E' un po' lungo e forse per molti anche noioso, ma vi posso assicurare che queste "realtà" esistevano veramente!
I miei genitori le hanno vissute e... raccontate.
Sarebbe interessante che qualcuno che percepisce il RDC con infinite assurde pretese o chi lamenta di essere disoccupato, ma non è disponibile ad accettare di lavorare il sabato, la domenica o in turno... lo leggesse!
Creazzo (Vicenza) Italia 1958
Giuseppe Rigoni racconta un viaggio migratorio esemplare degli anni Cinquanta/Sessanta del Novecento. Giovanissimo, decide di lasciare il paese natale in provincia di Vicenza e di trasferirsi in Svizzera, meta prediletta dell’emigrazione economica italiana in quel periodo. La destinazione è la cittadina di Soletta, vicino Berna, dove una sorella si è trasferita a vivere e dove è insediata una folta comunità di italiani. Giuseppe deve prendere servizio come aiuto barbiere, una qualifica che ha preso in fretta e furia, essendo giovanissimo, prima di partire. Le tappe del lungo viaggio da Vicenza a Soletta sono vissute con le difficoltà e gli stati d’animo che hanno accompagnato milioni di italiani oltre frontiera: le visite mediche, i problemi con la lingua, lo spaesamento, i pochi spiccioli in tasca, la fame, il freddo, l’ostilità delle persone incontrate sul proprio cammino, ma anche, a fare da contrappeso, l’umanità di qualche angelo custode ben posizionato lungo la strada.
Un giorno passarono a trovarci dei parenti lontani di Asiago, e tra di loro c'era una ragazza coetanea di mia sorella Solidea, quella che si era sposata per prima, e parlando del più e del meno tra di loro, si venne a sapere che in Svizzera c'era molto lavoro nelle fabbriche, ed anche ben pagato. Mia sorella maggiore e mio cognato avevano contratto dei debiti per costruirsi due stanze in periferia del paese, così parlando le dissero che erano disponibili ad emigrare, se questa parente avesse trovato loro un posto di lavoro, il tutto d’accordo con mio cognato Bruno; con loro avrei dovuto partire anch’io, ma le cose andarono poi diversamente. Dopo un po’ di tempo parti per prima mia sorella Solidea, poi toccò al cognato Bruno, ed alla fine arrivò anche il mio turno. Per me non fu possibile trovare un posto in fabbrica, in quanto avevo solo diciassette anni, così fui mandato in fretta e furia a fare un piccolo tirocinio per fare il barbiere, e con qualche raccomandazione ottenni un attestato che mi servì per ottenere un permesso di soggiorno. Le mie mani però non erano quelle di un barbiere, ma bensì quelle di un contadino; ma la cosa contava poco, l’importante era andarmene via da casa, il resto poi si sarebbe sistemato in qualche modo, e dietro questa frase si nascondevano tutte le mie incognite, quelle di un ragazzo di diciassette anni, che voleva ad ogni costo uscire prematuramente dal nido, ma non sapeva ancora come sbattere le ali.
Chiasso, Svizzera, 1958
I primi passi di Giuseppe verso la sua nuova vita di emigrante sono piuttosto incerti. È giovane e poco esperto del mondo, pasticcia sui treni da prendere per raggiungere Berna, ma alla fine trova le risorse per cavarsela e andare avanti.
