lunedì 2 febbraio 2015

Dalla Russia...

Sulla grande montagna c’era solo buio. Un immenso sconfinato buio che non si sapeva dove iniziasse e dove finisse. Tra le case del piccolo villaggio, invece, qualche raro lume d’intorno, indicava che c’era ancora vita, attaccata là con le unghie, certo, ma era Vita che non si faceva scacciare dalle avversità. I muri dei nidi di uomo però, più larghi di un metro, custodivano tutto gelosamente e non lasciavano che altri godessero della loro intimità.
In casa, il ceppo di faggio, bruciando, scoppiava con schiocchi secchi, dentro il camino di pietra della cucina e illuminava a giorno l’ampia sala e a tratti accendeva guizzanti riflessi brunastri sugli oggetti di rame attaccati tutto attorno alle pareti. Due porte più in là, la stube avvolta nelle grosse assi di larice, era quasi al buio, veniva rischiarata appena dal bagliore fioco delle braci nel povero caldano di ottone.
In quell’ambiente oscuro, di tanto in tanto, una lama di luce sinistra, d’incerta origine, proiettava sopra le antiche tavole ombre misteriose, molto simili a esseri venuti dall’altro mondo.

Solo di rado la piccola brace della pipa, che ardeva inaspettata, lasciava intravedere il volto antico del barba Måndo, che stava abbandonato in fondo alla vecchia poltrona Frau con la coperta sulle ginocchia. Forse, un altro bambino avrebbe avuto paura di tutto quel buio e di quelle ombre misteriose, non io, che invece godevo beato la presenza del mio amato barba.
Quella, era l’ora della magia; il giorno chiudeva le persiane sulla nostra terra, aspra e dura come la nostra vita, e solo la notte, che apriva il cielo alle stelle e ai sogni, portava un seppur breve tempo di tregua. Nella stalla, in fondo alle scale, le vacche, sdraiate placidamente sul letto asciutto di foglie secche, ruminavano tranquille. In casa, l’odore buono del tabacco da pipa si mescolava e si fondeva con quello di letame che saliva da sotto, impastando un’essenza dolce mai più ritrovata. Il barba mi sorrideva e mi raccontava le Storie.
Erano, quelle del mio barba, leggende antiche di orsi sciamani che conoscevano i rimedi per i mali dei re e delle regine, conoscevano le miniere di oro e di diamanti e conoscevano anche le miserie di noi, poveri montanari abbandonati da tutti, forse anche da Dio; dal piccolo dio del prete di certo.
L’orso, era l’animale che compariva più spesso nei racconti del vecchio, ma non era il solo, con lui anche tanti altri selvatici, la martora, la lepre bianca, il camoscio e certi uccelli con il ciuffo che arrivavano sino a noi dalla steppa più profonda: i rüss, li chiamava il Måndo quei piumati.
La realtà restava fuori dalle spesse mura di pietra di quella stanza, là dentro erano ammessi solo la meraviglia e la fantasia.
Lüsan….ascolta, era la parola magica con cui il barba apriva lo scrigno dei suoi racconti o dei suoi ineffabili sogni. La voce di quell’uomo diventava ogni giorno più debole e stanca e qualche volta si perdeva in un flebile borbottio di vegliardo, incomprensibile a tutti, non a me però, quella nenia sommessa sembrava la ninna nanna più bella e più dolce mai ascoltata. Con gli occhi chiusi mi lasciavo trasportare da quel lento fiume di parole che scorreva tra le bianche betulle del paese dei cosacchi; quel maestoso raccontare era il cinema che non conoscevo.
Quella sera, erano i primi giorni di gennaio del ’68, gli occhi del vecchio guardavano qualcosa che stava oltre di me, aldilà delle pareti della vecchia casa, oltre la notte, qualcosa che stava lassù tra la punta del campanile e le stelle.
«C’è una terra», incominciò barba, «lontana, ma così lontana, che per quanto tu ti possa sforzare non riusciresti mai ad immaginarla, è una terra dove fa così freddo che nemmeno la neve riesce a cadere e dove anche i fiumi più grandi si ghiacciano sino in profondità, imprigionando i pesci. I nostri vecchi chiamavano quel paese immenso: “Santa Madre”, noi invece semplicemente la Russia. Laggiù “dar khopfar”, il crapun mandò a morire i giovani dell’età di tuo padre.»

