sabato 6 gennaio 2018

Tradizioni cimbre per la Befana


La Befana, corruzione lessicale di Epifania (dal greco ἐπιφάνεια, epifáneia) attraverso bifanìa e befanìa, è una figura folkloristica legata alle festività natalizie, tipica di alcune regioni italiane e diffusasi poi in tutta la penisola italiana, meno conosciuta nel resto del mondo.
Secondo la tradizione, si tratta di una donna molto anziana che vola su una logora scopa, per fare visita ai bambini nella notte tra il 5 e il 6 gennaio (la notte dell'Epifania) e riempire le calze lasciate da essi, appositamente appese sul camino o vicino a una finestra; Generalmente, i bambini che durante l'anno si sono comportati bene, riceveranno dolci, caramelle, frutta secca o piccoli giocattoli. Al contrario, coloro che si sono comportati male troveranno le calze riempite con del carbone.
L'origine fu probabilmente connessa a un insieme di riti propiziatori pagani, risalenti al X° - VI° secolo a.C., in merito ai cicli stagionali legati all'agricoltura, ovvero relativi al raccolto dell'anno trascorso, ormai pronto per rinascere come anno nuovo, diffuso nell'Italia Centrale e meridionale, quindi successivamente in tutta la penisola, attraverso un antico Mitraismo e altri culti affini, legati all'inverno boreale.
Gli antichi Romani ereditarono tali riti, associandoli quindi al calendario romano e celebrando appunto, l'interregno temporale tra la fine dell'anno solare, fondamentalmente il solstizio invernale e la ricorrenza del Sol Invictus. La dodicesima notte dopo il solstizio invernale, si celebrava la morte e la rinascita della natura attraverso Madre Natura. I Romani credevano che in queste dodici notti (il cui numero avrebbe rappresentato sia i dodici mesi dell'innovativo calendario romano nel suo passaggio da prettamente lunare a lunisolare, ma probabilmente associati anche ad altri numeri e simboli mitologici) delle figure femminili volassero sui campi coltivati, per propiziare la fertilità dei futuri raccolti, da cui il mito della figura "volante". Secondo alcuni, tale figura femminile fu dapprima identificata in Diana, la dea lunare non solo legata alla cacciagione, ma anche alla vegetazione, mentre secondo altri fu associata a una divinità minore chiamata Sàtia (dea della sazietà), oppure Abùndia (dea dell'abbondanza).
Un'altra ipotesi collegherebbe la Befana con una antica festa romana, che si svolgeva sempre in inverno, in onore di Giano e Strenia (da cui deriva anche il termine "strenna") e durante la quale ci si scambiavano regali.
La Befana si richiamerebbe anche ad alcune figure importate della stessa mitologia germanica, come ad esempio Holda e Berchta, sempre come una personificazione al femminile della stessa natura invernale.
Già a partire dal IV° secolo d.C., l'allora Chiesa di Roma cominciò a condannare tutti riti e le credenze pagane, definendole un frutto di influenze sataniche. Queste sovrapposizioni diedero origine a molte personificazioni, che sfociarono, a partire dal Basso Medioevo, nell'attuale figura, il cui aspetto, benché benevolo, fu chiaramente associato a quella di una strega: non a caso, fu rappresentata su una scopa volante, antico simbolo che, da rappresentazione della purificazione delle case (e delle anime), in previsione della rinascita della stagione, fu successivamente ritenuto strumento di stregoneria, anche se, nell'immaginario, la Befana cavalca la scopa al contrario, cioè tenendo le ramaglie davanti a sé.
L'aspetto da vecchia sarebbe anche una raffigurazione simbolica dell'anno vecchio: una volta davvero concluso, lo si può bruciare, così come accadeva in molti paesi europei, dove esisteva la tradizione di bruciare dei fantocci vestiti di abiti logori, all'inizio dell'anno (vedi, ad esempio, la Giubiana e il Panevin o Pignarûl, Casera, Seima o Brusa la vecia, il Falò del vecchione che si svolge a Bologna a capodanno così come lo "sparo del Pupo" a Gallipoli, oppure il rogo della Veggia Pasquetta che ogni anno il 6 gennaio apre il carnevale a Varallo in Piemonte). In molte parti d'Italia, l'uso di bruciare o di segare in pezzi di legno un fantoccio a forma di vecchia (in questo caso pieno di dolciumi), rientrava invece tra i riti di fine Quaresima. In quest'ottica, anche l'uso dei doni assumerebbe, nuovamente, un valore propiziatorio per l'anno nuovo.
