giovedì 1 dicembre 2022

Riusciranno a dipanare la matassa?

 

Data la carenza di medici, la Regione Veneto ha fatto tutto quel che poteva per aumentare il contingente di medici ammessi ai corsi di formazione specifica in medicina generale. Infatti, il numero di posti messi a bando nel triennio 2021-2024 risulta “più che triplicato rispetto al triennio 2020-2023, passando da 128 a 433 posti”. In particolare, “rispetto alle 85 borse di studio ex bando ordinario attribuite al Veneto nel 2020 si è passati alle 240 previste nel 2021, a cui ne sono state aggiunte ulteriori 66, grazie ai fondi messi a disposizione dal Pnrr per un totale di 306 borse di studio”. E anche il contingente ex Decreto Calabria “è stato sensibilmente aumentato, passando dagli 80 posti del 2020 ai 127 assegnati per il 2021”. Lo spiega il direttore della direzione Sanità e Sociale della Regione Veneto, Luciano Flor, a fronte dell’allarme sulla carenza di medici, nel giorno in cui le opposizioni tornano all’attacco accusando la Regione di non fare abbastanza.

“La carenza di medici è una criticità che investe l’intero territorio nazionale causata da un’errata programmazione a livello nazionale, che ha determinato il cosiddetto imbuto formativo”. Situazione a cui “si sono aggiunti gli effetti dell’emergenza Covid 19 prima, e del post pandemia poi, determinando criticità assistenziali e l’adozione di normative specifiche temporanee non sempre coerenti con il contesto normativo generale e con distorsioni a livello di mercato del lavoro”, conclude Flor.

Il 2023 e il 2024 saranno gli anni-record per numero di medici di medicina generale operanti sul territorio veneto che lasceranno l’attività lavorativa per andare in pensione. Un fenomeno che, guardando nel lungo periodo, porterà in meno di quindici anni ad una fuoriuscita di oltre 1.900 professionisti. A questo si aggiunge l’evoluzione demografica che vedrà diminuire in termini assoluti la popolazione veneta ma con un aumento degli over 75 (dal 12,3% del 2021 al 17,7% nel 2041). Ad ampliarsi sarà anche la fascia 65-74 che passerà dall’11,5% del 2021 al 16% nel 2041. Si tratta di cambiamenti demografici che avranno conseguenze in diversi ambiti sanitari. E sicuramente nella richiesta di prestazioni di medicina generale.

Questi sono alcuni dei dati salienti dello studio commissionato dal  gruppo consiliare regionale del Partito Democratico e dedicato ai medici di medicina generale in Veneto. Un lavoro di elaborazione dati, realizzato dai ricercatori Stefano Dal Prà Caputo e Francesco Peron, che è stato illustrato, con un focus riguardante il vicentino, in occasione di una conferenza stampa.

Tra i dati salienti riguardanti i territori delle due Ulss vicentine, quello relativo all’età dei medici di medicina generale. Su un totale di 540, quelli under 55 (263) rappresentano il 48,7% mentre gli over 55 (277) sono il 51,3%. Si stima che il totale dei medici di medicina generale pensionandi in Veneto tra il 2021 e il 2035 sarà di 1921, di cui 283 in Provincia di Vicenza. E ancora: dal 2001 al 2021 il numero degli abitanti in Provincia di Vicenza è cresciuto passando da 794.977 a 852.861 e la popolazione over 65 è arrivata ad essere il 22,8% del totale.

Tra le altre cifre di rilievo, la presenza nel vicentino di 132 zone carenti, seconda area veneta in negativo dopo quella veronese.

Tra le misure in grado di garantire un adeguato turn over c’è quella legata agli investimenti sul fronte della formazione dei medici di medicina generale e dunque alle borse. Ma anche in questo caso il Veneto appare in forte ritardo. Addirittura all’ultimo posto se si considera il criterio del numero di borse di formazione per ogni 1.000 abitanti.

L’attacco di Possamai

Il giudizio del capogruppo, Giacomo Possamai, è netto: “Questo scenario è il frutto di una mancata programmazione della Regione. Quando si poteva ottenere quel che si chiedeva, il Veneto non ha chiesto abbastanza. E quando la coperta è diventata corta, e si otteneva dallo Stato meno di quel che serviva, alcune Regioni hanno scelto di mettere risorse proprie. Ora siamo davanti ad una tempesta perfetta, con il rischio enorme di rottura del sistema di medicina generale entro i prossimi due-tre anni”.

Possamai ha quindi delineato le proposte dei Democratici: “Chiediamo innanzitutto investimenti per rafforzare il fronte degli ambulatori e quello del personale di segreteria e infermieristico, a sostegno dei medici, per agevolare l’attivazione di medicine di gruppo, medicine di gruppo integrate e micro-team. Ma fanno parte del pacchetto anche gli incentivi ai medici che lavorano e scelgono di lavorare in aree disagiate, assieme alla predisposizione di un adeguato numero di borse per la formazione dei MMG (almeno 600 nei prossimi due anni, 1200 nei prossimi 5)”.

