L'Alta Val d'Astico fra passato, presente e futuro ..
venerdì 26 gennaio 2018
Per non dimenticare... Nikolajewka: la vittoria della disperazione
L'ultima battaglia della nostra ritirata di Russia, la battaglia della
disperazione e della salvezza per sfondare lo sbarramento sovietico a
Nikolajewka, iniziò all'una di notte del 26 gennaio 1943.
Il Corpo d'Armata Alpino, accerchiato da reparti corazzati, aveva
cominciato a ripiegare dalla linea del Don il giorno 17: in quel
momento, il generale Gabriele Nasci, comandante del Corpo d'Armata,
poteva contare su 57.000 uomini, nelle divisioni "Cuneense", "Julia",
"Tridentina" e "Vicenza". Dopo nove giorni di combattimenti e di marce
in condizioni ambientali tremende, nella neve ora gelata ora sabbiosa in
cui si affondava sino al ginocchio, e con un freddo fra i 30° e i 40°
sottozero, le nostre truppe si trovarono decimate. Migliaia di alpini
erano morti e migliaia erano stati catturati dai russi.
Il 25 gennaio, vigilia della battaglia di Nikolajewka, secondo una
relazione del comando del Corpo d'Armata, la situazione era la seguente:
"La divisione "Cuneense", durante la sosta notturna a Derkupsakaja, è
circondata da ingenti forze corazzate russe e di essa non si hanno più
precise notizie: certo è che il giorno 25 gennaio scompaiono dalla lotta
anche i reparti della divisione "Cuneense" e "Vicenza". La "Julia" più
non esiste dal giorno 22. Rimane organica la sola "Tridentina",
anch'essa duramente provata e paurosamente ridotta in fatto di uomini
efficienti, di armi e di munizioni: ad ssa si accodano migliaia e
migliaia di sbandati, non tutti armati, in parte congelati, stremati,
che si trascinano più che camminare".
In queste condizioni, la "Tridentina" arrivò verso le 15 del 25 gennaio
nel grosso villaggio di Nikitowka, ai margini della vasta piana nevosa
che porta a Nikolajewka. Alle spalle della divisione veniva l'immensa
colonna dei quarantamila sbandati. Erano italiani, ungheresi, tedeschi
che avevano perso il contatto con i propri comandi e fuggivano il
combattimento, in attesa che i pochi reparti uniti aprissero loro la
strada verso ovest.
A Nikitowka, i battaglioni della "Tridentina" ebbero una breve sosta, la
prima dall'inizio della ritirata. Il colonnello Giuseppe Adami,
comandante il 5° Reggimento Alpini, così ricorda quel giorno: "Concorre a
ridare fiducia agli uomini il sole, l'assenza del vento, la temperatura
alquanto mitigatasi, la frequente presenza ai lati della pista di isbe,
la possibilità di trovare in esse in abbondanza pane, miele, uova,
pollame, patate e rape. Gli alpini, dopo tanto digiuno, possono
finalmente sfamarsi. Lo spirito si risolleva e le speranze si
rinvigoriscono".
La mia compagnia, la 46^ del Battaglione "Tirano" (5° Alpini). Si
disperse fra le isbe in cerca di un posto caldo per dormire, dopo notti e
notti trascorse all'addiaccio. Eravamo partiti il 17 gennaio in
trecentoquaranta e a Nikitowka ci ritrovammo in un'ottantina, di cui una
decina feriti o congelati gravi.
Tutti eravamo più o meno congelati. Il nostro equipaggiamento, già
disastroso all'inizio della ritirata, era ridotto a brandelli. Durante
gli otto giorni di marcia, quasi tutti avevano gettato gli scarponi di
tipo "standard", uguali per la Russia come per l'Africa, perché i piedi
congelati gonfiavano, e li avevano sostituiti con strisce o involti di
coperte. C'era anche gente scalza o con i piedi fasciati di paglia.
Sotto i cappotti con l'interno di pelliccia indossavamo divise di falsa
lana, dura come spilli. Gli unici indumenti caldi erano le calze e le
maglie che c'eravamo portati da casa nostra la momento della partenza
dall'Italia.