Verso sera arrivammo alla periferia di Milano, ed io avevo già mangiato i miei panini, in tasca non avevo nemmeno una lira, sentendo che mi avvicinavo a Milano chiesi un'informazione ad un controllore, che a me sembrava un po’ meno distratto di quello che mi aveva bucato il biglietto subito dopo la partenza. E fu con lui che incominciarono le sorprese, il controllore mi disse subito che il biglietto era sbagliato, che indicava Berna come destinazione finale, ma diceva anche che dovevo passare per Chiasso via Gottardo, mentre dovevo passare per il Sempione via Briga, che cosa potevo fare? Basta pagare una piccola differenza mi disse il controllore, ma io non avevo una lira, deve scendere allora mi disse, andare alla stazione a fare la variazione del biglietto, oppure salire su un treno per Chiasso e poi passare per le linee interne fino ad arrivare a Lucerna e poi a Berna. Non avendo soldi per pagare la differenza, decisi di scendere, a cercare uno sportello dove potevo andarmi a spiegare, intanto persi la coincidenza, i treni non aspettano gli imbecilli di nessuna nazionalità, mi disse un prepotente alla stazione, se non vuole pagare niente non le resta che salire e prendere il treno per Chiasso, ed io non sapevo certo cosa fare, allora girai e rigirai per la stazione di Milano, non avevo il coraggio di salire in nessun treno, nemmeno uno che mi riportasse indietro a Vicenza. In questo mio trastullo passai il pomeriggio ed anche la sera, intanto cercai una sala d’aspetto dove andarmi a sedere, mi guardavo attorno osservando il degrado che mai avevo conosciuto, c'era della gente strana che si aggirava là dentro, barboni disperati, che stavano certo peggio di me, la fame in tanto saliva, ed io non avevo niente da mettere sotto i denti, il treno per Chiasso partiva alle undici, e la stanchezza mi aveva raggiunto a furia di gironzolare. Il crollo nervoso fece il resto, decisi di sedermi allora su una grossa panca della sala d’aspetto della stazione di Milano, dentro c'erano dei lunghi panconi di legno adatti anche per dormire, nelle pareti appesi qua e là dei manifesti per la reclame di qualche prodotto, in giro la gente era circospetta, e tutti si guardavano attorno con diffidenza, gli sguardi di quelle persone, le loro storie personali, furono per molto tempo un mio cruccio da portarmi dentro.
Nel sonno gli incubi si sormontavano, e subito dopo mi svegliai in un sussulto, forse avevo percepito la vicinanza di qualcuno, così sgranai gli occhi all’improvviso, come i fari delle barche che ispezionano la laguna nelle notti di nebbia, di fronte a me c'erano due tipacci, uno dei quali teneva un coltello a serramanico in mano. Erano lì che mi osservavano, come un gatto osserva le lucertole ferite prima di dare loro il morso finale, in una frazione di secondo presi la valigia di cartone e corsi all’impazzata verso l’uscita, e loro si misero a gridarmi dietro per spaventarmi, forse era solo questo che volevano, resta il fatto che là dentro decisi di non entrarci per lungo tempo. Alle dieci e trenta salii sul treno che doveva partire per Chiasso, il viaggio fu breve, era la prima volta che salivo su un treno di notte, e la cosa mi faceva un certo effetto, ma il viaggio fu breve, e alla stazione di Chiasso mi fecero scendere per la visita medica.
Chiasso, Svizzera, 1958
Al confine della Svizzera, Giuseppe viene sottoposto alla visita medica di rito per tutti i migranti che entravano nel paese per lavorare e vivere.
