In
casa, il ceppo di faggio, bruciando, scoppiava con schiocchi secchi,
dentro il camino di pietra della cucina e illuminava a giorno l’ampia
sala e a tratti accendeva guizzanti riflessi brunastri sugli oggetti
di rame attaccati tutto attorno alle pareti. Due porte più in là,
la stube avvolta nelle grosse assi di larice, era quasi al buio,
veniva rischiarata appena dal bagliore fioco delle braci nel povero
caldano di ottone.
In
quell’ambiente oscuro, di tanto in tanto, una lama di luce
sinistra, d’incerta origine, proiettava sopra le antiche tavole
ombre misteriose, molto simili a esseri venuti dall’altro mondo.
Quella,
era l’ora della magia; il giorno chiudeva le persiane sulla nostra
terra, aspra e dura come la nostra vita, e solo la notte, che apriva
il cielo alle stelle e ai sogni, portava un seppur breve tempo di
tregua. Nella stalla, in fondo alle scale, le vacche, sdraiate
placidamente sul letto asciutto di foglie secche, ruminavano
tranquille. In casa, l’odore buono del tabacco da pipa si mescolava
e si fondeva con quello di letame che saliva da sotto, impastando
un’essenza dolce mai più ritrovata. Il barba mi sorrideva e mi
raccontava le Storie.
Erano,
quelle del mio barba, leggende antiche di orsi sciamani che
conoscevano i rimedi per i mali dei re e delle regine, conoscevano le
miniere di oro e di diamanti e conoscevano anche le miserie di noi,
poveri montanari abbandonati da tutti, forse anche da Dio; dal
piccolo dio del prete di certo.
L’orso,
era l’animale che compariva più spesso nei racconti del vecchio,
ma non era il solo, con lui anche tanti altri selvatici, la martora,
la lepre bianca, il camoscio e certi uccelli con il ciuffo che
arrivavano sino a noi dalla steppa più profonda: i rüss, li
chiamava il Måndo quei piumati.
La
realtà restava fuori dalle spesse mura di pietra di quella stanza,
là dentro erano ammessi solo la meraviglia e la fantasia.
Lüsan….ascolta,
era la parola magica con cui il barba apriva lo scrigno dei suoi
racconti o dei suoi ineffabili sogni. La voce di quell’uomo
diventava ogni giorno più debole e stanca e qualche volta si perdeva
in un flebile borbottio di vegliardo, incomprensibile a tutti, non a
me però, quella nenia sommessa sembrava la ninna nanna più bella e
più dolce mai ascoltata. Con gli occhi chiusi mi lasciavo
trasportare da quel lento fiume di parole che scorreva tra le bianche
betulle del paese dei cosacchi; quel maestoso raccontare era il
cinema che non conoscevo.
Quella
sera, erano i primi giorni di gennaio del ’68, gli occhi del
vecchio guardavano qualcosa che stava oltre di me, aldilà delle
pareti della vecchia casa, oltre la notte, qualcosa che stava lassù
tra la punta del campanile e le stelle.
«C’è una terra»,
incominciò barba, «lontana, ma così lontana, che per quanto tu ti
possa sforzare non riusciresti mai ad immaginarla, è una terra dove
fa così freddo che nemmeno la neve riesce a cadere e dove anche i
fiumi più grandi si ghiacciano sino in profondità, imprigionando i
pesci. I nostri vecchi chiamavano quel paese immenso: “Santa
Madre”, noi invece semplicemente la Russia. Laggiù “dar
khopfar”, il crapun mandò a morire i giovani dell’età di tuo
padre.»
Sono morti in tanti, di freddo, di fame, di tifo dei pidocchi, e sono rimasti là prigionieri del ghiaccio, come i pesci. Ma il Padre Eterno conosceva uno per uno quei suoi ragazzi, sapeva quanto amore avevano nel cuore; amore per le loro mogli a casa, per i figli ancora da svezzare, amore per la loro terra, amore per i campi di patate, per le due vacche che tenevano in stalla, per le montagne; amore per una madre, che era diventata larice resistente a tutte le intemperie a forza di aspettare.
Combattevano
una guerra sbagliata come lo sono tutte le guerre, del resto, ma
anche questo sapeva il Dio degli eserciti. Più di tutto però
conosceva l’ansia che prende i montanari quando sono cadute anche
le ultime foglie del faggio e la brina imbianca i campi: la voglia di
essere a casa prima che cada la neve. Molti, in troppi, non sarebbero
più tornati quell’inverno. Il Signore allora provò pietà e si
commosse sino alle lacrime di fronte alle preghiere di quei poveri
diavoli, che non chiedevano altro, che tornare alle loro case. Dopo
un lungo pensare, decise che avrebbe potuto trasformarli in uccelli
migratori, cosi sarebbe stato più facile farli ritornare ad ogni
inizio della dolce stagione del riposo.
La
penna nera che quei ragazzi portavano sul cappello divenne il ciuffo
di penne che gli uccelli hanno sul capo, e la coccarda che sosteneva
la penna, una macchia rossa sul petto.
«Lo
capisci ora, perché non bisogna mai far del male a quegli uccelli
che noi chiamiamo rüss, loro… Loro sono le anime dei nostri morti,
che da quelle terre sperdute ad ogni autunno vengono quassù a
rivedere la propria terra, a raccogliere la preghiera di una madre, e
a recitarne qualcuna sulle tombe del piccolo cimitero.» Cosi
raccontava il barba Måndo.
Io
sono cresciuto portando dentro il cuore, l’immagine
dell’Onnipotente che piange sulle mani congelate di un soldato che
muore, prima di nostalgia, che di morte.