L'armamento, già insufficiente e superato, era stato in parte
abbandonato sin dal primo giorno di ritirata per alleggerire le colonne.
Avevamo conservato soltanto le armi individuali (il fucile modello
1891), qualche mitragliatore, poche mitragliatrici arrugginite, bombe a
mano e scarse munizioni. Non esistevano slitte di dotazione, come invece
avevano i tedeschi. Le nostre erano quelle portate via ai contadini
russi, rozze e pesanti. Per fortuna, i muli c'erano, e furono la nostra
salvezza.
Nella notte fra il 25 e il 26 gennaio, la temperatura riprese a scendere
e ritornò quella degli altri giorni, sui 30° sottozero. Io dormivo in
un'isba alla periferia di Nikitowka, verso Arnautowo. Eravamo una
trentina, accatastati uno sull'altro. Con me stavano il comandante della
compagnia, tenente Giuseppe Grandi, di 29 anni, di Limone Piemonte, e i
sottotenenti Antonio De Minerbi, di Roma, Mario Torelli, genovese, e
Raffaele De Filippis, di Campobasso. Verso l'una sentimmo gli scoppi
vicini, come di bombe a mano. Qualcuno disse che c'era l'allarme, am
eravamo disfatti e nessuno ebbe la forza di alzarsi. In quel momento era
iniziata la battaglia per Nikolajewka.
Ad Arnautowo, un gruppo di case situato su una piccola altura ad un
chilometro circa da Nikitowka in direzione di Nikolajewka, forze russe
avevano attaccato all'improvviso il Battaglione "Val Chiese" del 6°
Alpini e la 33^ Batteria del Gruppo "Bergamo". Contemporaneamente, altri
reparti sovietici, affiancati da bande partigiane, avevano assalito a
colpi di mortaio e di cannone anticarro il lato sud-ovest del nostro
villaggio.
Noi non sapevamo nulla. Alle 4 del mattino il mio battaglione
s'incolonnò pensando che finalmente iniziasse una marcia di
trasferimento, una giornata relativamente tranquilla, senza essere di
nuovo costretti a combattere per aprire la strada alla sterminata massa
dei 40 mila sbandati che ci seguiva dall'inizio della ritirata. Il
"Tirano", come battaglione di punta, si avvicinò ad Arnautowo su una
pista in leggera salita. Per la prima volta il reparto marciava
ordinato. Come sempre, gli sbandati si erano fermati a Nikitowka ed
esitavano a seguirci, forse perché avevano compreso che i russi ci
stavano aspettando al varco.
All'improvviso, piovvero sulla nostra colonna alcuni colpi di anticarro.
Venivano da Nikitowka, alle nostre spalle. Vidi slitte e muli saltare
in aria, e alpini morti e feriti. Ci fu un attimo di smarrimento, poi ci
riordinammo e le compagnie del "Tirano" mossero in formazione d'attacco
verso le isbe di Arnautowo.
Il primo di noi a trovare gli alpini del "Val Chiese" e gli artiglieri
del "Bergamo" morti nei combattimenti della notte fu il sottotenente
Torelli che cadde sotto il tiro dei russi con tutti i suoi uomini. Dopo
di lui, partì il battaglione: la 49^ Compagnia a sinistra, la 46^ al
centro e la Compagnia Comando con la 48^ a destra.
Lo scontro durò violentissimo sino alla tarda mattinata. Gli ufficiali
andarono all'assalto alla testa dei loro alpini, con le armi che per il
gelo si inceppavano. Il capitano Franco Briolini, di 35 anni,
bergamasco, comandante la 49^, morì. Il mio comandante, tenente Grandi, e
il tenente Giovanni Alessandria, di 26 anni, di Diano d'Alba,
comandante la Compagnia Comando, vennero feriti gravemente. Caddero fra
gli altri, i sottotenenti Giuliano Slataper. 21 anni, triestino;
Giuseppe Perego, 23 anni, di Sondrio; Lorenzo Nicola, 26 anni di
Piossasco (Torino) e Giovanni Soncelli, 28 anni, di Sondrio.