Era la prima volta che affrontavo una simile avventura, e una volta sceso dal treno mi diressi verso la sala della stazione, e lì qualcuno mi intercettò, e mi diresse verso la stanza dove facevano le visite ed il controllo medico, la stanza era affollata da gente che venivano da tutte le regioni d’Italia, in prevalenza era gente del sud, chiassosi e sempre pronti a protestare, quasi provenissero dallo stato più organizzato d’Europa. Nella stanza mancava quasi l’ossigeno tanto eravamo stipati, gli svizzeri separarono gli uomini dalle donne, e, a due a due, ci spogliarono nudi per la visita di rito, i raggi ai polmoni ed altri controlli. Erano ormai arrivate le due di notte, mentre stavo lì impalato con tanto freddo, quando all’improvviso si fece strada un pensiero nella mia mente, che già qualche ora prima mi aveva assalito, come una freccia attraverso la testa, ed all’improvviso incominciai a sudare freddo, anche se ero nudo, si trattava di questo; la mia partenza era avvenuta al mattino alle undici da Vicenza, ed il mio arrivo a Berna era previsto per le undici di sera, in quel tempo i treni erano meno veloci di adesso. La cosa grave però, non era il grosso ritardo che avevo accumulato, io del tempo da perdere ne avevo quanto volevo, il guaio era che a Berna alle undici ad aspettarmi doveva esserci mia sorella, ed io ero ben lontano dall’arrivare, in tutta un’altra linea ferroviaria, ed in un altro posto di frontiera, senza soldi, e senza la possibilità di comunicare. Sudavo freddo e come un automa, obbedivo agli ordini che ricevevo, con un secondo incubo che si aggirava per la testa, (e se mi trovano qualche malattia?) che cosa farò? Dove andrò a finire? Mi rimanderanno indietro? E se lo faranno... che figura farò con la gente del paese? Dopo un attimo, a visita ultimata, mi dissero di attendere e di rivestirmi, l’attesa fu lunga e piena di ansie, poi alla fine mi dissero che potevo proseguire, e alle quattro di mattina mi restituirono il passaporto. La signora che me lo restituì, fece un commento, non hai ancora compiuto diciotto anni? Sì le risposi, ero partito con un passaporto dei minori firmato da mio padre, lui del sottoscritto ha sempre avuto molta fiducia, e la donna commentò;... (questi Italiani...) e dalle sue frasi appresi che non approvava il fatto che i genitori mi avessero lasciato andare già cosi giovane, quasi fossero dei depravati, ed io ne soffrii parecchio, la mia famiglia poteva essere piena di problemi, ma sull’etica e la moralità dei miei genitori, ero certo che non avrei trovato paragoni in tutto il resto del mondo. Feci silenzio, e mi incamminai lungo i marciapiedi della stazione, lì parlavano ancora tutti l’Italiano, anche se con un accento un poco diverso, con calma mi informai sul percorso che dovevo fare per non dover pagare nessun supplemento, da Chiasso dovevo seguire sempre la direzione di Lucerna, e poi da lì avrei dovuto proseguire per Berna, e poi proseguire verso la destinazione finale che era la città di SOLOTHURN, Il mio biglietto però era valido solo fino a Berna. Verso le quattro del mattino partii con il treno ed a fianco del biglietto mi avevano messo una nota scritta, che spiegava il motivo del mio dirottamento su quelle linee secondarie, i controllori svizzeri controllavano il tutto e borbottavano facendo dei commenti sulla incapacità dei loro colleghi ITALIANI, nel formulare l’itinerario nel biglietto, ma questo per me contava ben poco, loro commentavano cose che io non comprendevo, e poi facevano l’ennesimo buco e se ne andavano lasciandomi proseguire. Il treno da lì in poi non era più diretto, ma si fermava ad ogni stazione, le persone che salivano e scendevano erano poche, ma in compenso c'era un gran trambusto ad ogni fermata, si caricavano in un vagone particolare, i bidoni del latte, ogni tanto mi facevano scendere, e poi mi facevano salire in un’altra linea che passava tra le montagne, era piacevole osservare quei panorami lindi, con le cascate bianche che tanto li caratterizzavano, ma l’ansia mi assaliva ogni tanto assieme alla fame.
Berna, Svizzera, 1958
Giuseppe arriva a Berna alla fine di un viaggio estenuante. Deve compiere però un ultimo sforzo, raggiungere la cittadina di Soletta (Solothurn la chiama col nome tedesco) dove vive la sorella e che rappresenta la tappa finale della sua emigrazione. Il problema è che si ritrova senza soldi e non riesce a comunicare con nessuno. È una situazione apparentemente disperata, finché non arriva un aiuto imprevisto.
