giovedì 7 maggio 2015

Quando i Migranti... eravamo Noi!

I° “ IL VIAGGIO “


Era il maggio 1945. La guerra “lampo”, che aveva durato più di cinque anni e che aveva causato una ecatombe di giovani nel nostro paese, era finita, ma non era arrivata la pace, perchè circolavano ancora per le strade dei paesi della nostra Valle certi personaggi armati fino ai denti che seminavano il terrore fra la popolazione ancora provata dai passati rastrellamenti subiti.

Con il ritorno a casa dei nostri soldati, la vecchia e mai risolta piaga della disoccupazione, cominciò a farsi risentire.

Fino all'aprile, la gente, un po' con la TODT, un po' con il contrabbando, erano riusciti a sbarcare il lunario. Tutto ciò era scomparso con la liberazione.

Dopo la grande guerra del '15-18, per tre-quattro anni ci fu lavoro per la ricostruzione dei paesi devastati, ma questa volta niente! 
Gli uomini cominciarono a cercar lavoro, come avevano sempre fatto prima delle due guerre. Nel periodo che va dal 1922 al 1940, non era facile trovarne a causa della grande depressione che incombeva sull'Europa e nel mondo.

Nelle lunghe serate estive, si radunavano a gruppi nelle varie ostarie, chi dalla Nìnele, chi da Valente e chi dalla Mora o nelle altre, che a quel tempo erano numerosissime nel nostro Paese, si discuteva e si cercavano soluzioni.

Un giorno partivano in tre, il giorno dopo ne sparivano altri quattro, giovanissimi ed anziani, nessuno sapeva dove si recassero. 
Solo dopo qualche mese le mamme o le mogli ricevevano notizie, dalla Francia, dalla Svizzera, dal Piemonte. Il lavoro c'era e tanto anche, nell'Europa mezza distrutta dai bombardamenti e dalla barbarie tedesche nei piccoli paesi bruciati, ma la grande difficoltà era raggiungere il luogo. 
Non si avevano le ”carte”, magari solo un vecchio passaporto scaduto, una carta d'identità, quattro stracci in una vecchia valigia. 
Non si poteva passare la frontiera senza documenti, ed allora si sfidava la neve ed il freddo dei colli delle Alpi. 
Si partiva da Bardonecchia di notte con un "passeur" o un contrabbandiere, che conosceva l'itinerario e gli usi dei finanzieri, e dopo tre ore di marcia sulla neve ed al freddo, si giungeva presso la caserma del ben nominato “Piano dei Morti”.
Se si riusciva a passare incolumi da questa zona, per il col della RHO (Roue in francese) si attraversava la frontiera ed in poco tempo, anche se sembrava lungo a causa dei piedi fradici e congelati dalla neve, seguendo il sentiero che costeggia “Le Ruisseau du Charmaix” si giungeva al mattino a Fourneaux-Modane.

Altro passaggio meno sorvegliato, ma molto più difficile e pericoloso per recarsi in Francia, era per il colle du Clapier; un po più ad est. Colle, che si dice passò Annibale con i suoi cento elefanti nel 200 avanti Cristo. Una nostra compaesana in viaggio assieme ai figli, per il vento e la bufera di neve non ce la fece. Fu sepolta nel piccolo cimitero di Bramans a qualche chilometro sopra Modane. Ora non si scorge piu nessuna traccia della tomba.

Il primo paese che incontravano era Fourneaux, paese di duemila anime costruito in lunghezza sulla sponda sinistra del fiume Arc  che scorre, a volte placido e a volte dirompente, dalle Alpi del Grande Paradiso, fino alla pianura, gettandosi sul fiume Isere. La popolazione viveva grazie alla grande “Papeterie” (cartiera) ed all'immensa stazione merci, sempre piena di treni. Era letteralmente accollato a Modane-Gare, cioè al primo troncone di Modane, paese tagliato in due dalla linea ferroviaria.

L'altro pezzo di paese, più a est, dove si trova tuttora tutta l'Amministrazione, si chiama Modane-Ville.

Che dava molta importanza a Modane, era la linea ferroviaria, che attraverso il tunnel ferroviario del FREJUS, inaugurato nel 1870, collegava l'Italia alla Francia. Fu la prima galleria costruita sotto le Alpi, dalle due nazioni.