Alla fine i russi ripiegarono verso Nikolajewka. Noi restammo a
raccogliere i feriti presso le isbe di Arnautowo. Grandi, colpito
all'addome, era steso sulla neve, nel freddo. Cantava, cantava con un
filo di voce e voleva che i suoi uomini cantassero con lui la canzone
del capitano ferito. All'intorno giacevano decine e decine di alpini
morti. Fra essi il sergente maggiore Stefano Robustelli, di 27 anni, di
Grosio (Sondrio); il caporalmaggiore Cesare Marchetti, 25 anni, e il
caporale Attilio Colturi, 24 anni, entrambi valtellinesi, e Giovanni
Tiraboschi e Giuseppe Traina, ventenni.
La strada per Nikolajewka era aperta. Nella tarda mattinata arrivò il
generale Luigi Reverberi, il valoroso comandante della "Tridentina",
accompagnato dal colonnello Adami. Reverberi aveva 51 anni, era vestito
come noi, con uno strano berretto di pelo alla russa. Stremato ma ancora
combattivo ed energico, ordinò alla divisione di proseguire.
Mentre il "Tirano" contava i propri morti e tentava disperatamente di
risolvere l'angoscioso problema del trasporto dei feriti, quarantamila
uomini sfilarono davanti a noi, correndo con slitte e muli, senza
degnarci di uno sguardo. In testa, come sempre, marciavano i pochi
reparti organici della "Tridentina" . Al tramonto, i resti della mia
compagnia - quattro slitte stracariche di feriti gravi, seguite a piedi
da poche decine di feriti leggeri, di congelati, di disperati - si
affacciarono per ultimi sulla piana di Nikolajewka.
La città era già avvolta nel primo buio. Per arrivarvi, bisognava
scendere un breve declivio e poi superare il trincerone della strada
ferrata, sul lato est. Dietro stava la linea avanzata russa con le armi
anticarro, mortai, mitragliatrici. In complesso, le forze sovietiche
ammontavano a circa una divisione. L'attacco a questo caposaldo era già
iniziato sin dal mezzogiorno, quando noi ci trovavamo ancora ad
Arnautowo. Il Battaglione "Vestone" del maggiore Bracchi e il
Battaglione "Val Chiese" del tenente colonnello Chierici, affiancati da
una batteria del Gruppo "Bergamo", avevano tentato di superare la
ferrovia, ma erano stati bloccati dal fuoco nemico. Reverberi chiedeva
l'intervento dell'"Edolo". Soltanto quest'ultimo, al comando del
maggiore Belotti, poteva portarsi all'attacco perché noi del "Tirano" ci
eravamo attardati nella marcia.
I resti di un gruppo corazzato tedesco aggregato alla "Tridentina" e
comandato dal maggiore Fischer, appoggiavano l'azione con due cannoni
controcarro semoventi e due carri armati leggeri. Arrivarono due aerei
sovietici. Ronzarono a lungo, volando così bassi che si vedevano le
stelle rosse sotto le ali. Dai motori usciva un po' di fumo. Molti
credettero che gli aerei fossero stati colpiti; invece erano le vampe
delle mitragliere di bordo che sparavano sulla massa nera che oscillava
nella piana.
Mentre si combatteva sotto il tiro degli anticarro e delle mitragliere
russe cercando di superare il terrapieno, il generale Nasci ordinò di
gettare in avanti tutto il peso della sterminata colonna degli sbandati.
Migliaia di uomini, in uno spaventoso groviglio di slitte e muli,
rotolarono urlando verso il trincerone della ferrovia. Alla testa erano i
generali Reverberi e Giulio Martinat, capo di Stato Maggiore del Corpo
d'Armata Alpino. Con loro erano i capitani Giovan Battista Stucchi e
Giuseppe Novello e altri ufficiali della "Tridentina".
Martinat cadde tra i primi mentre portava gli uomini all'assalto. Aveva
52 anni. Un artigliere alpino del gruppo "Bergamo", Sandro Goglio, che
oggi abita a Cuneo, ricorda che mentre correva verso Nikolajewka vide il
generale Martinat steso sulla neve, con il braccio destro puntato in
avanti verso la città. Morì anche il tenente Giovanni Piatti, di 33
anni, di Como, della 48^, l'unico comandante di compagnia del "Tirano"
uscito incolume da Arnautowo. Caddero centinaia e centinaia di alpini.
