venerdì 5 aprile 2013

Il carbone siberiano



Un mio amico mi raccontò:
All’interno di una fabbrica c’erano diversi siti, nei quali erano stoccati dei vari materiali. In uno di questi veniva  stoccato in “un piazzale” il carbone che serviva per i forni della piccola fonderia.

Ricordo bene che quando entravo in questo piazzale c’era sempre una montagna di pezzi di carbone,  lì vicino erano stoccati  anche  “lingotti” di materiale ferroso per le fusioni.
In un  altro piazzale, c’era una baracca, costruita con delle lamiere su un'intelaiatura di travi di ferro e dentro c’era un macchinario che, a quel tempo,  non  sapevo neanche esistesse.
Era una sabbiatrice,  funzionava mediante un tubo nel quale veniva pompata aria con piccoli pallini di ferro. Questi pallini erano poi eiettati ad alta pressione, per togliere la ruggine dai pezzi di ferro di grandi dimensioni.
Gli addetti che vi lavoravano dovevano operare sempre all’aperto, sia d’estate che d’inverno e quindi, per scaldarsi nei periodi invernali, allora molto rigidi, avevano costruito con un tubo di ferro di grosso spessore e diametro una stufa, in modo da scaldarsi un po’ durante il loro lavoro.
Per alimentare il fuoco naturalmente utilizzavano pezzi di carbone che andavano a prendere con la carriola in questo grande piazzale.
Con questo macchinario lavoravano 3 operai: Joani, Toni e Marieto, il più giovane, reduce dal servizio militare nell’arma dei Carabinieri e appunto soprannominato “Maresciallo”.
Nella stessa zona, ma in ufficio, c’era anche Claudio Menara, soprannominato “l’orso”, ma era anche burlone; non di certo un animale in pelliccia ed ossa, ma un impiegato cosi chiamato per il suo modo burbero e ombroso, soprattutto alla mattina quando si recava al lavoro. Un personaggio con il quale bisognava prestare molta attenzione a quello che si diceva e quello che si faceva. Insomma un po’ burlone.
Menara “l’orso”  non era da tanti anni dipendente di questa ditta, quindi era sempre guardingo e un po’ schivo, ma con il passare del tempo piano piano diventò un po’ più loquace. Incominciava a scherzare con i suoi colleghi, e piano piano si fece anche delle amicizie.
Incominciava ad imparare ad orientarsi all’interno dell’azienda e a conoscere sempre meglio i colleghi.
C’era un reparto chiamato “Laboratorio” dove venivano fatte delle analisi e delle prove su materiali che servivano per la realizzazione del prodotto finale, e proprio questo laboratorio era a ridosso del piazzale dove c’era la montagna di carbone.
In laboratorio si usavano delle bombolette spray che contenevano una sostanza detta in gergo “polvere bianca” che serviva ad individuare eventuali difetti nei materiali.
Così ogni tanto gli operatori del laboratorio, per pulire le bombolette in modo che non si intasassero, spruzzavano questa polvere sui pezzi di carbone che erano lì, a portata di mano.
Un giorno, il mitico Marieto “maresciallo” fu mandato da Joani con la carriola a prendere un po’ di carbone.
Arrivato in prossimità del deposito, fece una smorfia di stupore e di sgomento. Restò per alcuni minuti fermo, impietrito davanti alla montagna di carbone, come se avesse visto qualche cosa di anomalo.
Quando si riebbe, lasciò lì la carriola e, veloce come un folletto, si diresse verso la porta d’entrata del laboratorio, l’aprì e tutto trafelato si diresse nella sala analisi dove trovò "Kiki" un collega anche lui un po’ burlone, come “l’orso”, al quale quasi balbettando chiese spiegazioni sul motivo per cui  fuori, nella montagna di carbone, ci fossero parecchi pezzi di colore bianco.
Kiki, che di esperienze di queste cose ne aveva fatte a camionate, senza battere ciglio e con tutta la sua calma , spiegò a Marieto “maresciallo” che, in mattinata, aveva visto arrivare un piccolo camion che aveva scaricato questo tipo di carbone e che aveva sentito parlare l’autista con il magazziniere che dicevano che si trattava di un nuovo tipo di carbone che arrivava dalla Siberia con un alto contenuto calorico quando arrivava a contatto con il fuoco.
Marieto però chiese il perché questo carbone fosse bianco.
Kiki sempre pronto a certe domande rispose un po’ seccato:
"S’el vien dala Siberia votu ch’el sia verde? Te lo se che la zé tuto bianco!"
Marieto, ancora più sbalordito e stupefatto per la nuova scoperta, fece un cenno con la testa e chiese a Kiki se poteva prendere un paio di pezzi per provarlo nella stufa della sabbiatrice. Ricevuto dall’intelocutore il benestare, usci brontolando e gesticolando, sbattendo la porta senza neanche salutare.
Marieto sparì come un fulmine, diretto di corsa verso la carriola parcheggiata vicino al carbone, e in pochi attimi caricò la carriola quasi zeppa di carbone normale per poi metterci sopra, adagiandoli piano piano, 3 - 4 pezzi di carbone siberiano. Riprese la carriola per i manici e, tutto soddisfatto e fiero, si recò al proprio posto di lavoro per comunicare la scoperta fatta anche agli altri colleghi. Arrivato presso la baracca dove era situata la sabbiatrice, raccontò subito ai suoi colleghi “già avvertiti dal Kiki” quello che poco prima aveva scoperto. Tutto agitato, prese un pezzo di carbone bianco e lo gettò dentro la stufa, impaziente di sentire se il calore che emanava era molto più intenso  di quello prodotto dal carbone normale.
Lì vicino c’era un altro fabbricato: era l’ufficio di Piero Tisato,  responsabile del magazzino ferrosi lamiere di vario spessore, tubi di vari diametri , ecc.., il quale aveva assistito al racconto del Maresciallo.
Piero subito confermò che quel tipo di carbone bianco, già testato da lui, era proprio un portento perché all’interno del suo fabbricato la sua stufa era stata deformata dal grande calore emanato da questo carbone. Il Maresciallo, tutto contento della sua scoperta, incominciò a raccontare in giro del suo nuovo ritrovato.