Il paese dunque diventava posto di frantiera con polizia, gendarmi e doganieri. Se gli operai italiani che potevano entrare in Francia con le carte in regola se la cavavano abbastanza bene con la gendarmerie e la polizia, molto più difficile era passarla liscia con i doganieri, che propri e veri despoti, facevano il bello ed il cattivo tempo sui treni. Costringevano, arbitrariamente, ad aprire valige e sacchi, sequestrando, con multe salate, tutto ciò che loro giudicavano contrabbando. Facendo a volte scendere dal treno uomini e donne, costringendoli a spogliarsi in una stanzetta, per ispezionarli. Causando loro la perdita del treno, che non aspettava, e creando loro non pochi disagi, obbligati com'erano a restare fermi anche una giornata intera, rinchiusi nella sala d'aspetto.

Giunti a Fourneaux, confusi in mezzo alla gente, sulla strada nazionale, clandestini, procedevano, guardinghi, verso la Gare (stazione). Erano riusciti ad avere una informazione, un nome “La Pastora”... Ma chi era sta Pastora?

Era una donna di una certa età, una di quelle donne che guardandole si pensa siano sempre esistite. Teneva un piccolo “bistrot”, un ristorante, vicino alla Gare. Un gran stanzone con cucina, banco per bere e tavoloni per mangiare. Era un bistrot conosciutissimo dai nostri connazionali e non solo, ma anche dalla gendarmeria francese che faceva frequenti visite per controllare il flusso immigratorio. La Padrona, essendo di origine piemontese, parlava abbastanza bene l'italiano. Raccontava spesso e volentieri, d'aver tenuto dieci anni prima, verso il 1935 e gli anni prima della guerra, una cantina a La Praz, per gli operai che lavoravano per la costruzione della Centrale della diga della Bissorte. Gli operai erano la maggior parte italiani, veneti. Si ricordava ancora dei nomi: Longhi, Scalzeri, Fontana, Sartori, Lorenzi, Dalla Via.
Si ricordava ancora i nomi degli emigranti della nostra valle!

Non fu dunque difficile, ai nuovi arrivati, di trovare il ristorante alla Gare, un poco in disparte della strada nazionale, rinchiuso fra due alte costruzioni.

Quando aprirono la porta, quasi svennero dal profumo di caffè che si sprigionava dalla cucina, il fumo ed il vapore circolavano a bassa quota.

I clienti parlavano a gran voce. Stettero immobili per qualche istante sulla soglia della porta fino a che la Padrona non si avvicinò loro. 
Non furono necessarie molte parole perchè solo guardandoli aveva capito tutto. Ne aveva visti passare troppi come loro nella sua vita! 
Non poteva offrire loro gran cosa da mangiare perchè esistevano ancora le restrizioni, ma un pezzo di pane nero e una scodella di caffelatte, riusciva sempre a procurarselo per i suoi avventori.

Quando si svuotò lo stanzone dagli altri clienti, la Padrona si avvicinò loro.

Suppongo che siate venuti in Francia per lavorare”, chiese loro. ”Eh sì...!” risposero unanimi. “E sapete dove andare, conoscete qualcuno ?”

Purtroppo non conosciamo nessuno!” “Allora ci sono due soluzioni: se sapete lavorare da buoni muratori non é difficile trovare un padrone qui a Modane: Oliva, Gamero, Cimaz che vi faranno il contratto di lavoro e le altre carte. Sarete al sicuro, la polizia non vi disturberà. Però bisogna lavorare tanto per un piccolo salario. Oppure andare a lavorare nelle dighe di Aussois, nelle gallerie de Entre Deux Eaux, o alla centrale d'Avrieux. In questi luoghi facendo tante ore e non aver paura di fare lavori sporchi e faticosi, si guadagna anche il triplo che a Modane. Per contro le ”carte“, in queste grosse imprese é molto difficile ad averle, perché non fanno contratti singoli. Forse possono passare anni prima che ve le facciano. Dovrete stare molto attenti alla Gendarmeria! Cosa scegliete?” Dopo aversi consultato un po', unanimi risposero: ”Se è possibile, alla diga di Assois”!

E bene, vediamo se è possibile”, rispose Madame Pastora...
Lino Bonifaci


Giorgio, che ringrazio, mi invia delle foto del tempo, riguardo al post.






8 commenti:

  1. Bravo Lino, bel racconto, salutami la Vincenza :-)

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  2. Quando ho letto questo raconto mi è venuto in mente tutte le storie che mi racontavano i miei nonni . Modane era tanto nominata a San Piero e quando studiavo la geografia andavo sempre a vedere dov'è. Però signor Lino penso che la emigrazione di adesso sia diversa di quella di allora dei nostri nonni. è dificiele giudicare. grazie signor Lino lei lo sa che leggo sempre volentieri i suoi raconti.