Soltanto il 5° ebbe 576 fra morti e dispersi, e 414 feriti o congelati.
Verso le 18, l'enorme colonna, superato convulsamente il trincerone
della ferrovia, travolse la linea di resistenza sovietica e si gettò
verso le isbe ancora difese da centri di fuoco nemici. Non si sapeva
dove alloggiare le centinaia di feriti, perché tutte le case erano
invase dagli sbandati oppure occupate dai soldati russi. Anche per i
sovietici, sopraffatti dalla massa enorme di italiani piombata sulla
città, esisteva il problema della sopravvivenza. Anche loro erano
provati dai combattimenti, con molti feriti, paralizzati come noi dalla
temperatura a 30° sottozero.
In questo ambiente, in certi settori della città si stabilì quasi una
tregua forzata.
LO SCRITTORE MARIO RIGONI STERN, ALLORA SERGENTE MAGGIORE DELLA 55° DEL
"VESTONE", ENTRO' IN UN'ISBA OCCUPATA DAI SOLDATI RUSSI. AVEVA FAME. UNA
DONNA GLI PORSE UN PIATTO DI LATTE E MIGLIO. RIGONI STERN MANGIO' SOTTO
LO SGUARDO DEI SOVIETICI, POI RINGRAZIO' ED USCI'.
Alle due di notte del 27 gennaio, con un grido che rimbalzò da un'isba
all'altra, arrivò l'ordine di lasciare Nikolajewka. Riprendeva la
ritirata verso ovest, verso la salvezza. A noi ufficiali toccò il
compito più straziante: scegliere tra i feriti quelli da portare con
noi, i meno gravi, per i quali v'era qualche speranza di salvezza. Gli
altri, colpiti all'addome o al torace, dovevano essere abbandonati.
Nel buio la disperazione aumentò. I nostri compagni urlavano, non
volevano essere abbandonati. Qualcuno, strisciando nella neve, arrivava
fino alle slitte e si aggrappava, implorando, piangendo. Così fece uno
dei migliori della 46^, l'alpino Rinaldo Tironi, di 30 anni,
valtellinese. "Tenente, tenente" mi gridò. "Sono Tironi, non mi
riconosce? Non mi abbandoni!". Lo lasciammo nel freddo. Era una legge
bestiale alla quale non potevamo sottrarci.
Il nostro comandante di compagnia, tenente Grandi, morì poco prima
dell'alba, appena fuori l'abitato di Nikolajewka, dopo un'agonia senza
lamenti. Il suo cadavere rimase sulla slitta sino al mattino del 28,
quando lo seppellimmo sotto un palmo di neve.
Lo sbarramento principale era stato superato. Camminammo ancora per
cinque giorni e cinque notti, nel freddo polare e nella tormenta,
incontrando diversi centri di resistenza nemici, sotto i continui
attacchi della caccia sovietica. I piloti russi volavano indisturbati:
mai, dall'inizio della ritirata, era comparso anche un solo aereo
italiano, neppure per cercarci. In testa continuò a marciare la
"Tridentina" , seguita dalla colonna ininterrotta degli sbandati che si
allungava nella steppa per una profondità di circa 30 chilometri.
Il 31 gennaio, presso Wosnessenoeka, trovammo pochissime ambulanze con
il generale Gariboldi, comandante dell'Armir. Caricammo sui veicoli i
feriti più gravi. C'era anche un alpino con un braccio amputato ad
Arnautowo che si era trascinato per sei giorni con il moncone congelato.
Il freddo lo aveva salvato dalla cancrena. C'erano pure alcuni
tedeschi, in tuta bianca. Ne fermai uno e gli chiesi se voleva darmi la
sua pistolmachine per un pacchetto di sigarette. Accettò. Ormai l'arma
non gli serviva più.