Invano
cercai negli anni a venire di convincere mio fratello a non
catturarli con la cassetta quei teneri cespi di piume, ma forse aveva
ragione lui, il vecchio Pertl pagava troppo bene quelle povere
bestiole e i soldi servivano a mia madre, non certo per comprare
capricci, ma il pane, perché in famiglia entrava un solo stipendio e
di bocche da sfamare ce ne erano tante.
All’improvviso
agli inizi degli anni ottanta i rüss non passarono più dalle nostre
parti, a dimostrazione di ciò che ho sempre sostenuto, che l’antico
mondo con i suoi spiriti e i suoi sacerdoti sia morto per sempre,
proprio in quegli anni. Solo in questi giorni ho sentito dal
telegiornale locale che sono tornati. Il rappresentante della LIPU li
ha chiamati con un nome che non conosco, ma ho capito subito che
erano loro, i rüss della mia infanzia. Il giornalista ha chiesto se
vi siano stati casi di bracconaggio, l’uomo della LIPU ha scrollato
le spalle: “No, solo qualche sporadico caso in quel di Luserna”.
Chissà se qualcuno ha ancora bisogno di quelle ventimila lire…
volevo dire dieci euro, o se si tratta solo di quella solita stanca
noncuranza con cui si disprezzano le cose belle che il Signore ci
regala. Il nome con cui l’esperto ha chiamato i mitici portatori di
anime è stato: ”Beccofrusoni” e ho scoperto che prima del mio
amato Barba, li ha cantati persino Boris Pasternak, nel suo “Dottor
Zivago”.
Chissà
cosa direbbe oggi l’infinito cantastorie della mia infanzia.
Andrea Nicolussi Golo
CIAO ANDREA sono seduto vicino al camino e ho letto il racconto che mi ha riportato indietro di oltre mezzo secolo ; quando vivevo a LUCONI e alla sera i barba raccontavano storie simili a questa.A primavera tornero' in VALLE ;spero che troveremo l'occasione x rincontrarci cosa che mi farebbe molto piacere.Un'abbraccio AGOS e CINZIA. PS. la spalla tutto ok????? CIAO
RispondiEliminaCiao Agos, ci incontreremo senz'altro, d'estate è bello incontrarsi. Non parlo più della mia spalla perché è un tormento così lungo che ha stufato anche me. Un abbraccio a voi Andrea
RispondiEliminaCiao Andrea, sempre molto commoventi ed emozionanti le tue storie. Un abbraccio
RispondiEliminaCiao Andrea, ora metto il Rosso insieme alla Cerva e li custodisco in attesa delle cornici perchè mi tirano sù l'anima, meraviglioso!!!!!!!Floriana
RispondiEliminaShemà, scolta, lüsan, a seconda dei posti, ma sempre è l'attenzione che si è capaci di catturare che fa la differenza. Chissà se gli Alpini cacciatori che ti leggono riusciranno a tirare ancora il grilletto.
RispondiEliminaI complimenti mi imbarazzano almeno quanto mi fanno piacere... grazie Renata, Grazie Floariana ma sono solo storielle... Chissà Gianni, chissà. Andrea
RispondiEliminaToi Golo, lo sai che sono arrabbiato, vero?
RispondiEliminaPerché di grazia? Andrea
RispondiEliminaLo sai, lo sai.
EliminaNo davvero non lo so e un po' mi preoccupa. è ben vero che la mia povera mamma diceva: "male non fare, paura non avere" ma come ben sai mala tempora currunt... Andrea
EliminaQuando uno è rabiato è rabiato e basta. Per dare spiegazioni bisogna risalire alle radici della rabbia e così questa si sgonfia e ti viene a mancare la consolazione di essere rabiato e quindi vivo. Toi, certo caro che tu sei stato circondato da gente saggia, sai. O tu hai l'innato talento di cogliere il meglio di ciascuno, oppure sei stato fortunato, e quando fortuna vien, prendila a man salva, dinanti dico, perché direto è calva. Quest'ultima è di LdV, sai, ogni tanto bisogna attingere senò la vena si secca.
EliminaSai caro Don io non credo a fortuna o sfortuna; certo che se devo fare il conto delle cose brutte che ho attraversato e che attraverso e delle rare cose belle che ho vissuto, parlare di fortuna sarebbe blasfemo. La mia povera madre quando ho compiuto 17 anni è andata in chiesa ad accendere una candela alla Belamåmma perché era trascorso il mio primo anno di vita senza che avesse dovuto correre a portarmi in ospedale. Sai Don un tempo ero convinto che i campioni si nutrissero anche di rabia, sopratutto di rabia, poi piano e troppo tardi ho capito che i campioni si nutrono di gentilezza, la gentilezza disarma la ferocia, occorre interrompere la catena, che senso ha crocifiggere chi brucia le persone, che senso ha? Nel nostro piccolo, per fortuna, non incontriamo siffatti dilemmi, ma semplicemente un impiegato scortese, un presidente di biblioteca specializzato sull'emigrazione che rifiuta il tuo libretto giudicandolo di merda, (testuale) e allora? Allora si ringrazia dell'attenzione si chiede scusa e si sorride e l'impiegato, il presidente, il direttore, rimangono spiazzati e pensano che tu sia scemo, invece sei solo un po' più sereno di loro, un po' più in pace con te stesso. Ecco caro Don mi fa paura la rabia. Un saluto e scusa a tutti per queste mie parole un po' troppo personali. Scusa anche alla Carla che non vuole si scriva sui post troppo vecchi. Andrea
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