giovedì 24 maggio 2018

Ciauscamìnti (R.0)

Proviamo a lanciare un Post sul tema dell’Antica Lingua, cioè del CIMBRO, dove si possano lasciare testimonianze, commenti, domande, chiarimenti, parole, racconti, poesie, ecc., con particolare riferimento ai suoi retaggi nell’Alta Valle dell'Astico, ma non esclusivamente.

Per rompere il ghiaccio e focalizzare l’argomento, ripropongo un estratto dal mio post "La parlata cimbra nell’Alta Val dell’Astico” pubblicato il 1° Agosto 2012 e limitato agli aspetti documentali di cui sono a conoscenza; depennato quindi delle mie più soggettive considerazioni allora espresse. 
Gianni Spagnolo


../.. A San Pietro si parla (parlava) un veneto più duro, spigoloso, aspro e spesso con termini diversi e accenti traslati rispetto a quello dell’area pedemontana. Esso non ha la morbidezza del Vicentino né la simpatica cantilena del Trentino; anche se fa da ponte territoriale tra i due, mi pare che non li leghi come invece sarebbe naturale aspettarsi. Si avverte che è una lingua non ancora completamente metabolizzata. Quella di un luogo che pur essendo situato in una valle di antico transito, è stato comunque culturalmente ed etnicamente isolato. Alcuni forse ricorderanno che nella decina di chilometri che separano Barcarola da Lastebasse ogni paese, per non dire contrada, avesse elaborato una propria piccola specificità. Certo ora non più, la parlata si è incivilita, alterata e uniformata alla sintassi italiana, ma in un passato non remoto si riusciva a distinguere se uno veniva dal Maso piuttosto che dal Casotto o da Pedescala (entro neanche tre chilometri di raggio), soltanto dalla pronuncia o da certi particolari modi di esprimersi.

Molte delle parole ormai cadute in disuso avevano origine e desinenze non venete e divennero ostiche alla pronuncia anche ai locali che avevano crescenti difficoltà a coniugarle al dialetto vicentino prevalente. Perciò esse furono velocemente abbandonate a favore dei sinonimi veneti, a volte distorcendone pure il significato. Derivavano dal cimbro, peraltro parlato nel territorio comunale fino agli albori del secolo scorso. 

Ne sono rimaste vestigia nei soprannomi più antichi delle nostre famiglie:
Bàise, Betéle, Garbàto, Màule, Pàmele, Godi,… 
Nei toponimi:  Chéstele, Sléche, Bisa/BìseleTóraChipa, ... forse: Joa, NóreTrudi, ecc.
Nei termini: Snébele, Chìtele, sgnéco, Snàra, bióto, Cróte, Ghénghele, Béghele, Slìba, pitufàre, Befèl, Rùfa, Saane, Stéela, slìndese, snoràre, smeàro, Flassa, Móose, Schìnche, sdréc, Clàmara,  .. e tanti altri ancora che magari ai più anziani torneranno in mente.

Mi sono spesso chiesto la ragione di questa singolare situazione e di come parlassero i nostri progenitori. La documentazione scritta in merito sull'alta valle dell'Astico è purtroppo assai carente, ma alcuni viaggiatori e studiosi del XVIII-XIX° secolo (Schmeller, Brentari, Pezzo, Maccà e il nostro Dal Pozzo) ci hanno lasciato comunque delle tracce sufficienti a farci un'idea della situazione all'epoca. 

Nella sua visita del 1833, l'insigne linguista tedesco J. Andreas Schmeller, notò con sorpresa che si parlasse ancora cimbro a Lastebasse (Casenuove di San Marco) e che addirittura alle Carotte fosse usato anche dai bambini. Lo stupì ancor più il fatto che lo fosse in una forma decisamente più pura di quella che aveva appena udito da alcuni pochi anziani nei soprastanti altipiani di Lavarone e Folgaria, dove ormai l'antica lingua era già spenta. Riscontrò poi che più oltre nella valle, a Casotto e San Pietro prevalesse il veneto.

L'irredentista trentino Ottone Brentari, scrisse che si parlasse ancora l'antica lingua al maso Scalzeri nel 1850, come pure a Montepiano e Boscoscuro. 
L’abate Dal Pozzo, che era di Castelletto e quindi sapeva il fatto suo, si rammaricava che già alla fine del 1700 Pedescala avesse ormai perso la parlata nazionale.

La sera del 30 settembre 1833, lo Schmeller giunse a San Pietro, accompagnato da Don Matteo Dal Pozzo, curato di Casotto. Di San Pietro annota che non si parla più la lingua tedesca da molto tempo. [.. aber längst nich mehr deutsch sprechenden Gemeinde..]. Quella lingua che a Rotzo, che era allora il capoluogo comunale ma geograficamente più marginale, resistette fino alla Prima Guerra mondiale.