Secondo una versione "cristianizzata" di una leggenda risalente intorno al XII° secolo, i Re Magi, diretti a Betlemme per portare i doni a Gesù Bambino, non riuscendo a trovare la strada, chiesero informazioni ad una signora anziana. Malgrado le loro insistenze, affinché li seguisse per far visita al piccolo, la donna non uscì di casa per accompagnarli. In seguito, pentitasi di non essere andata con loro, dopo aver preparato un cesto di dolci, uscì di casa e si mise a cercarli, senza riuscirci. Così si fermò ad ogni casa che trovava lungo il cammino, donando dolciumi ai bambini che incontrava, nella speranza che uno di essi fosse il piccolo Gesù. Da allora girerebbe per il mondo, facendo regali a tutti i bambini, per farsi perdonare.
I bambini usarono poi, mettere delle scarpe e/o delle calze fuori dall'uscio di casa, proprio perché sarebbero servite come ricambio durante il lungo errare della vecchietta, ma, se quest'ultima non ne avesse avuto bisogno, le avrebbe lasciate lì, riempite appunto di dolci.
Qui da noi, nel veronese, ma generalmente nel Veneto secondo un’antica tradizione popolare che si perde nella notte dei tempi e che sovrappone antiche superstizioni pagane con la religiosità, durante la sera dell’Epifania si preparano delle cataste di legna e sterpaglie che si accendono per “brusàr la vecia”, e queste cataste vengono chiamate con il termine “brujèl”. Si tratterebbe di un termine dialettale tipicamente “cimbro” (lessinico) che M. Bondardo farebbe derivare dal medio alto tedesco dal vocabolo “brüeje” col significato di «scottare». Il bruièlo è detto anche briòlo, brugél, brugnèlo, brugnòlo, brujol, burièl, buriólo, a seconda del territorio in cui si compiono questi riti del falò che riflettono antichi cerimoniali popolari di “purificazione” della terra; anticamente si concludevano tra il primo dell’anno e l’Epifania con la cosiddetta “liturgia del fuoco”, “el brujèl” appunto.
Dal modo in cui bruciava la “vècia” i nostri montanari traevano gli auspici per l’annata agraria; dalla direzione che prendeva il fumo: “Fumo de brugnèlo, tempo bruto o tempo belo?” si chiedevano. Oppure dicevano: “Quando el fumo va al sol levà, tote su la manza e va al marcà”; o anche “Quando el fumo va a sera, bon anno se spera”. I Veronesi della Bassa, ma anche i vicini Vicentini, l’occasione del falò dell’Epifania la chiamavano con un altro nome: Pan e vin. Perché? Probabilmente, nel passato, questa era la festa contadina più autentica che introduceva l’anno agricolo; intorno al falò, che aveva il compito importante di illuminare la strada ai Re Magi, si ballava e si cantava una canzone che cominciava con questi versi: «Che Dio ne daga la sanità e panevin. / El panevin / la vecia nel camin / la magna i pomi coti / e la ne lassa i rosegoti…».
“El panevin” era un dolce, simile ad un pane scuro, la “pinsa”, simile ad una focaccia, fatta con sette diversi tipi di farina. Il significato del cerimoniale era mistico religioso ed aveva la finalità di propiziarsi un futuro favorevole e di consumare in compagnia una serata nella dimensione dello stare insieme, in un mondo fatto spesso di miseria e privazioni; esprimeva cioè lo scambio, la relazione col prossimo, l’atmosfera del sociale. Più anticamente “el brujel” era coronato da un manichino in cui si identificava una strega, per cui è rimasto il detto di “brusar la strìa”, diventato poi “brusàr la vècia”, perché di norma la “strìa” era concepita popolarmente come una vecchia storpia, deforme e sgraziata. Il manichino veniva legato al palo del “brujèl” e poi ucciso simbolicamente; tutt’intorno, intanto, si svolgeva un girotondo di spettatori che portavano campanacci, tamburi, “cioche” da bestiame e altri strumenti rumorosi.

