domenica 23 gennaio 2022

Scalsaroti e calsarèle

[Gianni Spagnolo © 22A18]

Il termine scalsaròti non identifica soltanto gli abitanti della frazione Scalzeri di Pedemonte, ma anche delle particolari calzature che hanno accompagnato la nostra gente fino ai tempi moderni. Non erano molte le tipologie di calzari in uso stiàni; la più nota è certamente la sgàlmara, ossia  una rigida scarpa con la tomaia di cuoio inchiodata su una suola di legno di varia foggia, rinforzata da chiodature e lunette metalliche per limitarne l’usura. La sgàlmara era però prevalentemente una calzatura da uomo e da lavoro, alternata dai più comodi sopèi per i lavori in casa o nella stalla. Anche le donne usavano i sopèi, ovvero basse pantofole dalla sottile suola di legno e con un minimo accenno di tacco, ma le loro calzature da battaglia erano gli scalsaròti.

Gli scalsaròti erano delle specie di pesanti calze di maglia infeltrita, talora rinforzate e rivestite di stoffa, con il plantare costituito da molti strati di vecchie pezze e stracci cuciti fittamente fra loro, così da creare una suola sufficientemente spessa e compatta per ammortizzare le asperità del terreno. Le fitte cuciture di spago e talvolta l’ultimo strato costituito da feltro o scampoli di cuoio, garantiva agli scalsaròti una certa durata e soprattutto un maggiore comfort che non le rigide, pesanti e costose sgàlmare. 

Fabbricare gli scalzaroti era infatti piuttosto semplice e alla portata di qualsiasi massaia, che poteva così riciclare utilmente vecchi stracci e scampoli di pezze. Era l’attività tipica delle anziane di casa, che li fabbricavano e li riparavano anche per la numerosa prole, dato che le sgàlmare potevano ben aspettare che i giovani cominciassero a lavorare sul serio. La loro foggia, altezza del gambale e materiali costituenti dipendeva da quello che c’era a disposizione. Sicuramente erano più caldi e comodi di ogni altra calzatura del tempo e perciò usati anche nelle attività fuori casa con il tempo asciutto. Calzavano gli scalsaròti anche le donne che portavano giù il fieno o il farleto nei tarlisùni scendendo dai Salti; o quelle che andavano per fassine. Li calzavano le ultime donne con i cotolùni che sopravvivevano ai tempi della mia infanzia. Finché sono arrivati i “noni”, quelle specie di polacchini di feltro marrone o violetto, con la cerniera centrale e la suola di gomma che divennero subito la scarpa d’ordinanza di tutti gli anziani. Ovviamente c’erano gli scalsaròti invernali e quelli estivi, molto più leggeri e simili alle espadrillas. Oggi son tornate di gran moda le “furlane”, che altro non sono che la riproposizione dei vecchi scalsaròti estivi, usati un tempo in Friuli, ma non solo.

Se gli scalsaròti andavano bene di giorno, di notte si indossavano le calsarèle, delle babbucce di lana fatte a ferri e chiuse alla caviglia da un laccio di lana con due graziosi pon-pon alle estremità. Ce n’erano d’ogni foggia, colore e consistenza, per tutti i componenti della famiglia e servivano a tener caldi i piedi nelle rigide notti invernali. Erano anche utili per proteggere i piedi dal calore della “flassa”, la vaschetta rigida di metallo usata per scaldare il letto.

Scalsaròti, sopéi, sòculi, sgàlmare, calsaréle,…. Tutte cose che hanno camminato con la nostra gente per lunghi secoli con grande semplicità e umiltà.


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