Arrivai a Berna, alle dieci e trenta della sera del secondo giorno di viaggio, senza soldi, e senza sapere che cosa fare, avevo bisogno di soldi per poter comperarmi il biglietto per arrivare a SOLOTHURN, speravo sempre che qualcuno fosse ancora li ad aspettarmi, purtroppo le cose erano andate in altro modo. Pian piano mi incamminai verso l’uscita della stazione, seguendo il gregge delle persone, in quanto non sapevo leggere le indicazioni in tedesco, e fuori dalla stazione mi fermai. Più volte nella mia vita ho cercato di rivedermi a ritroso com’ero in quel momento, alto e pallido, con grandi occhi neri sgranati, lineamenti dolci, ed una zazzera di capelli ricci e neri come l’ebano, un vero arabo TURCOMANNO visto dagli altri, oppure un Siciliano, chi l’avrebbe mai detto, che ero di origini CIMBRO ASIAGHESI, e con antiche radici ASBURGICHE, nessuno di certo.
Io ero lì fuori dalla stazione che mi guardavo attorno, e nella disperazione facevo la cosa più semplice che istintivamente la disperazione ti aiuta a fare nei momenti tragici della vita.
Pregavo, sì pregavo con l'intensità di chi è disperato, ed ha bisogno che un DIO ci sia in qualche angolo del creato, si chiami esso GEHAV, BUDDA, oppure MAOMETTO, uno di loro insomma, speravo che mi ascoltasse, e imponesse un senso a quell'enorme stordimento, nelle orecchie c'era ancora il sibilo dello stridore delle ruote nei binari sulle curve dentro le valli tra le montagne, il fischio cupo ogni tanto delle locomotive elettriche, e le campanelle delle stazioni che annunciavano l’arrivo e la partenza dei treni. Io ero lì impalato senza parole, con la lingua asciutta in bocca, e gli occhi sgranati, nell’osservare il trambusto dei taxi che si allontanavano, tutti coloro che mi giravano attorno sapevano chiaramente dove andare, e cosa fare, io no, io ero lì come seduto nelle colonne d’Ercole, ai margini del mondo, stavo lì in silenzio con la mente vuota, ed imploravo la MADONNA di Monte BERICO, quella figura mitica, che nel mio inconscio rappresentava la protezione di tutti i disperati sotto il suo ampio mantello, ed io ero ormai fuori da quel mantello, ormai un estraneo, anche per via del mio modo critico di visione delle religioni).
Ad un tratto, come in un miracolo, mi venne di fronte un giovane, era così bello e cosi biondo che quasi mi meravigliava, lui era tutto il contrario del sottoscritto, nero di capelli e tutto arruffato, lui mi guardò e mi disse in tedesco, BIST DU ITALIENER? Non capivo molto, ma gli risposi...: sì, sono Italiano, all’improvviso lui capì che io non sapevo una parole di tedesco, allora mi chiese con accento tedesco, ma parlando in Italiano, che cosa facessi lì impalato, ed io gli risposi che dovevo andare a SOLOTHURN, ma non sapevo come fare, lui allora mi indicò la fermata del trenino che era di fronte alla stazione centrale, e mi disse puoi prendere il trenino laggiù, ma io non mi mossi, e lui mi disse, guarda che devi fare presto perché sei in ritardo, alle undici e venti parte l’ultimo treno, ed io gli risposi che non potevo prendere quel treno, perché sono arrivato con un giorno di ritardo, ed il mio biglietto era valido solo fino a BERNA, doveva venirmi a prendere qualcuno, ma… ed in quel momento le lacrime segnarono il viso come torrenti in piena, e non potei più parlare, lui allora mi prese per mano e mi accompagnò alla stazione del trenino, si avvicinò allo sportello, dove vendevano i biglietti, mi comperò il biglietto e dopo avermi fatto salire mi salutò con la mano dicendomi di scendere all’ultima stazione. Io lo ringraziai e lo salutai dal finestrino come fosse un fratello, non lo rividi mai più, quante volte nella vita ho desiderato d'incontrarlo, chissà ora lui sarà un medico oppure un avvocato, oppure un semplice operaio, ma per me quel ragazzo dai capelli biondi è rimasto impresso nell’anima come una visione divina.
