domenica 15 giugno 2014

Mille papaveri rossi



“Combattenti di terra, di mare e dell’aria! Camice nere della rivoluzione e delle legioni! Uomini e donne d’Italia, dell’impero e del regno d’Albania! Ascoltate!
Un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria. L’ora delle decisioni irrevocabili.
La dichiarazione di guerra è stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia.
Scendiamo in campo contro……….”

La voce tronfia del duce, sparata dagli altoparlanti gracchianti piazzati sugli edifici  pubblici dei paesi, in poco tempo fece il giro della penisola Italiana ed investì come un vento cattivo tutti gli strati della popolazione.
Erano le ore 18 del 10 giugno 1940.
Al di là della retorica propagandistica dei giornali e dei mezzi di comunicazione del tempo, che facevano vedere  “masse oceaniche” osannanti e in delirio, la realtà specie nei paesi, era ben diversa, tolti, chiaramente, i fanatici seguaci della dottrina fascista.
A Chiuppano la sera dolce di giugno, con nell’aria i profumi del grano maturo, della fioritura dei tigli e delle viti, si era di colpo colorata di angoscia e di paura.
Sui campi le chiazze allegre dei papaveri quasi urlavano quel colore contro un cielo che si faceva scuro.
In piazza, davanti alla chiesa, si erano raccolti in poco tempo gruppi di persone che a loro modo commentavano la notizia.
Poveri contadini, massaie, donne timorate di Dio con il rosario in mano, ragazzi, il prete… tutti erano  attoniti, ammutoliti a questo annuncio che era piovuto come un fulmine a squassare la quiete di quella sera di inizio estate.
Rocco, il comunista, mangiapreti, bestemmiatore e imbriagon, era seduto, come sempre, su una carega impagliata con le gambe abbassate, sotto il portico di casa sua, poco distante dalla chiesa.
Di fianco teneva il solito bossón de vin, che tracannava senza risparmiarsi.
Per campare lavorava i campi e a casa sua un piatto di minestra ed un bicchiere di vino a mezzogiorno e alla sera non era mai mancato e non lo negava certo a chi ne aveva bisogno, anche di fede politica avversa.
 Don Roncaglia, il prete del paese, andava spesso a far visita alla famiglia, con la speranza di redimere il ribelle.
Anche a lui un goto e un piatto erano sempre offerti.
 Rocco amava il  rosso pastoso del vino, il rosso vivo della sua fede politica e il vermiglio dei papaveri che, in quei giorni di mietitura, cadevano sotto la sua falce.
Nella prima Guerra Mondiale che aveva combattuto dalle parti di Belluno come bersagliere, aveva conosciuto anche il rosso del sangue e della rabbia per una guerra che non gli apparteneva.
E la parola guerra era arrivata chiara dall’altoparlante, l’aveva compresa benissimo:
aveva volteggiato nell’aria tiepida della sera come la piuma di un soffione che galleggia nell’aria d’estate, o come un fiocco di neve cullato dal vento d’inverno e gli aveva gelato il cuore.
Era stata come il colpo di granata che aveva ucciso l’amico Benaldo e la sua morosa, dilaniandoli e riducendoli in grumi di sangue e di carne.
Lei si era spinta fino al fronte per amore del suo uomo e vi aveva trovato la morte in un giorno che doveva essere festa.
Rocco era rimasto ferito seriamente alle gambe, ma si era salvato, e poiché non credeva né ai preti né ai miracoli, diceva sempre che era stato il fido mulo che lo aveva protetto dalla schegge e dal fuoco.
 Quelle parole del duce  avevano  riaperto una ferita che da più di venti anni cercava di guarire: non poteva dimenticare quel sangue, quei compagni caduti a vent’anni e quella guerra insulsa ed inutile ai suoi occhi, che tanti morti aveva fatto.
Morti per niente, per un senso del dovere che veniva imposto, per una patria che mandava a morire a calci nel culo i suoi figli migliori.
 Il suo amico Benaldo l’aveva ancora dentro all’anima, i suoi occhi fissi e sbarrati sulla morte non li poteva dimenticare,  come non poteva dimenticare il cuore della sua morosa strappato al petto e rotolato nella polvere come una boccia da gioco.