In talune località del veronese, durante il cerimoniale del falò si mangiavano le “ciopéte”, cioè grani di frumento arrostiti, oppure frittelle, fave e “sossole” , dolci caserecci tipici del carnevale. All’esterno della cerimonia si vedevano ragazze travestite da vecchie streghe che correvano tutt’intorno trascinando le catene del camino, così tanto per far rumore, ma anche per sbarrare il passo alla “strìa”. In altre località del Veronese come, per esempio, a Gorgusello, in Valpolicella, si facevano gli incanti. Gruppi di ragazzi e di giovani giravano per le case a raccogliere cibi, vino, castagne e poi a sera la raccolta era posta all’asta e il ricavato donato alla parrocchia per celebrare uffici per i morti. Gli incanti sono ancora oggi una tradizione viva in quasi tutta la Valpolicella.
Nei rituali popolari che mantengono l’usanza a metà Quaresima del “brusàr la vècia”, si preparava un fantoccio pieno di fieno e di cartocci, ma anche di cose buone da mangiare; esso veniva poi portato processionalmente verso un “bruJèlo” e sistematovi sopra per essere bruciato. Prima, però, veniva sottoposto a un processo popolare e condannato al rogo non prima di essere segato a metà (da cui è rimasto il detto: segàr la vecia) e di aver distribuito il contenuto ai circostanti.
Sui nostri monti in passato vi era la tradizione che il giorno dell’Epifania (il 6 gennaio) il rogo della “vecia” fosse accompagnato da schiamazzi e giochi, alimentati da vino e castagne a volontà, ma per i bambini delle “basse” era il giorno della “befana’’, quello più atteso. La tradizione raccontava che una vecchia, durante la notte, passava nelle case per riempire di doni le calze che i piccoli avevano già preparato fiduciosi vicino al fuoco. Ma da noi, in Lessinia, la gente era più “pitòca” (povera) e la “befana” portava solo delle semplici “corbèle” (sorbo rosso), “carche nespola” e “caròbole o carrube” (carrube), e straordinariamente qualche arancia; povere e semplici cose che rendevano ugualmente felici quei bambini del passato che avevano la fortuna di avere un padre un po’ più abbiente e più sensibile. Per le nespole ricorreva un indovinello: «Vao su par on vajéto, cato on vecéto, ghe pelo la barba e che ciucio el culeto».

A. Sternberg - magica Lessinia


Filastrocca della Befana

La befana vien di notte
con le scarpe tutte rotte…
Vien dal cielo con la scopa
e sui tetti pian si posa,
e poi scende lesta lesta
dai camini con la cesta.

La befana é una vecchietta
un po’ brutta poveretta,
ma ai bambini poco importa
se la cesta é colma colma
tutta piena di regali, dolci, treni,
bamboline per riempire le calzine.

La befana con la cesta
cerca, cerca la calzetta
e soltanto ai bimbi buoni
lei ci mette tanti doni
ma a chi é stato un po’ birbone,
lei la colma con carbone.

La befana é già sul tetto
presto bimbi tutti a letto!
Lasciam sola la vecchietta
a riempire la calzetta,
che doman di buon mattino
scopriremo il regalino!


~ Nonno Francesco ~

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