[Gianni Spagnolo © 23526]
El prosàch è sempre stato un accessorio indispensabile nella nostra civiltà rurale montanara; permetteva il trasporto di attrezzi, alimenti e generi personali vari scaricandone il peso sulle spalle. Fino agli inizi dello scorso secolo era praticamente un sacco da portare sulla schiena, legato con un solo spallaccio, messo a bandoliera. Così lo esplicita anche il suo nome nell’antica lingua: prosàch, rusàch; rucksack in tedesco, sacco da schiena nella traduzione letterale. El prosàch serviva per i trasporti di lungo raggio, avendo una capacità limitata e una certa scomodità d’uso, legata alla concentrazione del peso su una spalla e alla sudorazione che causava sulla schiena, pur consentendo ampia libertà di movimento. Perciò gli era spesso preferita la gerla, più capiente e confortevole, oltre che fabbricabile con elementi naturali disponibili in natura. Per contro, la gerla costringeva ad una andatura eretta e rigida.
Fu la Grande Guerra a rivoluzionare il concetto introducendo lo zaino militare a due spallacci imbottiti e regolabili, fatto di tela pesante ed impermeabile, con basto distanziatore e tasconi esterni. Cambiò allora anche il nome, non più l’arcaico prosàch, ma il più moderno termine italico di: zaino, trasformato in xàino alla nostrana.
Mio padre continuò comunque a chiamare prosàch o rusàch tutto quell’armamentario di zaini militari di vaie epoche e fogge che avevamo in casa. Quello cascante a pera, ormai ingiallito, di mio nonno, il suo, che a me pareva enorme, da alpino; svariati tascapani adattati alla bisogna. Il mio primo zaino fu appunto un tascapane militare che mio padre modificò ricavandone due spallacci dalla bandoliera. Era piccolo e conformato alla mia taglia e ne andai subito fiero: finalmente anch’io avevo il mio prosàch! El prosàch, carimìe, al jera roba da òmeni. Ancamassa!
Da noi l’utilizzo prevalente del prosàch era per andare a lègne. Per questo, associati allo zaino, ho sempre visto i relativi attrezzi e accessori: sòghe, sogàti, caène, stcione e naeje. L’accoppiata di zaino e corde, appesa alle travi del bàito, era una icona della mia fanciullezza da ben prima che divenisse ricorrente quando iniziai ad arrampicare in montagna. Sul monte ci si doveva muovere con lo zaino, era un dovere! Impensabile recarsi in montagna senza zaino e coi brassi a pendolòn; sarebbe stato equivalente al nar in volta a lolòn, senza scopo. Muoversi senza scopo, stiàni, era considerato un delitto. Quindi zaino affardellato di corde e stcionamìnti, il segòn a bandoliera e in man el menaròto, o almanco on palo.
Anche scendere da montagna con le man de picolòn era considerato disdicevole. Infatti bisognava munirsi di una stanghetta, di un cimale, o almanco di una rama per i boce, da trascinare a casa con sé. Tanto, in dò ogni santo juta! un senso di compimento, di un dovere assolto. Era così!
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