【Gianni Spagnolo © 200425】
A parte la
tragica parentesi del profugato e della Grande Guerra, non è che
della popolazione dell’Alta Val d’Astico come gente di confine si sia scritto
granché. Il profugato è stato inoltre elaborato solo dalla parte imperiale, trasformandolo quasi in epopea, mentre venne pressoché rimosso da quella italica inebriata dalla vittoria. È bene perciò riflettere sul
fatto che la nostra gente ha vissuto lungo tutta la sua storia una situazione
molto singolare di terra di frontiera. In questa valle si sono infatti
incontrati e alternati i confini di diocesi, di stati sovrani, di singolari
federazioni autonome, di lingue, dialetti e pronunce. I confini dei vicini
seguivano grossomodo il displuvio dei monti e la separazione era netta e
distante, con gli abitati attestati sugli opposti bacini idrografici. Da noi
invece no: essi erano per traverso, per lungo, per sopra e per sotto e
diversamente da ogni altra zona, tagliavano e intersecavano le comunità umane;
non solo rocce, boschi, o tracce di animali. Proprio questa sua
peculiare situazione, induce a ragionare sull’incidenza che ha avuto il
“confine” nelle abitudini e nella mentalità della nostra gente. Quello che ci è
consentito è solo un’elaborazione indiziaria, ma penso valga la pena provarci,
pur con tutti i limiti derivanti dalla carenza di supporti documentali.
I primi
confini ad interessare la nostra terra, già più di mille anni fa, furono quelli
delle diocesi. Ben quattro curie vescovili avevano infatti giurisdizione sulla
Valle: Padova, Vicenza, Feltre e Trento. Le prime due separate dal
corso dell’Astico, rispettivamente sulla sinistra e sulla destra orografica,
mentre sulla sua testata, a Feltre era soggetto allora il territorio di
Lavarone e a Trento quello di Folgaria. In seguito a quest'ultima furono
annesse anche le parrocchie soggette alla Corona d’Austria. Nemmeno la netta
demarcazione fra Padova e Vicenza, segnata dal corso dell’Astico, resistette ai
secoli e alla natura bizzosa del torrente, che in epoca indefinita
(forse nel 1378) creò l’enclave vicentina di Forme-Settecà. Nondimeno Vicenza,
assestata con i Lastarolli sul Cherle, dovette infine cedere quelle montagne.
Sopra contra' Carotte, lungo l'antica Via dell'Anzin, i massi
detti “Sassi Donati” testimoniano il vecchio punto di confluenza fra le
diocesi di Trento, Feltre e Padova. Più in alto invece, l’antro carsico del “Còvelo di Rio Malo”
presidiava a mano armata il varco daziario medievale.
Il senso
comune farebbe pensare che, aderendo tutti gli abitanti di queste terre alla
dottrina di Santa Romana Chiesa, la divisione delle diocesi non avesse avuto
poi gran rilevanza. Invece non è così, perché per secoli i vescovi godettero
anche di ampia giurisdizione temporale, che esercitavano attraverso feudatari e
vassalli e perciò condizionarono le appartenenze civili, religiose, culturali e
sociali lungo tutto il secondo millennio. Fu poi nel 1535, a seguito della
Sentenza Tridentina, che si delinearono nettamente le appartenenze statali.
Allora i contestati termini posti sulla Torra e sull’Astico, fra i possedimenti
della Magnifica Corte di Caldonazzo e della Serenissima, divennero il confine
ufficiale fra l’Impero d’Austria e la Repubblica di Venezia e tali rimasero,
pur con alterne vicende politiche, fino al 1918. Poi c’erano i confini dei
feudi, delle parrocchie e dei comuni a complicare il quadro e ad infervorare
gli abitanti e i giurisdicenti impegnandoli in lotte acerrime e secolari. Ecco
quindi che troviamo: I signori di Velo verso quelli di Beseno e quindi
Lastarolli verso Folgaraiti al Télder, in una contesa durata ben 800 anni;
Brancafora verso Luserna, dalle vicissitudini meno cruente e protratte,
ma comunque periodicamente animata; San Pietro e Rotzo in un
andirivieni di abbracci e ripudi, conditi da estenuanti battaglie legali e fraterne legnate, protrattosi
anch’esso per quasi 8 secoli. A ciò s’aggiungono i privilegi dei Sette Comuni,
che non valevano sulla sponda opposta delle valli, le diatribe di Tonezza con
Forni per il diritto di capoluogo e col barone di Beseno, che non perdeva
occasione di insidiarne le montagne. Tacendo delle contese più moderne, delle
alchimie e dei referendum per dividere, aggregare, spostare o ripristinare
confini, antichi privilegi o appartenenze. Nel contempo si modificava anche la
parlata, che s'è gradualmente romanizzata frazionandosi e differenziandosi
nei secoli sotto la manovra a tenaglia dei dialetti vicentino e trentino e
acquisendo sonorità e accenti peculiari che arrivavano ad individuare da essa
addirittura la contra’ di provenienza. Sembrerebbe proprio il terreno ideale
per allevare un popolo di barufànti patologici, geneticamente
inclini alla contrapposizione e assai poco al compromesso e alla
collaborazione.
