[Gianni
Spagnolo © 23H1]
Come
evoca simpaticamente la vignetta sopra, siamo abituati a considerare
l’invenzione della ruota come lo spartiacque fra la barbarie e la civiltà.
Quasi che questa semplice, ma straordinaria innovazione che nessuno
sa a chi attribuire, costituisca un irrinunciabile caposaldo dell'evoluzione
tecnologica.
In
verità le cose non stanno proprio così. Molti popoli antichi conoscevano
la ruota, ma non la ritenevano proprio così indispensabile nella loro vita
quotidiana. Contribuì grandemente allo sviluppo degli abitanti delle pianure
dediti all’agricoltura, ma molto meno di quelli delle montagne, dove
rappresentava un lusso perlopiù evitabile.
Sì,
perché la ruota, pur nella sua basica e semplice funzionalità, rimase per
secoli un oggetto piuttosto complesso e costoso da costruire. Per creare una
ruota affidabile e funzionale occorreva maestria artigianale, legname adatto e
il metallo per le parti di usura. Non ultimo, strade o tracciati adeguati alla
movimentazione di carri e carretti; cosa ancor meno scontata delle prime,
specie da noi. Non bastasse, doveva avvalersi della trazione animale per
sfruttarne in appieno l’efficienza, e anche questa non era cosa banalmente
disponibile.
Non
stupisce dunque che dalle nostre bande, la ruota fosse conosciuta, ma
scarsamente utilizzata, almeno per la movimentazione di merci, e così fino a
buona parte del XIX secolo. Ad allora le strade erano poco più che sentieri
lastricati a salìso, stretti e impervi, dove era più utile e pratica la ìdola
che il carro, trascinare o portare a soma, invece che movimentare su ruote. La
carriola dalla ruota piena, ricavata da semplici assi sagomate di legno
d’abete, o il carrettino a mano, si usavano per le faccende quotidiane in
paese, non così i carri, che richiedevano ruote più grandi e raggiate e bestie
da traino.
Ecco
dunque perché da noi si movimentava prevalentemente a soma o a strosso: era più
veloce, semplice e conveniente. Soprattutto era alla portata di tutti. In sù a
spala, in dò a strosso. Tertium non datur!
Per
la verità esisteva una ingegnosa via di mezzo, quella rappresentata dalla
slitta. Slissegàre era una variante più efficiente dello strossàre e trovava la
sua applicazione nella ìdola. La ìdola era uno slittone a due branchi che
poteva essere smontato per il trasporto in quota e lì facilmente rimontato per
la discesa a valle con il carico. Aveva la particolarità d'essere utilizzabile
sia d'inverno, con il fondo innevato, ma anche, solo un po' più
stentatamente, nelle altre stagioni scivolando sui trodi, i pendii e i salìsi.
Non serviva ferro, ma solo spezzoni di òrno, albarela e fagàro opportunamente
sagomati. Tutta roba a km zero e di semplice approntamento.
Eppure..., eppur il nostro immaginario collettivo paesano è fortemente legato alla ruota:
quella dei barossi. I barossi che percorrevano incessantemente la Singéla
tirati dai muli, creandone l'epopea. Quella epopea evocata nel "Ritorno
dal Bosco", che ora si ripropone. Si tratta tuttavia d'una realtà
relativamente recente nel nostro panorama storico, databile dalle seconda metà
del XIX secolo e protrattasi solo per una settantina d'anni. Prima dell'unione
con l'Italia, nel 1866, l'unica strada transitabile con i carri era quella di
fondovalle, detta appunto Cavallara, costruita solo nel secolo precedente. La
Singéla era appena in costruzione come adattamento di tracciati impraticabili
dai barossi. Fino ad allora il legname della montagna veniva divallato con le
menàde lungo la Torra e poi trascinato fino alle poste sulla Riva dei Mori per
mezzo di buoi, non di barossi. Analogamente avveniva con le menade più piccole
di legname da ardere lungo il Chèstele, i Salti e in Scalon.
Ecco
che lo spartiacque fra evo antico e moderno, almeno per la movimentazione delle
merci e del legname, lo fa proprio il ferro: ferro per i
cerchioni e i mozzi delle ruote, ferro per i muli, ferro per i fili delle
teleferiche, ferro per le sìgagnole, per le cordicelle, ecc. Soprattutto tanto ferro per fare le
guerre.
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