Tutti però avevano capito, tranne lui, della burla di cui era stato vittima, ma tutti stettero al gioco.
Cosí si continuò a colorare di bianco i pezzi di carbone e addirittura, poi, qualche responsabile si prestò al gioco e fece al Maresciallo un permesso speciale intestato proprio a lui per il prelievo del  carbone.
Un giorno qualcuno, forse il Kiki, colorò anche dei pezzi di lingotti con la polvere bianca e furono poi  gettati sopra il mucchio di carbone All’arrivo del Maresciallo con la sua carriola, vennero caricati anche quei pezzi e  gettati nella stufa, ma dopo una settimana erano ancora lì, tali e quali.
La domanda che venne spontanea al Maresciallo, nel vedere che quei pezzi di “carbone” rimanevano sempre gli stessi, fu:
Ma varda, come che la sia che l’é così resistente sto carbon bianco? 
La risposta pronta fu data da Joani:
Quel carbon el ga dentro dei minerali speciali che fa si ch’el dure anca par un mese.
Il  Maresciallo credette anche a questo e, dondolando la testa, se ne andò.
Nel  frattempo in un capannone lì vicino si lavorava con materiale di alluminio e c’era un operaio di nome Jigio, che saldava con quel materiale. A Claudio venne un’idea.
Disse a Jigio di far cadere alcune gocce di saldatura per terra e, quando si raffreddarono, le raccolse e se le mise in tasca.
L’indomani Claudio sparse la voce che in quel carbone bianco proveniente dalla Siberia, “dopo l’analisi fatta da Kiki”, si erano trovate tracce e filamenti di argento, e che per questo  se qualcuno nel suo utilizzo avesse trovato tracce d’argento nella cenere, doveva consegnare il ritrovato al Capo Reparto.
Il Maresciallo, ascoltava tutto ció in mezzo ad un gruppetto di operai, senza dire una parola, ma dentro la sua testa aveva già capito qual’era la sua prossima mossa: rovistare dentro le ceneri della stufa per vedere se, per caso, anche lì ci fosse qualche traccia di argento fuso.
Infatti il giorno dopo, durante l’ora di pranzo, si diresse verso la sabbiatrice pensando che non ci fosse nessuno nei paraggi,  arrivò alla stufa e  fischiettando per non dare nell’occhio, le gironzolò attorno per quasi 5 minuti poi, visto che non c’era anima viva, si accucciò, aprì il coperchio e, con un’asta di ferro, cercò in mezzo alle braci e alla cenere se per caso ci fosse qualche piccolo pezzo chiaro color argento. Dopo circa 10 minuti di ricerca, dalla stufa cadde un pezzo grigio a forma quasi di moneta con in mezzo una piccola pallina, poi un altro e un altro ancora. Il maresciallo stava perdendo gli occhi talmente li sgranava dallo stupore: era in quel momento talmente agitato che non riusciva a stare fermo con i piedi, continuava a saltellare con piccolissimi passetti di qualche centimetro, la sua testa girava di qua e di là come una trottola per  controllare che nessuno avesse visto o venisse a disturbarlo. Il suo volto, quasi bruciato dal  calore che emanava la stufa, era diventato talmente rosso come fosse rimasto al sole per una giornata intera.
Quando i pezzi grigi  furono raffreddati il Maresciallo si chinò e, come un fulmine, li prese tutti e tre e se li mise in tasca. Poi facendo finta di niente, fischiettando per non insospettire i suoi colleghi se ne andò,  ma incrociò Joani il quale rimase di stucco nel vedere il Maresciallo con la faccia completamente rossa che gli chiese:
Cossa ghetu fato che te si tuto roan?
A tale domanda il maresciallo si giustificò dicendo che si era addormentato vicino alla stufa.
Joani  però era sicuro che il maresciallo  aveva raccontato una balla e cosi l’indomani, a stufa spenta, cercò dentro la cenere le piccole medaglie grigie che lui aveva appositamente messo due giorni prima, rovistò per circa mezz’ora, inutilmente perché le medagliette erano già sparite. Fu così che capì che il Maresciallo era passato prima di lui.
Il giorno dopo, a fine giornata, il Maresciallo fu pedinato da Joani e da Toni e fu visto entrare in una gioielleria nei pressi  di Santorso. Uscì  dopo circa 15 minuti, serio, tenebroso e scuro in volto, come avesse avuto una brutta notizia.
Il giorno seguente arrivò sul posto di lavoro serio, con lo sguardo basso e senza nemmeno degnarsi di dare il buongiorno ai suoi colleghi, sembrava volesse schivare domande indiscrete. Mogio e pensieroso andò verso la sabbiatrice dondolando sulle sue gambe, passo dopo passo.
Sembrava arrabbiato con qualcuno, serio, lunatico e di poche parole diverso dagli altri giorni; fu così che Joani ruppe il ghiaccio e gli chiese cosa fosse successo, ma dalla bocca del Maresciallo non usci neanche un piccolo suono.
I due colleghi cercarono, in qualche maniera, di sapere cosa gli fosse successo, cercarono anche di buttare lì una frase del tipo:
Marieto, a gavemo sentio che nel carbon bianco ghe xera de le vene de argento. Ti par caso setu  gnente?
Il Maresciallo era irremovibile, era ermetico come un vasetto di marmellata fatta in casa dopo la bollitura.
Passarono i giorni, le settimane, finché un giorno qualcuno che aveva un po’ di tempo si recò alla gioielleria nei pressi di Santorso per chiedere se era passato di lì un personaggio con delle medagliette grigie come l’argento.
Il gestore della gioielleria confessò ridendo  che, qualche tempo prima, era passato un tipo un po’ strano con tre medagliette, dicendo che le aveva trovate dentro una stufa e che secondo lui doveva essere argento, perché era colato da pezzi di carbone bianco proveniente dalla Siberia che avevano bruciato dentro la stufa.
Poi il gestore  scosse  la testa e con un sorriso disse:
A go sercà de stomegarlo el meno possibile, ma lu el zera proprio convinto che fusse argento.
Ancora oggi, quando si incrocia il Maresciallo, viene spontaneo chiedergli:
“Ehi Maresciallo ... e alòra ... el carbòn bianco ... scàldelo?                                                                                                     