Sono morti in tanti, di freddo, di fame, di tifo dei pidocchi, e sono rimasti là prigionieri del ghiaccio, come i pesci. Ma il Padre Eterno conosceva uno per uno quei suoi ragazzi, sapeva quanto amore avevano nel cuore; amore per le loro mogli a casa, per i figli ancora da svezzare, amore per la loro terra, amore per i campi di patate, per le due vacche che tenevano in stalla, per le montagne; amore per una madre, che era diventata larice resistente a tutte le intemperie a forza di aspettare.
Combattevano una guerra sbagliata come lo sono tutte le guerre, del resto, ma anche questo sapeva il Dio degli eserciti. Più di tutto però conosceva l’ansia che prende i montanari quando sono cadute anche le ultime foglie del faggio e la brina imbianca i campi: la voglia di essere a casa prima che cada la neve. Molti, in troppi, non sarebbero più tornati quell’inverno. Il Signore allora provò pietà e si commosse sino alle lacrime di fronte alle preghiere di quei poveri diavoli, che non chiedevano altro, che tornare alle loro case. Dopo un lungo pensare, decise che avrebbe potuto trasformarli in uccelli migratori, cosi sarebbe stato più facile farli ritornare ad ogni inizio della dolce stagione del riposo.
La penna nera che quei ragazzi portavano sul cappello divenne il ciuffo di penne che gli uccelli hanno sul capo, e la coccarda che sosteneva la penna, una macchia rossa sul petto.
«Lo capisci ora, perché non bisogna mai far del male a quegli uccelli che noi chiamiamo rüss, loro… Loro sono le anime dei nostri morti, che da quelle terre sperdute ad ogni autunno vengono quassù a rivedere la propria terra, a raccogliere la preghiera di una madre, e a recitarne qualcuna sulle tombe del piccolo cimitero.» Cosi raccontava il barba Måndo.
Io sono cresciuto portando dentro il cuore, l’immagine dell’Onnipotente che piange sulle mani congelate di un soldato che muore, prima di nostalgia, che di morte.
Invano cercai negli anni a venire di convincere mio fratello a non catturarli con la cassetta quei teneri cespi di piume, ma forse aveva ragione lui, il vecchio Pertl pagava troppo bene quelle povere bestiole e i soldi servivano a mia madre, non certo per comprare capricci, ma il pane, perché in famiglia entrava un solo stipendio e di bocche da sfamare ce ne erano tante.
All’improvviso agli inizi degli anni ottanta i rüss non passarono più dalle nostre parti, a dimostrazione di ciò che ho sempre sostenuto, che l’antico mondo con i suoi spiriti e i suoi sacerdoti sia morto per sempre, proprio in quegli anni. Solo in questi giorni ho sentito dal telegiornale locale che sono tornati. Il rappresentante della LIPU li ha chiamati con un nome che non conosco, ma ho capito subito che erano loro, i rüss della mia infanzia. Il giornalista ha chiesto se vi siano stati casi di bracconaggio, l’uomo della LIPU ha scrollato le spalle: “No, solo qualche sporadico caso in quel di Luserna”. Chissà se qualcuno ha ancora bisogno di quelle ventimila lire… volevo dire dieci euro, o se si tratta solo di quella solita stanca noncuranza con cui si disprezzano le cose belle che il Signore ci regala. Il nome con cui l’esperto ha chiamato i mitici portatori di anime è stato: ”Beccofrusoni” e ho scoperto che prima del mio amato Barba, li ha cantati persino Boris Pasternak, nel suo “Dottor Zivago”.
Chissà cosa direbbe oggi l’infinito cantastorie della mia infanzia.
Andrea Nicolussi Golo

