Ad Auschwitz
superai la selezione per tre volte.
Quando ci
chiamavano sapevamo che era per decidere se eravamo ancora utili e
potevamo andare avanti, o se eravamo vecchi pezzi irrecuperabili. Da
buttare. Era un momento terribile. Bastava un cenno ed eri salvo, un
altro ti condannava. Dovevamo metterci in fila, nude, passare davanti
a due SS e a un medico nazista. Ci aprivano la bocca, ci esaminavano
in ogni angolo del corpo per vedere se potevamo ancora lavorare. Chi
era troppo stanca o troppo magra, o ferita, veniva eliminata.
Bastavano pochi secondi agli aguzzini per capire se era meglio farci
morire o farci vivere. Io vedevo le altre, orrendi scheletri
impauriti, e sapevo di essere come loro. Gli ufficiali e i medici
erano sempre eleganti, impeccabili e tirati a lucido, in pace con la
loro coscienza. Era sufficiente un cenno del capo degli aguzzini, che
voleva dire “avanti”, ed eri salva. Io pensavo solo a questo
quando ero lì, a quel cenno. Ero felice quando arrivava, perché
avevo tredici anni, poi quattordici. Volevo vivere. Ricordo la prima
selezione. Dopo avermi analizzata il medico notò una cicatrice.
«Forse mi manderà a morte per questa…» pensai e mi venne il
panico. Lui mi chiese di dove fossi e io con un filo di voce ma,
cercando di restare calma, risposi che ero italiana. Trattenevo il
respiro. Dopo aver riso, insieme agli altri, del medico italiano che
mi aveva fatto quella orrenda cicatrice, il dottore nazista mi fece
cenno di andare avanti. Significava che avevo passato la selezione!
Ero viva, viva, viva! Ero così felice di poter tornare nel campo che
tutto mi sembrava più facile. Poi vidi Janine. Era una ragazza
francese, erano mesi che lavoravamo una accanto all’altra nella
fabbrica di munizioni. Janine era addetta alla macchina che tagliava
l’acciaio. Qualche giorno prima quella maledetta macchina le aveva
tranciato le prime falangi di due dita. Lei andò davanti agli
aguzzini, nuda, cercando di nascondere la sua mutilazione. Ma quelli
le videro subito le dita ferite e presero il suo numero tatuato sul
corpo nudo. Voleva dire che la mandavano a morire. Janine non sarebbe
tornata nel campo. Janine non era un’estranea per me, la vedevo
tutti i giorni, avevamo scambiato qualche frase, ci sorridevamo per
salutarci. Eppure non le dissi niente. Non mi voltai quando la
portarono via. Non le dissi addio. Avevo paura di uscire
dall’invisibilità nella quale mi nascondevo, feci finta di niente
e ricominciai a mettere una gamba dietro l’altra e camminare, pur
di vivere. Racconto sempre la storia di Janine. È un rimorso che mi
porto dentro. Il rimorso di non aver avuto il coraggio di dirle
addio. Di farle sentire, in quel momento che Janine stava andando a
morire, che la sua vita era importante per me. Che noi non eravamo
come gli aguzzini ma ci sentivamo, ancora e nonostante tutto, capaci
di amare. Invece non lo feci. Il rimorso non mi diede pace per tanto,
tanto tempo. Sapevo che nel momento in cui non avevo avuto il
coraggio di dire addio a Janine, avevano vinto loro, i nostri
aguzzini, perché ci avevano privati della nostra umanità e della
pietà verso un altro essere umano. Era questa la loro vittoria, era
questo il loro obiettivo: annientare la nostra umanità.”
Se Dio esiste, dovrà chiederci perdono (scritto su un muro di Auschwitz)
C’è un paio di scarpette rosse
numero ventiquattro
quasi nuove:
sulla suola interna si vede
ancora la marca di fabbrica
Schulze Monaco
c’è un paio di scarpette rosse
in cima a un mucchio
di scarpette infantili
a Buchenwald
più in là c’è un mucchio di riccioli biondi
di ciocche nere e castane
a Buchenwald
servivano a far coperte per i soldati
non si sprecava nulla e i bimbi li spogliavano e li radevano
prima di spingerli nelle camere a gas
c’è un paio di scarpette rosse
di scarpette rosse per la domenica
a Buchenwald
erano di un bimbo di tre anni
forse di tre anni e mezzo
chissà di che colore erano gli occhi
bruciati nei forni
ma il suo pianto
lo possiamo immaginare
si sa come piangono i bambini
anche i suoi piedini
li possiamo immaginare
scarpa numero ventiquattro
per l’eternità
perchè i piedini dei bambini morti
non crescono
c’è un paio di scarpette rosse
a Buchenwald
quasi nuove
perchè i piedini dei bambini morti
non consumano le suole.
di Joyce Lussu
Nessun commento:
Posta un commento