Soletta, Svizzera, 1958
Il tormentato viaggio di Giuseppe dall’Italia alla Svizzera non si è ancora concluso: giunto di notte a destinazione, non ha un posto dove andare a dormire.
A mezzanotte e dieci arrivammo a SOLOTHURN, ed il controllore passò tutte le carrozze avvisando che si doveva scendere tutti. Scesi anch’io con gli altri, e mi incamminai lungo il corridoio sotterraneo che attraversava la stazione e portava fuori di fronte alla stazione delle ferrovie centrali. Quando riemersi e mi trovai la città di fronte, mi guardai un po’ attorno, c'era poca gente in giro ormai; allora mi sedetti in una panchina, ed aprii la valigia di cartone, non certo per cercare dei soldi che non c'erano, e nemmeno per cercare del cibo da mangiare, ma cercavo qualcosa di ben più prezioso, dentro il passaporto avevo messo un biglietto con l’indirizzo di dove dovevo arrivare, e lì successe la tragedia, il biglietto non cera più, forse nel prendere e riprendere il passaporto, quel biglietto mi era caduto, ed io lo avevo perso, che cosa potevo fare adesso? I sudori mi scendevano lungo la schiena, a chi potevo chiedere qualcosa adesso? A nessuno. Frugai allora meglio dentro le tasche e tra i quattro stracci che avevo, ma del biglietto non c'era nessuna traccia... che cosa potevo fare? Nella disperazione potevo solo pregare sperando che qualcuno degli dei che stavano lassù si fosse scomodato, anche se era tardi quella sera, e così fu, mentre io frugavo tra i miei stracci, qualcuno da lontano mi osservava, e dopo un istante si avvicinò, era un omone grande quasi due metri, parlava bene l’Italiano, anche se si capiva che era uno Svizzero. Che fai, mi chiese. Sto cercando una cosa, gli risposi, tra dieci minuti la stazione chiude mi disse, hai un posto dove andare a dormire? No gli risposi, se vuoi puoi andare dentro la sala d’aspetto della stazione, mi disse. Io tra un dieci minuti devo chiudere la porta a chiave, domani mattina riapriranno alle quattro e trenta ed allora potrai uscire, va bene gli risposi, lui mi indicò la sala ed io entrai, fuori pioveva forte, ed almeno lì dentro ero al coperto. Entrai nella sala d’aspetto della stazione, e mi accorsi di non essere solo, dentro c'erano due uomini anziani ed una donna anch’essa anziana; erano anche loro carichi di fagotti, e non avevano certo l’aria dei turisti, ne dedussi subito che la disperazione c'era anche lì, anche se minore che non da noi, mi sedetti in una panca, e subito dopo l’omone col quale avevo parlato assieme poco prima venne e ci chiuse dentro a chiave, io lo osservavo nella penombra delle luci, aveva il viso da uomo buono, e senz’altro nel tollerare che noi si rimanesse là dentro, aveva infranto una regola precisa. Ma lui lo aveva fatto lo stesso, più tardi diventammo amici, lui si chiamava PAUL, ed aveva sposato una donna di Treviso, ed assieme frequentavano la missione, ma in quel momento per me non era nessuno, lui era in quel momento il responsabile della chiusura notturna della stazione, ed io ero un Italiano sconosciuto: Dette due giri di chiave e si allontanò con passi sicuri. I rumori tutto attorno scemavano, era ormai l’una di notte, le luci della stazione una dopo l’altra si spensero, rimasero solo delle luci di posizione lungo i binari principali. Poi calò un silenzio rotto ogni tanto dallo sgusciare di qualche auto, che passava veloce di fronte alla stazione, dentro la sala d’aspetto la luce era spenta, ma non era buio assoluto, una luce fioca filtrava dall’esterno attraverso due grosse finestre sulla parete, i tre ospiti non parlavano, di tanto in tanto qualcuno mugugnava qualcosa di incomprensibile, un altro espettorava di tanto in tanto catarro in abbondanza, ma poi uno alla volta si sistemarono nella penombra, sdraiandosi per poi dormire, uno di loro sistemò con cura i suoi fagotti sotto la testa, in un rito quasi consueto, ed in qualche modo si addormentarono tutti.