Ciò era
dovuto al contrasto di interessi legati allo sfruttamento delle scarse risorse
disponibili per la sopravvivenza in questa valle sassosa e dirupata. Quanto ai
rapporti umani, fra la gente delle diverse comunità doveva andare
necessariamente meglio, scorrendo, per così dire, su un piano parallelo e più
sereno. Non poteva infatti essere altrimenti per una popolazione confinata in
un ambito ristretto e con ridotti scambi umani con l’esterno fino all’epoca
moderna. All’inizio del 1500 in tutta la zona ci saranno state all’incirca
duecento persone in età riproduttiva, includendo nel conto anche i cigli dei
prospicenti altopiani (Luserna, Rotzo e Tonezza) e noi tutti discendiamo da
queste, in un intreccio genetico assai articolato e a volte impensato. Gli
antichi documenti attestano di matrimoni fra nubendi abitanti da un capo a
l’altro della valle, da un ciglio all’altro delle montagne, favoriti anche
dalla necessità di contenere entro limiti tollerabili la consanguineità e
compensare la falcìdia delle ricorrenti epidemie. I Lastarolli delle Laste Alte
andavano a messa a Folgaria o a San Sebastiano, vi ascoltavano l’omelia nella
lingua comune e vi si maritavano pure. Quelli delle Laste Basse facevano lo
stesso con Brancafora attraversando l’Astico. Presso quella pieve, dalla quale dipendeva, seppellì i
suoi morti anche Luserna fino al XVIII secolo. Casotto battezzava i suoi anche
a San Pietro, che era più vicino di Brancafora. Per certe incombenze pure i
Lusernati trovavano più comodo scendere in valle, piuttosto che andare a
Caldonazzo. Gli Stoner sconfinarono di diocesi ai Forni per i servizi
religiosi, attraversando anch'essi il torrente, finché non costruirono una
propria chiesa. Allora non era la SS.350 a collegare i paesi, ma un reticolo di
sentieri il cui criterio prevalente era di essere corti, piuttosto che
comodi. Anche se congenitamente barufànte,
si trattava pur sempre di un popolo chiuso in sé stesso, dall’economia precaria
e fondamentalmente coeso, nonostante tutto. Poi ci si mise anche la lingua a
modificarsi gradualmente, senza tuttavia mai scavare fossati; quindi
cominciarono a differenziarsi un po’ anche i dialetti subentranti. Da ultimo
arrivarono le rivendicazioni nazionali a scavare trincee là dove non c’erano
mai state; ma questa è storia recente.
In fondo
siamo gente di confine e così, alla lunga, i confini ci sono rimasti dentro.
Per una singolare nemesi della storia, di confini ben più grandi ne abbiamo
dovuto poi varcarne tanti con la diaspora dell’emigrazione. Intanto quelle
piccole e molteplici frontiere della nostra terra, che era una delle prime cose
che s’insegnavano ai ragazzi, sono state inghiottite dalla montagna. Così va il
mondo!
Confini
quindi che dividevano le tasche, separavano le monete, alimentavano
contrapposizioni epiche, condizionavano certamente i rapporti umani, ma che
alla fine proprio in quest’ambito dovevano trovare una qualche composizione. Fradéi cortéi,
dunque, fedeli all'adagio che i conflitti più aspri si hanno fra parenti stretti. Alla
fine erano parte di un vissuto comune nella comune e quotidiana lotta per la
sopravvivenza.
Non tutti
i confini erano uguali però!
Quello fra
stati era certamente l’elemento saliente nella geografia politica della valle e
fu probabilmente per secoli il principale datore di lavoro. Sì, perché da noi
non c’erano i dolci dossi, i pianori in quota o le diffuse sorgenti delle valli
vicine, bensì rocce, marogne e montagne erte pressoché dappertutto, con l’acqua
solo a fondovalle e il torrente che scorreva dove e come gli pareva meglio.
