lunedì 17 febbraio 2014

La storia del poro Nòno - (seconda parte)

E l’Astico? Dove scorreva l’Astico?

Tradizioni non documentate, ma topograficamente affatto plausibili, vorrebbero che il torrente scorresse allora rasente la collina di San Pietro e, doppiato il conoide della Val di Rioseco, lambisse strettamente il piede del Monte di Rotzo e l’evidente terrapieno sul quale sorge Pedescala.

A quel tempo c'è memoria anche di un lago, che avrebbe occupato l’alveo vallivo fra Maso Scalzeri e la Marogna di Casotto.  Di questo bacino si suppone che si sia svuotato già nel XIII° secolo, anche se altre tradizioni lo farebbero sussistere fino ad epoche più recenti.  Di quel luogo rimane la contrà Sella, già chiamata Laghetto. D’altra parte Sella potrebbe ragionevolmente derivare dal cimbro Seele, che ha appunto questo significato; i nomi qui hanno sempre il loro perché*.
Pare dunque che L'Astico in piena ruppe gli argini del lago durante la terribile alluvione del 1268*, devastando l’antico abitato di Forni, distruggendo una chiesa e una filanda e trascinando fino a Vicenza il crocefisso miracoloso tuttora  esposto nella chiesa cittadina di Cristo Re (Racei nova), che la leggenda dice appunto provenire di lì. *Un'altra devastante alluvione avvenne anche il 22 ottobre del 1378 e anche questa potrebbe essere stata la causa della definitiva scomparsa del bacino.
Certo che se ad una brentana si fosse sommato il cedimento del lago, non è difficile credere alla devastazione che ne seguì a valle, con conseguente modifica del corso dell'Astico. Una testimonianza di questo evento potremmo riconoscerla nello strano andamento dei confini fra le parrocchie/diocesi in quel tratto di valle. 

(Estratto da “Cronache di contrà delle Fontanelle” di Lucio Panozzo. Editrice Veneta. 2001 Vicenza)”
""" Tutto comincia con il terremoto del 1117 che provoca una grossa frana in Valdastico, tale da bloccare, all’altezza di Casotto, il corso del torrente e formare così un lago del tipo detto appunto di frana. Nel 1268 una terribile piena dell’Astico riesce a sfondare la diga naturale. A Settecà di Forni la chiesa viene distrutta dalla furia delle acque e il crocifisso prende la via della pianura. Al suo approdo dalle nostre parti viene ospitato dai frati del convento di San Vito, i quali attribuendo il suo arrivo ad un evento portentoso si guardarono bene dal restituirlo. Vane furono le proteste degli originari proprietari. Per una trentina d’anni il secondo crocifisso passò a Settecà di casa in casa, finché fu bruciato dal parroco, perché usurato dal tempo e dall’incuria. La chiesa distrutta non fu mai più ricostruita.


Ora fantastichiamo un po’ (ma neanche troppo), intorno agli indizi della prima parte e mettiamoli in fila, forse ne ricaveremo un quadro più articolato e meno scontato di quanto abbiamo sempre pensato.

Dicevamo che prima del 1268 a Forni esisteva una chiesa ed una filanda. La chiesa dovette essere un edificio notevole e ben dotato se annoverava fra i suoi arredi un crocifisso di non banale fattura e valore per l’epoca (Cfr. le relazioni vescovili dei secoli posteriori per rendersi conto di quanta povertà di suppellettili vi fosse nelle chiese della Valle).  La chiesa aveva più di due secoli e si trovava neanche 3 Km dall’Ospizio di San Pietro. 
Avere una chiesa allora, non era cosa di poco conto per un nucleo abitato: significava disporre di risorse per mantenerla e officiarla, era un onere rilevante per la popolazione che appunto non dovette essere troppo esigua per permettersela. Consideriamo che Pedescala riuscì ad avere con fatica una sua chiesa solo nel 1521 e Luserna due secoli dopo. Una filanda poi è una industria; richiede ingegno, materie prime, lavoro e commercio; economia organizzata. L’attuale complesso di Forni, effettivamente, non renderebbe giustizia di un insediamento di così antica manifattura e importanza.
E' certo che li esistessero anche molti forni fusori del ferro estratto dal soprastante passo della Vena*, ma giacimenti di quel minerale erano attestati anche in Brancafora.
L’inizio dell'attività metallurgica viene addirittura fatto risalire al tempo dei Romani, sebbene in seguito sembra fosse divenuta prerogativa esclusiva delle genti alemanne.

Ecco cosa annotò Il Caldogno nel 1568 nella sua Relazione delle Alpi Vicentine a proposito delle miniere "... delle quali già molte centinaia d'anni solevansi in quella valle farne grandissimo esito, poscia che quella villa dalla quantità de' forni, de' quali ancor le vestigia si veggono, che in essa erano per colar ferri, ha preso quel nome delli Forni.."

Di Fornì è originaria la famiglia Cerato (de Cerro, Cerri, Cera) che dovette essere relativamente eminente e facoltosa già in antichità, dato che fu la prima feudataria di Rotzo sul finire del trecento. Probabilmente fu proprietaria delle predette attività ed esercitò il commercio dei manufatti. Non può sussistere una famiglia potente e facoltosa su un territorio disabitato e povero di risorse. Gli acquisti di castelli nel Basso Vicentino, che questa famiglia fece già nel 1247 (San Vittore, Borgo e Villa Meledo) sono incompatibili con una rendita derivante da un territorio insignificante come ci raccontano essere stata la Valle a quei tempi. (continua)
Gianni Spagnolo

2 commenti:

  1. Forni per il ferro ma anche per l'argento ed altri minerali.
    (cf. gli scritti di Raffaelo Vergani sulle attività estrattive, delle miniere e della metallurgia nell’area veneta in età tardomedievale e moderna),


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  2. In effetti Gianni queste sono ipotesi che hanno una loro plausibilità ed è interessante interrogarsi su vicende che non sono purtroppo (non seguite i cattivi maestri dalle improbabili desinenze) illuminate dai documenti storici. Sono convinto anch'io che i Cerato e i Forni, sui quali ci si è concentrati prevalentemente per le vicende della cattura del Carrara, abbiano una storia più complessa di quanto non sembri. Aspetto le prossime puntate.

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