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  3. Andaloca Lino, e Croizac e Romita, andove li mititu? Intel ’47 a Modane, Croizac te dava 80 franchi al dì par pararte intei campi de smistamento piini de polde. A gera mejo intel quarantasìe quando a San Maurice ghìn rivava anca quatrosento al di, massima veneti e furlani. Anca alora ghe gera i scafisti (taliani), ma col palo e col prosac e i te menava sora ale sgrébene anca co la bufera de gneve e chi che pantedava i lo lassava là a crepare.

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    1. SPoncy, mai sentio parlare de sto Croizac e Romita. Conosso solo Al Bano Carrisi & Romina Power, pi cantori che marcanti de schiavi...
      Blague à part, "che vita !"

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  4. Per capire bene le problematiche dell’emigrazione dei popoli c'è il libro di Gian Antonio Stella “L'orda, quando gli albanesi eravamo noi”, edito da Rizzoli.
    Buona lettura!

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    1. Scusami Lino, non volevo togliere meriti al tuo bellissimo racconto. Buona serata.

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  5. Per carità, Claudio, non vorrai paragonare un scrittore come G.A.Stella ad un povero operaio dell'edilizia ("ultimo "mestiere" della scala). Pero" ho un vantaggio su di lui e non di poco,scrivo vita di emigrazione vissuta, lui,
    fortunato, solo per sentito dire.
    Cara la mia Heidi, emigrazione è sempre l'abbandono del proprio paese,
    per fuggire fame e miseria. Adesso, come allora .Pensa che solo dal
    veneto dove abiti, sono partiti, a volte rimettendo la propria vita piu'
    di quattro milioni di persone.Tante, anche di loro, sono finite in mare.
    Sponcio,grazie del tuo solidale intervento.Conosci cose piu' di me.
    Perché non metti anche tu, nero su bianco, le tue esperienze di vita?
    Avresti certamente delle cose interessanti a svelarci.

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    1. Ecco grazie Lino per il racconto e ancor più per questa risposta. Continuare a credere che i nostri emigrati erano diversi da quelli di oggi è semplice ipocrisia, mi di spiace per Heidi che ho sempre apprezzato nei suoi commenti. Ma vedi Heidi noi che conosciamo personalmente i nostri emigranti perché sono i nostri nonni, i nostri genitori i nostri zii e fratelli e sappiamo con certezza la loro integrità morale, sappiamo con certezza i motivi per cui hanno dovuto lasciare casa e figli (mio padre come l'ultimo dei senegalesi ha conosciuto il suo primogenito che aveva già compiuto tre anni) noi sappiamo! Ma gli svizzeri che vedevano questi cinkali dormire in baracca, lavarsi alla meno peggio con la gomma del cantiere e poi fare cappanello nei loro bei giardini pubblici (e dove dovevano trascorrere le giornate senza lavoro nelle baracche puzzolenti?) gli svizzeri, dicevo, pensavano di loro le stesse identiche cose che pensiamo noi oggi di quelli che ci "invadono", e sai una cosa continuano a pensarlo te lo assicuro io che ho un figlio di 25 anni emigrato là da 5. Ecco so che costa un po' di fatica io per primo mi ritraggo di fronte ad un gruppetto di sengalesi non sono così ipocrita da dire che sono felice di incontrarli sempre, ma uno sforzo di civiltà è necessario. L'Italia non è un continente come l'Africa eppure in trenta anni 1880 - 1910 sono partiti 25 milioni di Italiani e negli anni 50 sono tornati a partire senza sosta. Abbiamo dato il diritto alle merci di circolare senza confini e lo neghiamo agli uomini. Che razza di civiltà siamo? Ecco io non voglio entrare nelle colpe degli europei sul aver creato un continente come l'Africa io come Lino (se lui me lopermette) sono un povero Operaio ma non chiudo mai gli occhi per continuare a vivere sicuro nella mia tiepida casa con cibo caldo circondato da visi amici ecco io continuo a considerare se questi sono uomini e considerare se queste sono donne. Chiedo scusa a a Heidi per averla nominata, il mio commento non è direttamnte rivolto a lei naturalmente. Ancora grazie a Lino per i suoi racconti, un saluto a Madame Odette e a Sponcio. A Carla e Gianni grazie per il Blog anche quando si fa urticante. Un abbraccio a Primo Levi. Andrea

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