Ecco allora che quella marginalità poté trasformarsi in risorsa col
contrabbando, rendendo abitabili posti che diversamente non lo sarebbero stati.
Non credo sia un caso che di abitanti stabili in quel di Casotto si cominci a
parlare dalla metà del millecinquecento e che delle contra' di San Pietro
abbarbicate sulla Torra e sulla Val dei Mori non vi fosse traccia prima di allora,
come pure dei masi sparsi di Pedemonte e Lastebasse. L'evento cardine di quel
periodo fu proprio l'istituzione formale del confine, mentre prima Venezia
debordava anche sulle montagne imperiali fin giù nella Val Lagarina.
Contrabbandieri,
certo! Come poteva essere altrimenti?
Anche se
non è documentato, anche se non è mai stato bene dirlo e perciò non c’è strato
tramandato, o soltanto forse perché era la norma. Terra di contrabbandieri, ma
anche di banditi, nel senso etimologico del termine: in epoche in cui la messa
ad bando da un città o da un territorio era regola ordinaria di giustizia. Dove
potevano attestarsi questi fuorusciti se non sui limitrofi della loro zona
d'origine? Ecco allora la tradizione raccontare dei
fratelli Munari, scappati da Gallio per chissà quali colpe e rifugiatisi appena
oltre i termini dei Sette Comuni in quel di Lastebasse, dove fondarono
Montepiano. Non è inverosimile, anche se non provato, che pure altri ceppi familiari
insediatisi a Casotto e in altri masi confinari abbiano avuto questa origine.
Provati sono invece i misfatti settecenteschi in quel di Thiene di un Rossati dagli Scàlzeri, detto Gallo, graziato dal ripararsi nella
terra avìta, dove peraltro sparavano anche al prete. Nel 1639 un mio avo di
Rotzo rimase ucciso a San Pietro nel tentativo di sedare una rissa. Le morti
per archibugiate non erano una rarità, specie da quando Venezia concesse alle
cernide della Milizia del 7C, (che includeva anche gli uomini di Forni,
Tonezza e Lastebasse) di portare le armi in ogni circostanza. Mi torna in mente un più
moderno aneddoto familiare riguardo a un mio avo che buttò un gendarme imperiale
nella fontana. La Serenissima riconosceva a queste sue remote zone di frontiera
ampi privilegi fiscali e aveva certo più interesse a mantenere i confini
presidiati da gente fedele, scaltra e pronta alla difesa piuttosto che di stressarli con
controlli e burocrazie. Non era dunque la nostra una terra facile, né erano
facili quei tempi, perciò anche gli abitanti dovettero essere ben temprati, di
scorza dura e dai modi spicci. Non certo gli immaginari e placidi nonnetti del buon tempo andato.
La
frontiera con l’Impero d’Asburgo resse fino alla prima guerra mondiale. Fino al 1797 lo
fu con la Serenissima, per poi venire per qualche lustro rattoppata da
Napoleone e diventare nel 1815 praticamente un confine interno all’Impero.
Questo fino al 1866, anno in cui il Veneto fu annesso al Regno d’Italia e la
frontiera tornò dividere formalmente due stati concorrenti, che si guardavano
in cagnesco sull’onda delle rivendicazioni risorgimentali. Penso che quel
periodo in cui la valle visse in pratica orfana del confine e dei suoi traffici
non sia stato molto felice per i suoi abitanti. Non è inverosimile infatti che
la rinascita civile e demografica avvenuta nella seconda metà del
milleottocento sia da ascriversi al ristabilimento del confine e alla ripresa
delle attività transfrontaliere. Leggiamo sul Messaggiere Tirolese del
1837 che le strade e le vie che conducevano al casello daziario di Casotto,
esclusa quella principale, erano da considerarsi tutte percorsi da
contrabbandieri. Fortuna che allora eravamo sotto la stessa Corona!
Probabilmente rimaneva un residuale regime fiscale differenziato anche fra zone
dello stesso impero.
Ma cosa si
contrabbandava? Dipendeva ovviamente dalle epoche e dalle situazioni
contingenti, ma principalmente: granaglie, vino, sali e tabacco, ma anche
zucchero, animali e altri generi soggetti a privative o embargo fra i due
stati, specie in occasione delle ricorrenti epidemie e relative serrate. Caso
strano era quello del sale, oggi bene economico e di larga disponibilità ma un
tempo raro e prezioso in quanto usato per conservare i cibi e per integrare
l’alimentazione del bestiame. Strano perché veniva contrabbandato dal montuoso
Tirolo alla marinara Venezia, essendo più conveniente la salgemma del
Salisburghese del sale veneto, che Venezia pur usava per zavorrare le navi di
ritorno dal Levante. Il divieto di produzione di tabacco nello stato veneto ne
incentivò il contrabbando dal Tirolo, dove anche lo zucchero era più economico.
