Se la paura è un mostro che si nutre di buio, la scena del Martedì di
Passione che ci resterà impressa nella mente l’ha ripresa un telefonino
nelle viscere della metropolitana di Bruxelles. Il treno si è appena
fermato in mezzo al tunnel e i passeggeri scendono dai vagoni per
incamminarsi lungo le rotaie, verso la stazione più vicina. Nei loro
gesti non si respira il panico dell’aeroporto, dove tutti correvano a
perdifiato trascinandosi appresso i carrelli. Forse qui sotto non hanno
ancora la percezione esatta di cosa è successo. Qui il buio e il
silenzio avvolgono ogni azione e ogni emozione. A sporcarli affiorano il
bagliore tenue delle luci di emergenza e il pianto isolato di un
bambino. Ma gli adulti non piangono e non urlano. Neppure parlano. Si
limitano a camminare silenziosi in fila per due, ascoltando il rumore
dei propri passi senza rallentare né correre, come durante una
processione.
A un certo punto la camera del telefonino inquadra un uomo con un corpetto blu solcato da un’enorme scritta Nike.
Cammina da solo in mezzo alle rotaie e tiene in mano un mazzo
di fiori bianchi e rossi. Sembra quasi sollevarli con cura, affinché la
polvere che sale dal basso non deturpi troppo la loro innocenza. Chissà a
cos’erano destinati: se a battezzare una laurea, il vincitore di una
gara sportiva o un appuntamento galante di prima mattina. La scena ha un
effetto surreale che trascende nel magico: dopo tanto buio, in fondo al
tunnel si comincia a intravedere una luce.
Anche noi vorremmo vedere la luce, sperando non sia quella di un
treno in corsa che procede contromano. Dopo la mattanza dei vignettisti
di Charlie Hebdo eravamo sconvolti, ma immaginavamo ancora che il
terrore colpisse obiettivi mirati. Dopo il Bataclan abbiamo capito che
non era così, ma continuavamo a sperare che si trattasse di un attentato
sporadico, non di un atto bellico a cui ne sarebbero seguiti molti
altri. Finché è arrivata la battaglia di Bruxelles a ricordarci che
qualcuno ci ha dichiarato guerra e che qualunque muro eretto tra noi e
il nemico è ridicolo perché il nemico è già penetrato nella fortezza
Europa. Ci è nato, ha frequentato le sue scuole, usufruito dei suoi
servizi, imparato le sue lingue e quanto basta dei suoi costumi per
coglierne gli aspetti più vulnerabili. I disperati che scappano dalla
guerra e i fanatici che ce la portano in casa sono due problemi enormi,
ma molto diversi tra loro, che non verranno mai risolti se affrontati
allo stesso modo.
La paura non dà mai risposte. Fa solo domande. La più stringente se
la stanno ponendo le persone che avevano prenotato un viaggio all’estero
per i giorni di Pasqua. Rinunciare, a costo di rimetterci dei soldi? O
sfidare il destino, accettando il rischio di salire su un aereo, ma
ormai anche su una metropolitana? E qual è il limite da dare
all’espressione «viaggio all’estero», quando il terrore invade la
capitale stessa dell’Europa?
L’essere umano opta tendenzialmente per la soluzione che risuona meno
pericolosa al suo carattere. Il fatto è che questa soluzione si sta
rattrappendo di mese in mese, come il numero di Paesi sulla cartina
geografica in cui sia ancora possibile immaginare di trascorrere una
vacanza senza infilare troppa angoscia in valigia. E’ il ricatto del
terrorismo, lo sappiamo, ma conosce un limite nel nostro desiderio
naturale di muoverci, accettando rischi calcolati. I treni e gli
aeroporti torneranno a popolarsi, perché nessuno è disposto a rinunciare
al piacere di percorrere in libertà almeno la porzione di terra che gli
è toccata in sorte. Quell’Europa che, paradossalmente, la tragedia
spagnola del pullman dell’Erasmus e gli attentati di Bruxelles ci stanno
facendo sentire finalmente nostra.
Restringendo la visuale all’Italia, bisogna riconoscere che la sua
prolungata impermeabilità ai sicari del Califfo non è frutto del caso o
di un accordo segreto con la mafia, come giurano i dietrologi che tutto
sanno, ma dello straordinario lavoro di una tra le Intelligence migliori
del mondo. Si dice che l’esercizio sviluppa l’organo e i servizi
italiani si sono addestrati attraverso mezzo secolo di lotta al
terrorismo politico e alla criminalità organizzata, fino a raggiungere
livelli di efficienza e di prestigio che le frange di agenti «deviati»
non sono riusciti a macchiare. Forse un giorno verremo a sapere quante
Bruxelles sono state risparmiate agli italiani in questi anni, grazie ai
controlli e alle intercettazioni che qualche anima candida vorrebbe
abolire.
La paura è un sentimento reazionario che spinge verso scelte
reazionarie. Storicamente trascina i popoli alla dittatura,
nell’illusione che sospendere le garanzie democratiche possa proteggere
meglio dal terrore. In realtà il populismo porta all’isolamento e
l’isolamento non fa che aumentare il pericolo. Ma se avere paura è un
diritto, e in certa misura un dovere, anche non perdere la testa lo è.
Si brancola al buio come nel tunnel di Bruxelles, eppure si comincia a
intravedere una luce. L’interruttore lo hanno in mano i leader europei.
Cercheranno l’applauso facile delle opinioni pubbliche, sollevando ponti
levatoi nel cuore dell’Europa, oppure useranno l’emergenza per
accelerare il processo di integrazione tra le polizie continentali?
Forse il terrorismo, come la paura, non si combatte alzando muri, ma
gettando reti.
M. Gramellini
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