sabato 22 gennaio 2022

Accontentarsi?

[Gianni Spagnolo © 22A19]

Viviamo nell’epoca dell’abbondanza, del sovrappiù, del superfluo; una condizione del tutto inedita nella storia dell’umanità. In nessun’altra età l’uomo ha potuto fruire di così tanta abbondanza e opportunità, almeno riferendosi alla nostra più sviluppata parte di mondo, ma probabilmente anche in senso più lato. Credo che ne siamo tutti un po’ consapevoli, anche se non riusciamo a sottrarci alla cupa spirale dell’insoddisfazione. Non ci basta quello che abbiamo, vogliamo ancora di più, vogliamo almeno quello che ha il vicino, il collega, il capo, ecc.  Forse il vero motore della nostra civiltà dei consumi è l’invidia sociale, più che l’avidità. L’insoddisfazione più che la volontà di miglioramento, la spinta all'omologazione, più che una sana consapevolezza. 

Perciò penso che molti sottoscriverebbero l'aforisma di William Shakespire (pur vissuto nel Cinquecento), che constata che: “Si soffre molto per il poco che ci manca e gustiamo poco il molto che abbiamo”.

Perché abbiamo molto, anche se spesso non ce rendiamo conto, presi come siamo dall’ansia di avere sempre di più e di meglio. Eppur viviamo in un tempo effimero e breve, apice di secoli in cui tutte queste possibilità non c’erano, manco per idea.

Giova quindi rileggere quanto scrisse, alla fine del Settecento, un nostro vicino di casa di Castelletto, quel tal Gustin Prünar, che fu poi tra i più illustri figli della nostra terra. L'abbiamo già pubblicata, ma non guasta riprenderla.

Tratto da “Le Memorie Istoriche dei Sette Comuni Vicentini” di Agostino Dal Pozzo, pg. 128. Opera postuma -1820.

"La stessa infelice situazione di questi monti contribuiva non poco a render felici i nostri popoli. Questi non avendo idea del superfluo non desideravano che il puro bisogno; e però di rado eravi fra loro chi fosse malcontento del proprio stato, o che avesse l'ambizione di voler esser più felice di quello gli conveniva. Se avevano acqua e polenta al bisogno, del latte fresco o rappreso, erbe, radici, ed altri cibi siffatti, gareggiavano in felicità collo stesso Giove, come dice Seneca. Erano però esenti da que' vizj e malori, che derivano dall'intemperanza e dall'ozio. Il vitto semplice, e l'esercizio quotidiano e violento, contribuiva non solo ad accrescere il vigore del corpo, a conservar la sanità, e a prolungare la vita; ma ravvivava lo spirito, calmava le passioni, e ritemprava il loro animo di una vera contentezza e piacere. La libertà, il primo e più caro sentimento che la natura abbia scolpito nel cuore umano, è senza dubbio l'unico tesoro di un popolo povero. Gli Sciti, i Germani, anzi tutti i Celti non conoscevano beni migliori di questo; e però anteponevano la libertà alla stessa vita. I nostri progenitori, che discesero da que' popoli, portarono con loro questa sì bella prerogativa, lasciandola in retaggio ai loro posteri. Questi furono abbastanza fortunati per aversela potuto conservare sino al presente. È certo ch'essi ne deggion saper grado non tanto all'asprezza del clima e alla sterilità de' loro monti, incapaci di attrarvi i Giasoni in cerca del velo d’oro, quanto alla bontà e clemenza de’ principi, ai quali successivamente obbedirono. È incredibile con quanta gelosia abbiano custodito in ogni tempo un tesoro così inestimabile. Siccome non conoscono altra autorità sopra di loro, che quella dl proprio Principe a cui sono attaccatissimi, così non soffrirebbero alcun altro che volesse imperiosamente dettare loro comandi, o prendersi degli arbitrii in pregiudizio della loro libertà."

Che dire, fioi! Che della nostra libertà abbiamo fatto strame? Così come delle virtù degli avi? 


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