Soletta, Svizzera, 1958
Si conclude il lungo viaggio di Giuseppe: tre giorni per giungere dall’Italia alla Svizzera, attraverso numerose peripezie.
Attraversai la piazza fino ad arrivare di fronte alla missione, suonai il campanello e... proprio la Rosa mi chiese: chi sei? Sono Giuseppe, il fratello di Solidea, oh buon Dio... che pasticcio, dove sei stato tutto questo tempo? Qui siamo tutti disperati, avresti dovuto arrivare due giorni fa... lo so, le risposi, per tutta la giornata di ieri ti abbiamo cercato, avvisando perfino la polizia, ma di te nessuna traccia, dove ti eri cacciato? E soprattutto, da dove arrivi? Arrivo da Berna, le dissi, tua sorella questa mattina è partita con il primo treno, per venire a Briga, dove pensava che fossi stato fermato. Ma io non sono passato per Briga, io sono passato per Chiasso, le spiegai che il biglietto era sbagliato, che ero senza soldi e non potevo proseguire su quella linea, e che ero stato costretto a fare una lunga peripezia per poter arrivare. Quant'è che non mangi? Tre giorni, le risposi, oh santo cielo!!! Preparò subito una tazza di caffè latte, con dei biscotti, e se non fosse stato per la vergogna l’avrei inghiottita in un solo sorso; dopo un po’ di tempo mi accompagnarono a casa da mio cognato Bruno, che era una stanza con un cucinino, e due letti messi vicini senza mobili, ed un vecchio divano, una vera reggia… ma per loro era sufficiente, il problema ero io, dove pensavano di mettermi a dormire? Non lo sapevo, mio cognato mi salutò un po’ indispettito, per tutto il trambusto che era successo dietro quel viaggio. Io gli chiesi da mangiare e lui mi diede una banana, era la seconda che la vedevo in vita mia, la prima l’avevo vista mangiare sul treno, nel viaggio per Milano, non sapevo che gusto avesse, ma dopo il primo boccone convenni che era squisita, e dopo la prima ne mangiai altre due. Si discusse allora sul da farsi e verso le nove tornammo giù alla missione, la missione telefonò alla polizia ferroviaria di Briga, perché chiamasse all’altoparlante mia sorella, e le comunicasse di mettersi in contatto con la missione, l’operazione ebbe successo, mia sorella fu avvisata, ed alle due del pomeriggio era già rientrata, noi due andammo ad aspettarla alla stazione del trenino che arrivava da Berna, dove io ero arrivato la notte prima, e pian piano rientrammo a casa.
Il peggio, almeno in apparenza, era passato.
Wangen an der Aare, Svizzera, 1958
L’impatto con il lavoro in Svizzera per il giovane Rigoni non è dei migliori.