Il padre Gaetano Maccà, autore di una voluminosa storia delle chiese del territorio vicentino, visitò San Pietro verso il 1805 e annotò che la popolazione parlava “oggidì” la lingua italiana. Parimenti si espresse per Pedescala scrivendo che “al presente“ parlasi la lingua italiana (intendendo ovviamente la veneta). Nel medesimo periodo scrisse che ad Enego e Lusiana “parlasi italiano” (senza specificazioni temporali), che a Foza si parlava un cimbro più puro rispetto agli altri centri interni dell'Altopiano, affiancato all’italiano. Di Gallio argomentò che si parlasse italiano in paese ma non nelle sue contrade sparse, quantunque l’italiano si capisse, ma che 40 anni prima esso non fosse affatto in uso. Non specificò invece la parlata per i paesi dell’Altopiano dov’era ancora prevalente il cimbro (Asiago, Roana e Rotzo); evidentemente considerava del tutto ovvia la cosa. Così per gli altri paesi vicentini fuori dall’areale cimbro, dove non ritenne di rilevare quale lingua parlassero gli abitanti essendo naturalmente sottintesa la veneta (vale a dire la forma locale del dialetto veneto).
Queste specificazioni portano a ritenere che proprio in quel periodo si fosse imposto a San Pietro, come a Pedescala il veneto come lingua corrente di relazione, ma che questa situazione fosse relativamente recente e ancora persistessero tracce della parlata cimbra. Anche don Marco Pezzo, nella sua opera del 1765 (Dei Cimbri veronesi e vicentini, libri due, Verona 1763), si rammaricava che S. Pietro e Pedescala stessero perdendo o avessero già perso l'uso corrente del cimbro, similmente a tutta la fascia orientale di Enego-Lusiana-San Donato del Covolo.
Nel 1610 il conte Caldogno, nel riuscito tentativo di allargare alle montagne dell’Alto Astico la Milizia dei 7 Comuni per meglio presidiare dei confini della Serenissima, scrisse che Tonezza e Lastebasse s'intendessero senza problemi con quelli dell’Altopiano perché parlavano la medesima lingua.

Fino a tutto il XVIII° secolo San Piero era un paese di al massimo 400 anime, con famiglie che si formavano all’interno della stessa comunità e con ricorrenti escursioni maritali nei paesi limitrofi lungo l’Alta Valle e gli Altopiani contermini, com’era consuetudine in tutto il comprensorio. I legami parentali fuori da questo furono assai rari e similmente per le comunità confinanti. Ben pochi forestieri infatti si stabilirono definitivamente da noi e non ho contezza di matrimoni avvenuti fuori dal territorio considerato. D’altra parte è del tutto comprensibile che una zona dalla vita certamente più tribolata, chiusa e parlante al suo interno un idioma diverso non offrisse particolari attrattive alla gente del piano.

Vengo da generazioni di emigranti di lunga data, ovvero di persone che vissero in paese prevalentemente fino all'adolescenza, allevati spesso dai nonni e che poi non ebbero quotidiana frequentazione con il dialetto veneto parlato in paese e ancor meno con l’italiano. Quel dialetto che si stava velocemente corrompendo per l’incipiente sviluppo e le accresciute relazioni con l’esterno, che invece nelle famiglie emigrate si mantenne statico, come appreso in gioventù.

Ecco allora che da bambino mi capitava di sentir echeggiare in famiglia mozziconi di frasi che provenivano dal buio del tempo e da una lingua sconosciuta e misteriosa. 
Era il retaggio di parole che i miei vecchi avevano sentito a loro volta da bambini dai loro nonni e ogni tanto emergevano, fortemente alterate ma evocative di un passato che mi sfuggiva, seppur mi affascinava. Fu quando dovetti a mia volta emigrare e praticare il tedesco e i suoi dialetti che quei suoni e i loro significati cominciarono a svelarsi. Ho il grande rammarico di non aver avuto allora l’età e la consapevolezza per poterli registrare e che ora purtroppo sono perduti o relegati nella vaghezza di lontani ricordi.
Mio bisnonno paterno Domenico Spagnolo, classe 1851, in famiglia era chiamato: Méneghele, (anche mio padre lo ha sempre chiamato me poro nono Méneghele) sua moglie Caterina: Càtele, i bimbi di casa: nìnele, …la capra: mémele. Diminutivi e vezzeggiativi improbabili nel dialetto veneto: erano forse gli ultimi barlumi dalle braci di una lingua che si spegneva nel focolare della Storia. Relegata nell’ultimo suo baluardo: il lessico familiare: il linguaggio degli affetti.

Giunga illuminante una riflessione lasciata scritta nel 1790 da un nostro conterraneo, l'abate Agostino dal Pozzo Prunnar:
                                  “Eppure chi li crederebbe! In un angolo dei Sette Comuni, dove attesa la situazione, il linguaggio tedesco potrebbesi conservare e più puro, e più a lungo che in altri luoghi, gli abitanti sono venuti da qualche tempo a tale riscaldamento di fantasia, che odiano e vilipendono la propria lingua, vergognandosi di parlarla quasi fosse un disonore e una infamia servirsene. Non basta proibiscono ai figli di apprenderla, e agli ospiti di parlarla nelle loro case, a fine di abolirla ed annientarla. E non è questa una barbara e inaudita crudeltà detestare il linguaggio, che succhiarono col latte: che fu si caro ai loro antenati: che caratterizza e distingue la nostra privilegiata nazione dalle vicine, e ch’è l’argomento più decisivo che abbiamo della nostra antichità ed origine: Argumentim originis? Ben si può applicare a costoro il rimprovero che Cicerone scagliò contro a que’ Romani che trascurarono di coltivare il proprio idioma, appellandoli scimuniti e vanarelli! Questi tali in pena di aver cooperato alla perdita della nativa lor lingua, meriterebbero d’esser privati del beneficio di godere dei privilegi accordati alla nazione de’ Sette Comuni, di cui si vergognano d’esser parte disdegnando di parlarne la lingua” ../.

Era lo spirito dei tempi, si dirà. Niente dura in eterno, bisogna evolvere, cambiare, adattarsi al mutare dei tempi e delle situazioni. Certo, la cosa non stupisce, visto che è poi quello che noi facciamo quotidianamente con la nostra lingua madre, quella che abbiamo succhiato col latte.
Gianni Spagnolo
1/8/2012

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