Tra gli altri interventi ritenuti indispensabili dal PD, gli stanziamenti a favore della telemedicina e dell’ammodernamento tecnologico; l’introduzione della specializzazione universitaria, rendendo maggiormente attrattiva la professione, dotandola di margini più ampi in termini di possibilità di carriera; l’accelerazione nell’attivazione delle Case di Comunità̀ e nella riorganizzazione del sistema delle cure primarie.


La Giunta regionale, su proposta dell’Assessore alla Sanità, Manuela Lanzarin, ha approvato un ulteriore aggiornamento del proprio Piano di Sanità Pubblica dal titolo “Aggiornamento e Rimodulazione delle Strategie di Gestione e Controllo della Pandemia Covid-19”.

Il documento parte dalla premessa che “l’attuale scenario epidemiologico è caratterizzato da un aumento dei casi di Sars-Cov-2, con l’occupazione dei posti letto che mostra un leggero aumento, senza peraltro evidenziare allo stato attuale particolari criticità. In questo momento si sta anche registrando un rapido aumento dei virus respiratori influenzali.

Si tratta di una fase epidemiologica in evoluzione, che richiede quindi un attento monitoraggio anche per anticipare la comparsa o circolazione di possibili varianti più pericolose. “E’ quindi importante e raccomandato – scrivono i tecnici della Prevenzione regionale – utilizzare la mascherina nelle occasioni di assembramento e nei luoghi chiusi per proteggersi dai virus circolanti”.

Come negli scorsi due anni – fa notare la Lanzarin – per essere sempre al passo con l’evoluzione della situazione – aggiorniamo la nostra pianificazione, rendendola rispondente al massimo possibile alla situazione contingente. Si tratta di un lavoro soprattutto di prevenzione, attuato attraverso comportamenti coscienziosi, consigliati alla gente comune, e un’organizzazione di screening in ospedali e case di riposo”.

Per le strutture ospedaliere è previsto il rafforzamento dello screening e sorveglianza degli operatori sanitari: almeno un test ogni 10 giorni per gli operatori che svolgono attività nei contesti a maggior rischio; raccomandato un test ogni 5 giorni per gli operatori che svolgono assistenza diretta al paziente nei reparti nei quali è stata riscontrata positività nel personale negli ultimi 10 giorni; almeno un test ogni 20 giorni per gli operatori che svolgono attività di assistenza diretta in reparti o servizi NON Covid 19.

Per le Strutture Residenziali per Anziani è previsto un test ogni 10 giorni per gli operatori che svolgono assistenza diretta agli ospiti; un testo ogni 10 giorni viene eseguito anche per gli ospiti.

E’ inoltre prevista un’ulteriore attenzione alla sfera affettiva da parte delle strutture, con la possibilità di coinvolgere i famigliari nelle attività di supporto all’ospite e di garantire, in vista delle feste, l’uscita temporanea per i rientri in famiglia. Al rientro dell’ospite, verranno eseguiti due test antigenici, di cui uno al rientro e uno dopo 2-4 giorni.

Il nuovo Piano, infine, mantiene anche per la stagione in corso una sorveglianza epidemiologica specifica in alcune scuole, in collaborazione con la Scuola di Igiene dell’Università di Padova, per monitorare questo contesto con particolare attenzione.


Accade in Veneto, Regione già ampiamente in vetta alle cronache tutt’altro che edificanti della nostra sofferente sanità locale.

In tutta Italia, e certamente anche in Veneto, decine di infermieri, decidono volutamente, da mesi, stanchi e logorati da una situazione economico-contrattuale esasperante, di dimettersi dalla sanità pubblica e di aderire ad agenzie esterne.

Fin qui potrebbe essere tutto per così dire accettabile, se non accadesse che, di fronte alla sempre più grave voragine di personale (80mila unità in tutta Italia, 4mila nel solo Veneto) aziende sanitarie come quella della provincia di Venezia, la Ussl 3 Serenissima, ma di certo non è la sola, sono costrette a ricorrere a infermieri esterni, che però costano quasi 6mila euro lordi mensili, anziché valorizzare di fatto quelli che hanno “dentro casa”, incentivando economicamente i professionisti che già sono assunti per favorire un fisiologico ricambio con le nuove leve, per creare attrattività dei posti di lavoro, e per evitare così pericolose dimissioni.

Siamo increduli di fronte a realtà sanitarie che da una parte, con la mancata valorizzazione degli operatori sanitari, decidendo di fatto di non retribuire adeguatamente i propri infermieri, li lasciano “scappare via”, favorendo la carenza di personale. Dall’altra parte per coprire le falle, sono costretti a strapagare infermieri interinali.

Così Antonio De Palma, Presidente Nazionale del Nursing Up.