Arrivato frastornato dal lungo e complicato viaggio, avrei avuto bisogno di riposarmi, per lo meno psichicamente, ero frustrato al limite della sopportazione, ma dentro il nuovo equilibrio della vita, non c'era tempo per queste cose, alla sera ricevemmo amici ed amiche di mia sorella, erano tutti di Gallio e di Asiago, scoprii solo allora che a SOLOTHURN c'era una grossa comunità di ASIAGHESI, e la nostra famiglia proveniva anche di lassù, il nostro cognome poi, era come una bandiera dell’altopiano di ASIAGO. Tutti gli amici si stiparono dentro l’angusta stanzetta, chi seduto sul letto e chi seduto sulle due uniche sedie, commentavano tutti il mio arrivo scherzando, discutevano poi di lavoro, e della severità con cui veniva affrontato e difeso dalla comunità Svizzera, la puntualità era ferrea, al primo ritardo ammonizione, al secondo multe salate, al terzo c'era sempre il licenziamento, erano tutti terrorizzati, ed anche fieri di questa loro rigidità nell’affrontare il rapporto di lavoro, e questo aumentò subito la mia frustrazione. Il motivo era semplice, ed io lo intuivo nel mio inconscio, io ero sì andato a fare un corso rapido per fare il barbiere, il tutto al fine di poter ottenere un permesso di soggiorno e poter emigrare, ma non mi sentivo affatto preparato professionalmente. Nè tanto meno, mi ero affezionato a quel lavoro, durante tutto il periodo dell’apprendistato, avevo sempre tagliato la barba ai vecchi, a quelli dalla pelle dura, il datore di lavoro mi prendeva spesso in giro, dicendomi che il rasoio non era la falce con cui tagliare l’erba, nè tanto meno la zappa, e questo io lo sapevo, gli altri al contrario, quelli che si erano tanto dati da fare per trovarmi quel lavoro, non lo sapevano. Verso le dieci di sera se ne andarono tutti, ed allora finalmente si parlò tra di noi sul da farsi, il giorno dopo era lunedì, e non si avrebbe dovuto far niente, loro sarebbero andati a lavorare alle sei e trenta, mentre per il solo lunedì, io avrei dovuto restare lì da solo in casa, al martedì presto alla mattino sarei partito poi con il treno per WANGEN AN DER AaRE, ed avrei dovuto presentarmi ad un certo indirizzo con un foglio di accompagnamento, e lì avrei dovuto iniziare a lavorare. Sarei partito al martedì mattina, e rientrato il sabato sera, avrei dovuto mangiare e dormire in famiglia dal barbiere che mi aveva assunto, ed iniziare finalmente lo sviluppo della vita con tranquillità. Tutto sembrava pianificato nei minimi particolari, ma dentro di me c'era l’angoscia dovuta alla mia impreparazione, e dopo aver pianificato tutto decisero che si doveva andare a letto, io ancora non avevo compreso dove avrei dovuto dormire, dentro di me pensavo ad un lettino in un’altra stanza, oppure in un letto pieghevole da mettere nel cucinino, in un posto appartato insomma dove avrei potuto versare in santa pace le ultime lacrime in silenzio, ma la sorpresa arrivò subito, quando mi dissero che avrei dovuto dormire in quel vecchio divano, io sorrisi, che cosa potevo fare? Era già troppo quello che avevano fatto per me, in fondo loro pensavano che io mi sarei sistemato a casa del barbiere, e che mi avrebbero ospitato solo di tanto in tanto alla domenica per qualche visita.
Io tentai di dormire quella notte, ma ero troppo agitato, in certi momenti sudavo freddo per quello che mi aspettava, in altri momenti ero gelato, per il fatto che le coperte mi cadevano giù dal divano, e in tutta quella agitazione arrivò il mattino, io mi sentivo stremato ed avevo le ossa rotte, durante la notte pensavo alla vecchia casa di campagna, io dormivo in un lettone nel granaio, che era uno stanzone di cinquanta metri quadrati, durante la notte a farmi compagnia cerano sempre i topi che correvano su e giù, ma non facevano del male a nessuno, di grano da mangiare ce n'era in abbondanza, e quando disturbavano troppo, io lanciavo loro nel buio qualche pannocchia di granoturco, creando una fuga generale, poi tornavano venti minuti più tardi, intanto io mi ero addormentato sul mio comodo letto, da solo, ed ora eravamo in tre in quella stanzetta, da nove metri quadrati. Al mattino ci alzammo tutti presto, loro andarono a lavorare dopo aver fatto colazione assieme, ed io rimasi lì ad aspettare, e ritornai a riposare, e potei dormire finalmente fino a mezzogiorno, poi rimasi lì solo in quella gabbia stretta a riflettere, e senza connettere mai niente, in quella età sono pochi gli sprazzi di luce che ti aiutano a programmarti la vita, tutto ancora dipende dagli altri come nell’infanzia, loro conoscono i mestieri, mentre tu non li conosci, loro sanno come cavarsela, e tu tenti di fare qualcosa, ma non sempre ci riesci. Passai la seconda notte malamente, ed al mattino mi svegliarono alle sei, il tempo di vestirmi e via, giù di corsa alla stazione, mia sorella mi diede delle banane, ed un po' di soldi per il viaggio di ritorno alla fine settimana, chissà.. forse aveva intuito in parte il mio disagio; partii per WANGEN alle sette del mattino, e mezz'ora dopo ero già arrivato, il paese non era molto lontano dalla città di SOLOTHURN.
