 22A19]

Li ho sempre visti lì, sono appesi a grappolo da forse ottant’anni, ossia da quando hanno cessato d’essere oggetti d’uso corrente. Sono un po’ tarlati, più o meno sbozzati: si tratta delle suole in legno degli zoccoli che faceva mio nonno e che sono sopravvissute a tutto, come le naéje, i màneghi, le sessole e altri strafanti. Nessuno ha il coraggio di disfarsi di quei muti testimoni del nostro passato, nonché utile passatempo del nonno che si dilettava nella lavorazione del legno per costruire utensili ed attrezzi. Passione che era di mio padre e anche un po’ mia; perché il legno ha un’anima, come anche la pietra, basta saperla estrarre. Anima che non hanno il cemento e la plastica, perché non sono primordiali, non sono stati forgiati dalla Natura, non fanno parte del ciclo della vita.

C’è ancora il cortelo da pansa, la lama senza manico e qualche sgruba. Il banco da lavoro per fare gli zoccoli e atri piccoli attrezzi è andato invece perduto, me lo ricordo appena. Era un vecchio spezzone di tronco obliquo, tuto sacagnà, con quattro piccole gambe divaricate e un sedile in fondo, dove ci si sedeva a cavalcioni. Davanti al sedile era ricavata una rudimentale morsa, costituita da un grosso grilletto di legno passante in un foro del tronco e imperniato al suo centro, che terminava sotto la trave con un trespolo poggiapiedi. Opposta a questa ganascia mobile, all’altezza della pancia dell’operatore, c’era un riscontro fisso di legno, dove veniva tenuto premuto il pezzo da lavorare facendo leva con i piedi sul trespolo. Una rudimentale morsa dunque, che permetteva di lavorare il pezzo, ruotandolo a piacimento e tenendolo fermo con la semplice pressione dei piedi. Il cortelo da pansa era una lama ricurva ad un solo tagliente, munita di due manici alle estremità che serviva a sbozzare il legno tirandola verso di sé con due mani. Il legno degli zoccoli, così come quello delle sgàlmare e dei sopéi doveva avere particolari caratteristiche: essere robusto ma leggero, non scheggiare o fendersi e resistere all’abrasione. I candidati erano perciò i soliti legni nostrani come il fagàro, l’orno, o l'albarela. L’ideale sarebbero stati i legni dolci tipo il pioppo, il salice o l’olmo, ma queste erano piante diffuse in pianura e rare da noi. 

Sgàlmare e sòculi avevano più o meno la stessa sagoma, solo che i sòculi erano più sciancrati e con il tacco più rastremato. Ogni artigiano ci metteva poi del suo a seconda della maturità dell’arte e del materiale a disposizione. Era importante, ai fini della calzabilità e del comfort, che l’impronta del piede fosse il più possibile naturale, per evitare calli e vissìghe. Le tomaie erano spesso realizzate riciclando quelle delle calzature vecchie, che si consumavano meno che la suola, oppure utilizzando scampoli di cuoio o pelle riciclati da altri usi. Le tomaie venivano inbrocà al legno con particolari chiodi a testa larga, mentre la suola veniva rinforzata all’occorrenza con brocche e lunette metalliche a seconda degli usi cui era destinata la calzatura. Erano soprattutto le sgàlmare a necessitare di rinforzi antiusura, dato che erano utilizzate per il lavoro e si fruàvano con facilità. Dopo la guerra, stante i molti residuati, le suole della sgàlmare, specie dei ragazzi,  venivano rivestite anche di lamiera e perciò usate d’inverno a mo’ di rudimentali pattini con sfide all’ultimo rabaltòn a slissegare sul giasso.


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