Cereali, vino e grappa erano più disponibili nella pianura vicentina e perciò
prendevano la via del Nord, e così via. Penso che i mulini strategicamente
posizionati sull’Astico a Casotto e Scalzeri ne potrebbero raccontare delle
belle al riguardo. Anche San Pietro, nel 1617, volle infine dotarsi d'un
proprio mulino consortile. Piccoli traffici, s'intende, niente di che; diffusi
e connaturati all’economia locale, ma che giustificano insediamenti abbarbicati
alla frontiera in luoghi altrimenti improbabili. A differenza di
altre zone, da noi il confine era sulla porta di casa, specie lungo l’Astico
fra Pedemonte e Lastebasse; addirittura fra la casa e la stalla e l’andirivieni
delle persone continuo e impossibile da controllare efficacemente. Il
contrabbando dovette perciò essere naturale come far erba per i conigli. Sarà
per questo che non ha dato origine ad un’epopea, lasciato documenti di
repressione o ricordi nella tradizione come avvenuto altrove.
Prima di
venir meno però, il confine s'è vendicato e lo fatto da par suo! Se n'è andato
con una guerra devastante che ha segnato una lacerante cesura fra passato e
presente. Fu così che il mondo di prima passò, ma ricordiamoci che questo è
stato.
Bravo Gianni.E' sempre bello sentire cosa accadeva nel passato.hai mai pensato a riuscire a stabilire in base a cosa vennero tracciati i confini dei vari lotti nelle montagne?
RispondiEliminaGrazie Guido. Se intendi i lotti boschivi degli ex usi civici di Rotzo che guardano la valle, ne ho scritto 6 anni fa in un post del 10/11/2013 che puoi trovare con la finestra del "cerca" in alto a dx, oppure a questo link: https://bronsescoverte.blogspot.com/2013/11/el-loto.html
EliminaLa tua pubblicazione mi era proprio sfuggita,ora l'ho letta tutta.Avevo provato a chiedere in giro ma non avevo trovato risposte.Ma quello che mi interessava di piu',e sara' difficile saperlo ,era con che criterio erano stati tracciati i confini dei lotti.Ad esempio quello nostro inizia con un tratto a punta molto stretto,altri sono paralleli etc.Vedendo la mappa capiresti meglio.Grazie comunque di tutte le spiegazioni,sei proprio appppassssionato.Complimenti
EliminaPer quel che ne so la parcellizzazione dei lotti è stata fatta da un comitato tenendo conto che il valore di ogni lotto fosse equamente rapportato alle sue caratteristiche fisico produttive, dei confini naturali e della sua accessibilità rispetto al paese, in modo tale che alla gente dei Costa, p.e., fossero assegnati lotti sopra quella contra’ piuttosto che sotto i Castelìti. Ovviamente era più pregiato un lotto piccolo di faggi a fianco della Singéla, piuttosto che uno gigante ma spelacchiato sugli Spiadi. Molti dei confini attuali dei lotti non rispecchiano più quelli originari, dato che son trascorse almeno ormai almeno quattro generazioni e le divisioni all’interno delle famiglie assegnatarie li hanno resi parecchio frastagliati.
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RispondiElimina" Bravissimo Gianni, una tesi universitaria la tua lezione sui confini e le storie del nostro territorio! Non tutto il male-virus porta solo disgrazie! Scrivere e leggere non è tempo sprecato! La stampiamo in un librettino per le nostre popolazioni presenti e future? Io ci sono e ci saranno degli altri! Con stima, Silvio Eugenio.
Grazie Genio, ma dubito che interesserebbe alle popolazioni future, forse nemmeno a quelle presenti, più probabile a quelle passate. ;-)
EliminaGianni, trovo questi tuoi scritti interessanti ma, soprattutto, molto affascinanti e coinvolgenti (per chi si sente "valligiano"). Li leggo con lo spirito di chi trova appagamento nei Romanzi Storici. Una sapiente mistura di documentazione storica, di semiologia ... e di amore per le "popolazioni della Valle". Bravo. (per la mia età, appartengo "... alle popolazioni ...passate". ;-)
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