“A go visto stèle” raccontava, ma almeno erano morti insieme come avrebbero voluto vivere.
A Rocco  passò davanti tutta la vita, dalla grande guerra al viaggio per mare che aveva affrontato con la sua donna, su un bastimento di miserabili e disperati, attraversando quel mare che lo separava dal sogno di una vita meno grama.
Si rivide in America dopo essere passato per le forche caudine di Ellis Island, tra un mare di miseria e di sofferenza, di ignoranza e di poveri cristi.
Se quella era la terra promessa, il sogno di una vita meno dura, avevano sbagliato sogno.
Erano fuggiti dalla miseria ed erano piombati in un mondo ostile che parlava un’altra lingua, che non si faceva capire, che parlava solo il linguaggio della violenza e della fatica.
Un incubo difficile da immaginare se non ci si era capitati dentro.
Si erano accontentati di piccoli lavori, mal pagati, faticosi e alla giornata, per quel poco pane che riuscivano a mettere sotto i denti.
Vivevano nelle periferie e nei ghetti che erano stati dei negri e davanti avevano solo la speranza di poter tornare un giorno nella loro terra.
Una terra povera, certo, ma con il famigliare, solido ed immutabile profilo materno dei monti, contro lo scarno e freddo scenario dei grattacieli e dei palazzi in lontananza.
Alla fine  si stabilirono a Rockford, nell’Illinois, non lontano da Chicago, in cui si era formata una discreta comunità di Chiuppanesi.
Rocco si impiegò nelle ferrovie come carbonaio sui treni a vapore, mentre  Vittorina faceva la ricamatrice in casa per arrotondare un po’.
Intrecciava fili e preghiere, china per ore sul lavoro con la schiena che la sera le faceva male.
Tribolavano, lavoravano, pregavano e piangevano lontani dall’Italia, con mille difficoltà di adattamento e di vita.
Solo gli echi degli avvenimenti, attenuati e distorti dal passaparola, arrivavano in quella città e, quando c’era la possibilità di leggerli, qualcosa si apprendeva dai giornali e dalla radio.
In Italia c’era Mussolini al potere, dopo una malandata marcia su Roma, in America tengono banco le vicende di Sacco e Vanzetti, i due anarchici che verranno giustiziati nel 1927, accusati ingiustamente di aver rapinato e ucciso la guardia di uno stabilimento.
La loro unica colpa: essere emigranti Italiani e lottare per la libertà.
Rocco si era fissato bene in testa questa vicenda, come si era fissato in testa le macchine che circolavano per le strade, i grattacieli, i cimiteri di automobili, le coltivazioni di soja ed i grossi papaveri rossi che coloravano i campi delle periferie.
Quanto distante era l’Italia, arretrata ed agricola che si leccava le ferite della guerra e che stava cadendo in un altro periodo che poco di buono aveva da presagire!!
Intuiva la debolezza del suo paese e la grandezza dell’America, potente e fiera, che aveva solo bisogno di braccia per alimentare l’ingranaggio industriale che aveva avviato con le moderne catene di montaggio, gioco delle nuove schiavitù.
Resistettero quasi quattro anni, poi con un po’ di soldi guadagnati, qualche valigia, un pugno di semi di soia e di semi di papavero ripresero il mare e tornarono a Chiuppano.
Vittorina era incinta, il viaggio di ritorno ed il rollio del bastimento l’avevano sfiancata.
Aveva seguito il suo uomo come usavano fare in quei tempi le donne, sottomesse, ma non rassegnate, colonne per la famiglia.
Più forti degli uomini, soffocavano nelle lacrime e nella preghiera le loro paure, subivano e ubbidivano secondo tradizioni secolari che non ammettevano deroghe, mentre gli uomini bevevano per darsi coraggio e, bestemmiando un Dio che li faceva troppo patire, tribolavano poveri e rassegnati, senza sorrisi, carichi di fatica e di rabbiosa miseria.
Dormivano assieme sul ponte, rannicchiati su loro stessi, tra le valigie e altri grami.
Appena rimesso piede in paese la loro figlia Eleonora aveva visto la luce, in un gelido gennaio del 1925.