Come straccioni, passammo davanti al generale Gariboldi, curvi, a
gruppetti, con le coperte sulla testa. Ci guardò. Sfilavano i resti
della sua armata. Con noi c'era anche suo figlio, sottotenente del 5°
Alpini.
Percorremmo altri 700 chilometri a piedi, sempre incalzati dai russi che
stavano avanzando. Il 1° marzo raggiungemmo Gomel. Diciassette giorni
dopo eravamo in Italia. La nostra tragedia era finita. Per andare in
Russia, nell'estate del 1942 erano state necessarie duecento lunghe
tradotte; per ritornare in patria, nella primavera del 1943, bastarono
17 brevi convogli ferroviari.
Nikolajewka fu una grande vittoria, la vittoria della disperazione. La
battaglia venne combattuta e vinta dalla "Tridentina", ma anche la
"Cuneense", la "Julia" e la "Vicenza" contribuirono con il loro
sacrificio alla salvezza del grosso del Corpo d'Armata Alpino. Pur
operando in posizioni di fiancheggiamento e di retroguardia, queste tre
unità impegnarono ingenti forze sovietiche alleggerendo in questo modo
la pressione sulla divisione di Reverberi. Il 27 gennaio, i resti della
"Cuneense", ormai all'estremo limite della resistenza umana, furono
circondati e catturati a Valuiki.
I superstiti del Corpo d'Armata Alpino, tornati in Italia, raccontarono
la loro esperienza. Parlavano con entusiasmo della popolazione ucraina e
con odio degli "alleati" tedeschi. Citiamo da una relazione
dell'Ufficio storico dello Stato Maggiore dell'Esercito Italiano:
"La popolazione ucraina - per pietà, simpatia o per ordine ricevuto
dalle autorità russe - fu sollecita nell'alleviare sofferenze, offrì da
mangiare, vestire e possibilità di riposo ai soldati dell'Armir".
Come si comportarono i tedeschi? Dice la stessa relazione: "Dalle isbe, a
mano armata, venivano cacciati i nostri soldati per far posto a quelli
tedeschi; nostri autieri, a mano armata, venivano obbligati a cedere
l'automezzo; dai nostri autocarri venivano fatti discendere nostri
soldati, anche feriti, per far posto a soldati tedeschi; dai treni
carichi di nostri feriti venivano sganciate le locomotive per essere
agganciate a convogli tedeschi; feriti e congelati italiani venivano
caricati sui pianali dove alcuni per il freddo morivano durante il
tragitto, mentre nelle vetture coperte prendevano posto militari
tedeschi, non feriti, che, avioriforniti, mangiavano e fumavano
allegramente quando i nostri soldati erano digiuni da parecchi giorni.
Durante il ripiegamento, i tedeschi, su autocarri o su treni,
schernivano, deridevano e dispregiavano i nostri soldati che si
trascinavano a piedi nelle misere condizioni che abbiamo descritte; e
quando qualcuno tentava di salire sugli autocarri o sui treni, spesso
semivuoti, veniva inesorabilmente colpito col calcio del fucile e
costretto a rimanere a terra".
Ricordo che il 30 gennaio, appena fuori dalla sacca, i tedeschi delle
retrovie si divertivano a fotografarci. Era quasi come se il nostro
disastro fosse una loro vittoria e ci segnavano a dito con disprezzo. Il
9 marzo, a Slobin, il maggiore Gerardo Zaccardo adunò il Battaglione
"Tirano" e ci parlò della tragedia e della ritirata:
"È un insulto per i nostri morti parlare ancora di alleanza con i
tedeschi: dopo la ritirata, i tedeschi sono nostri nemici, più che nella
guerra del 1915".
Il messaggio dei superstiti fu la condanna dell'assurda politica di
guerra del fascismo. Questo spiega perché le popolazioni delle valli che
avevano visto morire i loro figli in Russia si schierarono subito,
d'istinto, con la Resistenza. Così avvenne nelle vallate di Como, dove
bruciante era il ricordo dei quattordicimila caduti e dispersi della
"Cuneense". I partigiani lottarono contro i nazi-fascisti anche per
conto dei fratelli, dei figli, degli amici che erano morti in Russia.
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