La farina. Mi ci sporcavo sempre. A mia nonna restava attaccata sul
grembiule. Ci rimaneva per ore. Toccare la pasta non mi era permesso.
Potevo solo toccare la farina in un angolo della tavola di legno. Farina
e acqua, niente più. Mia nonna invece faceva la pasta, quella vera. Il
rito era sempre uguale. La tavola di legno veniva estratta da sotto il
tavolo. Si fissava bene. Sopra al tavolo erano pronte: uova, farina, un
bicchiere con un po’ d’acqua, una ciotola con del sale. Era sempre di
domenica. Domenica d’inverno cobalto, dura come il freddo che scendeva a
gelare tutto, a coprire con il suo ghiaccio anche i più piccoli fili
d’erba. Tutto pronto. Il matterello consumato di generazioni di bisnonne
al lato del tavolo. Tutto pronto dunque. Un bel mucchietto di farina sulla
tavola e un bel buco in mezzo scavato con le mani. Il suono delle uova
che si rompono e dolcemente affondano nella farina. Una forchetta anche,
l’avevo dimenticato. Una forchetta per sbattere le uova, un pizzico di
sale, un goccio di acqua. Appena appena quel tanto che basta per
ammorbidire la pasta. La delicatezza delle mani nel spingere la farina a
poco a poco e l’impasto. Le mani che si appiccicano sulla pasta che
piano piano comincia a formarsi e continuando a lavorare la fanno
diventare liscia. Quelle mani. Le mani di mia nonna, scarne, che
sembrano pronte a cedere da un momento all’altro con quella fede di un
matrimonio che fu, che si intravede tra gli stracci di pasta e il bianco
della farina. Mani che lavoravano l’impasto con una tale poesia che non
ho mai più visto. Mentre la pasta riposava, sempre se non avevo
combinato qualche guaio potevo usare il matterello, per stendere la mia piccola pallina di impasto fatta solo
con acqua e farina. Le uova costavano e non potevano essere sprecate.
Mia nonna mi spiegava come girare il matterello. Ci mettevo tutto
l’impegno del mondo, perché mia nonna era una tosta e voleva sempre che
le cose venissero fatte bene. E soprattutto doveva essere sempre tutto
pulito e organizzato. Poi il matterello lo prendeva lei. E allora era
una musica. Era come se la migliore orchestra del mondo suonasse la
musica più bella del mondo. Non l’ho mai detta a mia nonna questa cosa.
Era una musica bellissima. Quando era lei a stendere la pasta ad ogni
tocco la pasta toccava la tavola di legno e usciva dal matterello con un
rumore che in dialetto si chiama ‘lu schioccu’. Quando aveva raggiunto
la giusta rollata la pasta era fina, stesa bene e pronta. Allora si
decideva se fare i tortellini o i ravioli o i maltagliati o, più spesso,
le tagliatelle. Si arrotolava la pasta e si tagliava col coltello. Si
stendeva sulla tavola con un pizzico di farina. Quello era il mio ruolo,
spargere il pizzico di farina sulla pasta per non farla attaccare.
Quando sono diventata grande abbastanza ho potuto fare anche io
finalmente la pasta, passando prima per l’impasto, la stesa, la chiusura
dei tortellini, e il taglio delle tagliatelle rigorosamente a mano e
col coltello. Così quando i giudici di MasterChef Professional in Uk mi
hanno chiesto perché non avevo usato la macchina per fare le
tagliatelle, io non ho avuto il coraggio di dirglielo. Non sono riuscita
a rispondere che una macchina per fare le tagliatelle non solo non
l’avevo mai usata, ma forse nemmeno mai vista. Perché per fare la pasta
ci vuole la musica, non una macchina, ma la musica. Una musica che viene
dal cuore.
simpatica storiella che anch'io ho vissuto
trovata nel web
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