Girai per un po’ in cerca della via giusta, finchè la trovai e mi presentai, era un negozio molto bello, altro che le botteghe che all’epoca avevano i barbieri da noi in ITALIA, e come fui entrato pensai di essermi sbagliato, c'erano parecchie persone sotto il casco, e la prima deduzione che feci, era che forse si trattava di un parrucchiere per signore, e non di un barbiere, mi fecero entrare e mi spiegarono alcune cose, e poi mi misi il grembiule bianco anch’io, tirai fuori i miei ferri del mestiere, ma loro mi dissero che non servivano, loro avevano altri attrezzi, allora stetti un po’ ad osservare come lavoravano, e compresi subito che non ce l’avrei fatta, ero troppo impreparato, loro non tagliavano i capelli con le forbici, ma lo facevano con il rasoio, al contrario la barba non la tagliavano con il rasoio, ma con una speciale struttura in osso, che portava incastonata dentro una lametta. Ma non era finita li, gli uomini svizzeri, avevano un concetto diverso dell’estetica maschile, da noi in ITALIA era importante che uscissero dal negozio con un aspetto virile, mentre loro al contrario dovevano uscirne con un aspetto dolce, così si facevano quasi tutti la messa in piega come le donne, con tanto di bigodini. Di tutto questo io non ne sapevo niente, c'era poi un problema pratico quando affrontavi un cliente, e questo problema era la lingua, il cliente si sedeva e dava le sue disposizioni in tedesco, ma io non comprendevo una sola parola, e cosi non sapevo poi da dove incominciare. Ci giravo attorno ai clienti, con i sudori che mi calavano sul viso, e con la impotenza dentro, e questa era mescolata al terrore di non dare una forbiciata in più, allora provavo con il tagliarne un pochi per volta, cercando di intuire strada facendo le reazioni del cliente, chiedendo di tanto in tanto se andava bene, ma in questo modo impiegavo un sacco di tempo, ed il padrone incominciò a brontolare, si vedeva che aveva intuito tutta la mia impreparazione, se fossero stati onesti mi avrebbero proposto un periodo di apprendistato a basso stipendio, cosa che avrei accettato con gioia, a me bastava poco in fondo, invece fecero l’errore di trattarmi male, dimostrandosi risentiti, e forse con ragione, chissà che cosa gli avevano promesso quelli della missione, per farmi assumere...
Se avete un po' di pazienza potete consultare i link qui sotto:
Giuseppe DALLA VIA di Forni, classe 1887, nelle sue memorie "E siamo tutti contenti" (2015) descrive anche lui l'emigrazione, ma all'inizio 1900. In primavera 1905 lavora à Oberdorf nel cantone di Solothurn con Bepi Brigida di Valpegara. Lavoravano alla costruzione di una galeria per ferrovia, di 6 km. Abitavano in baracche. Nel cantone Glaris, c'era anche mio nonno Menara con il figlio Rico. E tanti altri di Valpegara, Forni ecc....Vite dure ed altri tempi.
RispondiEliminaQuanti sacrifici e privazioni hanno subito i nostri avi. È commovente leggere questa storia ma nello stesso tempo, dimostra quanta caparbietà , quanta volontà di riuscire di arrivare al traguardo. Speriamo di non rivivere quei periodi, ma la guerra in Ucraina paventa eventi drammatici.
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