12 commenti:

  1. CIAO ANDREA sono seduto vicino al camino e ho letto il racconto che mi ha riportato indietro di oltre mezzo secolo ; quando vivevo a LUCONI e alla sera i barba raccontavano storie simili a questa.A primavera tornero' in VALLE ;spero che troveremo l'occasione x rincontrarci cosa che mi farebbe molto piacere.Un'abbraccio AGOS e CINZIA. PS. la spalla tutto ok????? CIAO

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  2. Ciao Agos, ci incontreremo senz'altro, d'estate è bello incontrarsi. Non parlo più della mia spalla perché è un tormento così lungo che ha stufato anche me. Un abbraccio a voi Andrea

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  3. Ciao Andrea, sempre molto commoventi ed emozionanti le tue storie. Un abbraccio

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  4. Ciao Andrea, ora metto il Rosso insieme alla Cerva e li custodisco in attesa delle cornici perchè mi tirano sù l'anima, meraviglioso!!!!!!!Floriana

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  5. Shemà, scolta, lüsan, a seconda dei posti, ma sempre è l'attenzione che si è capaci di catturare che fa la differenza. Chissà se gli Alpini cacciatori che ti leggono riusciranno a tirare ancora il grilletto.

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  6. I complimenti mi imbarazzano almeno quanto mi fanno piacere... grazie Renata, Grazie Floariana ma sono solo storielle... Chissà Gianni, chissà. Andrea

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  7. Toi Golo, lo sai che sono arrabbiato, vero?

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  8. Perché di grazia? Andrea

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    1. No davvero non lo so e un po' mi preoccupa. è ben vero che la mia povera mamma diceva: "male non fare, paura non avere" ma come ben sai mala tempora currunt... Andrea

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    2. Quando uno è rabiato è rabiato e basta. Per dare spiegazioni bisogna risalire alle radici della rabbia e così questa si sgonfia e ti viene a mancare la consolazione di essere rabiato e quindi vivo. Toi, certo caro che tu sei stato circondato da gente saggia, sai. O tu hai l'innato talento di cogliere il meglio di ciascuno, oppure sei stato fortunato, e quando fortuna vien, prendila a man salva, dinanti dico, perché direto è calva. Quest'ultima è di LdV, sai, ogni tanto bisogna attingere senò la vena si secca.

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    3. Sai caro Don io non credo a fortuna o sfortuna; certo che se devo fare il conto delle cose brutte che ho attraversato e che attraverso e delle rare cose belle che ho vissuto, parlare di fortuna sarebbe blasfemo. La mia povera madre quando ho compiuto 17 anni è andata in chiesa ad accendere una candela alla Belamåmma perché era trascorso il mio primo anno di vita senza che avesse dovuto correre a portarmi in ospedale. Sai Don un tempo ero convinto che i campioni si nutrissero anche di rabia, sopratutto di rabia, poi piano e troppo tardi ho capito che i campioni si nutrono di gentilezza, la gentilezza disarma la ferocia, occorre interrompere la catena, che senso ha crocifiggere chi brucia le persone, che senso ha? Nel nostro piccolo, per fortuna, non incontriamo siffatti dilemmi, ma semplicemente un impiegato scortese, un presidente di biblioteca specializzato sull'emigrazione che rifiuta il tuo libretto giudicandolo di merda, (testuale) e allora? Allora si ringrazia dell'attenzione si chiede scusa e si sorride e l'impiegato, il presidente, il direttore, rimangono spiazzati e pensano che tu sia scemo, invece sei solo un po' più sereno di loro, un po' più in pace con te stesso. Ecco caro Don mi fa paura la rabia. Un saluto e scusa a tutti per queste mie parole un po' troppo personali. Scusa anche alla Carla che non vuole si scriva sui post troppo vecchi. Andrea

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