Nico Sartori


9 commenti:

  1. Gino de Giani Minai5 aprile 2013 alle ore 13:32

    Ciao Claudio "Menara"

    Veramente una storia divertente, da leggere tutto di un fiato, tempi in cui in fabbrica ci si poteva anche divertire, altri tempi...purtroppo.

    Speriamo tornino!!!

    A Bientot Gino

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    1. vedrai come è bello lavorare con piacere, in una fabbrica di sogno, tutta luce e libertà...(Enzo jannacci- Vincenzina e la fabbrica)

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  2. Bravo Nico per aver trasmesso ai posteri questa storia vera e incredibile,
    il Pittore...

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    1. Pittore ti voglio parlare, magari metendo i piè soto la tola.
      Grazie, e si è proprio quello che ho voluto fare, trasmettere i bei tempi quando a lavorare si andava volentieri, è c'erano anche dei momenti nei quali ci si divertiva. Proprio bei tempi

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  3. Ciao Nico, come sempre le tue storie sono divertentissime, da ammirare anche la capacità dei colleghi di fabbrica a tenere in piedi lo scherzo sino alla fine!!!Salutoni Floriana

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  4. Si si Floriana, erano tempi ben diversi da quelli di oggi, pensa che in quei periodi mi divertivo anche ad andare a lavorare, oggi invece.................

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  5. anche a Nico bravo--------------ti ricordo nel cortile della scuola----------------questo blog fa da colla fra tutti quelli che sono andati via dal paese o no? è bello anche questo

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    1. Forse, anzi sicuramente, visto che lo dici ti ricordi di me nel cortile della scuola, ma io non posso ricordarmi di te con il nome cosi camuffato. grazie cmq

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  6. Nico, ma cossa ghetu fato nel cortile della scola par essere ricordà dopo tanto tempo....

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