Avete capito bene: mentre un infermiere della sanità pubblica vive oggi quasi sulla soglia della povertà nel nostro Paese, con quei 1780 euro netti, (dati aggiornati della Ragioneria dello Stato), che bastano a mala pena per sopravvivere, vista la contingenza economica attuale, ci sono aziende sanitarie che pagano quasi 6mila euro lordi mensili operatori sanitari esterni, provenienti da fuori regione, per coprire il proprio fabbisogno.

Ecco allora l’atteggiamento incomprensibile delle nostre Regioni e delle aziende sanitarie: tappare i buchi, invece di porre le basi per sanare in modo definitivo le falle interne di una barca che perde acqua da tutte le parti, invece soprattutto di rasserenare, con i fatti, gli animi di “una ciurma” che, arrivata al limite, decide di lasciare l’imbarcazione, riducendo all’osso il personale rimanente e aggravando a dismisura i compiti quotidiani di questi ultimi.

Accade così che le aziende sanitarie come quella veneta potrebbero alla fine essere “costrette”, chissà, ironia della sorte, non ne siamo certi ma potrebbe essere possibile, a ricorrere, in alcuni casi, a quegli stessi infermieri che si erano dimessi che hanno aderito ad agenzie esterne, pagandoli però il triplo (nella maggior parte dei casi gli interinali a cui si ricorre vengono però da fuori regione).

Certo, tornando al caso di chi decide di dimettersi dalla sanità pubblica per aderire ad agenzie esterne, lavorando da libero professionista, le garanzie non sono quelle che gli stessi avrebbero con un rapporto di lavoro dipendente, ma una reale gratificazione economica, lo abbiamo già detto, in un momento particolare come questo, ben giustifica la decisione di chi, in ogni parte d’Italia, lascia il lavoro da dipendente pubblico, per rientrare dalla finestra come libero professionista o attraverso una cooperativa.

E come potremmo commentare tutto questo, quando invece, basterebbe incentivare economicamente le forze di cui già disponiamo, evitando così che i nostri migliori professionisti siano costretti a guardare altrove?

Insomma, qui invece di realizzare politiche sanitarie coerenti con i bisogni del sistema, invece di  mettere le nostre migliori eccellenze nella condizioni di esprimersi al meglio, innanzitutto valorizzando economicamente i principali attori, cioè gli operatori sanitari, e quindi puntando senza mezzi termini sulle migliori figure di cui già disponiamo, si adottano atteggiamenti noncuranti verso qualsiasi richiesta di considerazione e riconoscimento che, incredibilmente, prima costringono i nostri professionisti a correre via dalle strutture sanitarie pubbliche, e poi tendono a mettere toppe sul foro creato, nel tentativo di porre rimedio alla copiosa falla.

Certo è che gli infermieri, le figure chiave del presente e del futuro della nostra sanità, arrivati all’acme della sopportazione, con le enormi responsabilità che sorreggono quotidianamente sulle proprie spalle, decidono di dare addirittura le dimissioni in massa dalla sanità pubblica, andando ad aprire, come spesso accade, partita iva, o unendosi ad agenzie esterne.

I pronto soccorsi e gli altri reparti nevralgici degli ospedali vengono così lasciati in balìa delle onde, nelle mani di quei pochi coraggiosi che decidono di rimanere in un mare in tempesta, tra turni massacranti, stipendi appena sufficienti a reggere il mutato costo della vita, violenze fisiche e psicologiche perpetrate ogni giorno da cittadini che li trasformano, nel pericoloso vortice di una mala cultura, in un avvilente capro espiatorio, addossandogli le colpe delle carenze strutturali degli ospedali.

E gli esempi sotto i nostri occhi, che arrivano da svariate aziende sanitarie distribuite sul territorio nazionale, ahimè dimostra che al peggio non c’è mai fine, continua De Palma.

In questo ultimo caso, siamo, infatti, di fronte a quella stessa Regione Veneto che, per sopperire alla carenza di personale, ha deciso di creare, in barba alla credibilità e alle competenze degli infermieri, le figure “surrogate” dei SuperOss, quella stessa Regione Veneto che, da un lato lascia scappare i propri professionisti in cerca di valorizzazione, dall’altro cerca ed assume infermieri extracomunitari, come ad esempio accade nella marca trevigiana, ricorrendo a operatori sanitari che, con tutto il rispetto, troppo spesso non parlano la nostra lingua, e in troppi casi non posseggono i curricula formativi e le medesime competenze professionali dei colleghi costretti ad andar via.

La realtà a cui siamo di fronte ci preoccupa non poco: le dimissioni di infermieri, medici e altri operatori negli ultimi mesi rappresentano una triste piaga che la politica non si decide a sanare : più di duemila dimissioni in sei mesi, nel 2021. Sono i numeri della fuga degli operatori sanitari dal servizio pubblico. Sono i dati allarmanti del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, aggiornati al secondo semestre dello scorso anno.

Ecco la nostra sanità, che sempre più spesso come un treno privo di conducente ed a velocità sostenuta, corre pericolosamente su binari senza una solida base, mettendo a repentaglio l’incolumità di tutti i passeggeri», chiosa De Palma.



 

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