Con i soldi guadagnati in America comprarono un po’ di terra e ricominciarono la  vita di contadini, quella della loro storia e delle loro radici, dura da sfinimento, ma che comunque assicurava il sufficiente sostentamento.
Poi vennero altri figli, in quegli anni duri di un’Italia provinciale e fascista chiusa nella morsa di un’arretratezza culturale ed industriale come poche in Europa.
…Ancora vita dura, fatica e vino: Rocco pareva sospeso in quel mondo di ricordi che lo tormentava…  …e ancora parole da quell’altoparlante gracchiante dall’angolo della scuola elementare, contro l’Inghilterra e la Francia…. Parole che fecero montare in lui una rabbia sorda e incontrollabile.
Non era possibile per un’Italia stracciona e arretrata entrare in guerra contro potenze così forti, sapendo che dietro c’era anche l’America.
A Rocco venne prima freddo, poi un caldo furioso, fratello della rabbia, lo caricò come una molla; scattò in piedi, un altro sorso di vino e si trovò in piazza in mezzo alla gente, al prete, allo sgomento e alla disperazione.
“Che te fussi morto in te la pansa de to mare,… bastardo!!” gridò furibondo all’indirizzo di quell’uomo  che in quel momento delirava  dal balcone di palazzo Venezia a Roma, circondato da una folla oceanica secondo la retorica di regime.
Qualcuno assentì, tanti fecero finta di non sentire, altri si dileguarono in fretta senza guardarsi indietro: c’era paura di parlare in quegli anni, la censura era vigile ed attenta ed una frase così non poteva passare inosservata.
Il regime aveva occhi ed orecchi dappertutto e come una piovra controllava la gente.
Olio di ricino e bastonate erano usati per terrorizzare, soffocare ed intimorire, i pochi audaci che osavano sfidare il potere e l’istituzione fascista
In poco tempo arrivarono i carabinieri, ed arrestarono quell’uomo che aveva avuto  tanto ardire.
Lo trasferirono nelle carceri di Vicenza e a nulla valse la disperata difesa della figlia che si era aggrappata alle sue braghe e non lo voleva mollare.
Trascorse alcuni mesi in carcere, visitato di tanto in tanto dalla famiglia e da qualche amico che gli portavano il necessario per cambiarsi i panni e quel po’ di cibo per non patire la fame.
Ma non si arrese, anzi; quando tornò in libertà continuò nel suo atteggiamento ostile e ringhioso verso il regime, ancora più rabbioso di prima, dopo aver conosciuto gli agi delle patrie galere.
Il rosso del vino, della fede politica e dei papaveri lo facevano vivere, andare avanti, sperando in un mondo migliore.
Doveva nascere prima o poi un’alba diversa, della rossa primavera.
Conservò sempre nel suo cuore il seme dell’ideologia rossa, sperava di piantarlo e di vederne i frutti e regalò i semi dei papaveri alla figlia quando andò in sposa e lasciò la sua casa.
Quella sposa divenne mia zia, sposò il fratello di mia madre e già da piccolo mi raccontava  questa storia che mi appassionava e mi faceva andare con la mente lontano, lontano…
Quei semi avevano attraversato il mare ed erano la metafora della la vita di suo padre e  del suo valore. 



Un giorno, poco prima di morire, mia zia me li regalò ed ora coltivo con orgoglio i papaveri nella mia terra, per ricordare chi ha avuto il pregio di conservare la sua umanità, l’orgoglio delle sue origini, la sua dignità, il coraggio di essere stato un uomo.
Quando sulla soglia dell’estate si aprono questi fiori che vengono da lontano, quello scampolo di terra che si colora di rosso diventa la mia bandiera.
La pianto per ricordare quell’uomo di cui ho solo un vago ricordo: lo vedo arrivare in un giorno di sole, con un carretto trainato da un cavallo, per far visita alla figlia che abitava al Còsto.
Quei papaveri sono qui anche per chi è caduto per la libertà.

                                                                                                Maurizio Boschiero

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