Mi avvicino e scosto bene i rami bassi della salvia scoprendo un
bell’esemplare di rospo (Bufo bufo)
G) A xe un rospo, el ga
da essare cuélo ca gò pescà l’an passà intel mestélo del’acua.
C) Ma no te vidi mia che
nol se move gnanca? Chel sia morto?
G) Ma valà, che l'è solo incrotìo, nol se move no!
Mentre partiva
la musichetta di Quark, mi accingevo dunque a spiegare alla sorellina che i
rospi d’inverno rimangono per mesi apparentemente senza vita nella terra, sotto
uno strato di foglie umide; si parla non di letargo bensì di ibernazione.
Infatti il rospo è un animale eterotermo, che modifica la propria temperatura
corporea in base alla temperatura esterna: se è caldo questi animali sono
attivi, man mano che la temperatura esterna diminuisce si muovono sempre meno
fino a diventar rigidi. Quando la primavera tarda e la temperatura, come in
queste settimane, è più bassa di quella propria del periodo, l’animale stenta a
riprendere la naturale motilità e rimane in una situazione sospesa e pericolosa,
cioè rimane “incrotìo”, come
dicevano stiàni, che la natura la
sapevano ben osservare. Se la bassa temperatura si protrae troppo, questi anfibi possono anche arrivare a
non riprendersi e morire. Fine della
spiegazione e della musichetta di Quark.
Incrotìo, un termine intraducibile della nostra
lingua madre che significa appunto quella condizione di infreddolimento penetrante e rattrappimento, che impedisce di muoversi con la naturale destrezza. Qualcosa di più del tegnérse strìti o dell’essere giassà. Tipica della condizione del
nostro simpatico rospo, che pur pungolato e invitato a mettersi in posa per la
fotografia, risultava del tutto apatico e indifferente.
L’abbiamo
quindi ricoperto di foglie e poi ricomposto la salvia, nella speranza che, per lui
e per noi, il tempo metta finalmente giudizio.
G) L’è incrotìo parchè
l’è un cróte, te ricorditu mia chel Nòno le ciamava cussita sté bestie?
No, la Carla non se lo ricordava.
No, la Carla non se lo ricordava.
Intanto che mi divertivo a maciullare l'erba con il decespugliatore, questo intermezzo mi portava a riflettere sulle modifiche
intervenute nel nostro dialetto nell’ultimo secolo; variazioni delle quali non
ci siamo neppure accorti, come non ci si accorge d’un figlio che cresce, perché l'abbiamo quotidianamente sotto gli occhi. Solo magari a distanza, quando da vecchi s’indebolisce la
memoria a breve termine e riaffiora quella a lungo, forse allora ci si rende veramente conto delle trasformazioni intervenute.
L'uso e la consuetudine, particolarmente di una lingua, a volte può impedirci di cogliere i dettagli e condurci a idee e preconcetti difficili da erodere.
Prendiamo l'occasione offertaci dal nostro amico Bufo bufo e facciamo un piccolo esempio con la frase italiana:
“Ieri sera è piovuto
a dirotto ed ero tutto infreddolito”.
In dialetto corrente, si potrebbe tradurre, in diversi modi, per
esempio:
- Ieri sera ga piovùdo tanto e a xero
tuto infredolìo;
- Ieri sera ga piovésto tanto e a xero pién
de fredo;
- Ieri sera ga piovésto a sécie rovèrse e a xero pién de fredo;
la prima frase non è veneto, è italiacano; ovvero i verbi
sono coniugati come in italiano e adattati con desinenza veneta. La frase
viene così modernizzata e resa più “fine” e accettabile. (Chissà perché poi l'accettabilità del dialetto deve essere giudicata in base alla sua vicinanza all'italiano, così da passare inesorabilmente per poco acculturato chi si esprime in dialetto autentico non italianizzato). La seconda e la terza sono anche
aggiornate, ma restano un po’ più aderenti al dialetto. Naturalmente usare piovésto e sécie roverse, ci qualificherà subito per
rustici trogloditi che vengono dalla montagna.
4. Algiri sera ga piovèsto a sécie rovèrse e a xero tuto giassà;
5. Alsèra ghin’à trato dò a sécie rovèrse e a gero tuto incrotìo;
6. Alsèra ghin’à trato dò a feri molè e a jero fa 'n crote.
4. Algiri sera ga piovèsto a sécie rovèrse e a xero tuto giassà;
5. Alsèra ghin’à trato dò a sécie rovèrse e a gero tuto incrotìo;
6. Alsèra ghin’à trato dò a feri molè e a jero fa 'n crote.
Tra la formulazione della frase 1), che è dei nostri
giorni, e quella della 6), che risale a
tempi di mio nonno, intercorrono circa 100 anni. Circa la comprensione del
significato: fino alla 4) ci arrivano più o meno tutti, giù fino a Vicenza; per le
ultime due forse bisogna fermarsi a Barcarola e ai nativi della prima metà
del secolo scorso.
La parlata dei nostri vecchi usava molte metafore, modi di
dire e similitudini, tratti dai mestieri comuni e dall’osservazione della natura e degli
animali:
- Sècie roverse: (secchi rovesci) efficace metafora di vigoroso scroscio d'acqua;
- Trar dò: (buttare giù) sinonimo di piovere, derivato dall’azione stessa della precipitazione atmosferica;
- Feri molé (morso allentato) dall’attività di conducenti e cavalàri, a significare l’azione libera e senza ritegno, tipica dell’animale non più trattenuto dal morso;
- Fa 'n cróte: (come un rospo) situazione di freddo, intorpidimento e rigidezza tipica dell'anfibio descritta più sopra.
Ma cróte non è
veneto, infatti è cimbro (crot, cröt) e significa appunto rospo, come pure in tedesco
moderno (Kröte); cróta era invece detta la rana. Circa il 15% dell'ultima frase è quindi espresso in
un cimbro adattato.
Incrotìo, come verbizzazione situazionale, è riuscito a perdurare nel dialetto forse per l'assonanza con l'aggettivo italiano "crudo", che richiama anch'esso un po' il freddo e la durezza. Cróte invece è stato sostituito col corrispondente italiano e subito dimenticato, perché aveva perso ormai ogni legame di significato.
Incrotìo, come verbizzazione situazionale, è riuscito a perdurare nel dialetto forse per l'assonanza con l'aggettivo italiano "crudo", che richiama anch'esso un po' il freddo e la durezza. Cróte invece è stato sostituito col corrispondente italiano e subito dimenticato, perché aveva perso ormai ogni legame di significato.
Non c’è purtroppo mezzo di poter fare la stessa analisi
risalendo di un altro secolo indietro e poi d’un altro ancora, ma l’esempio esposto ci aiuta a capire quanto possa modificarsi una lingua nel tempo senza che ce ne accorgiamo, perché la viviamo quotidianamente e pensiamo che sia sempre stata così.
Di esempi come questo se ne potrebbero fare a decine, ma mi chiedo chi oggi sia ancora in grado di ricordare e, soprattutto, chi abbia interesse ad approfondire l'argomento. Sarà così che i pochi residui ricordi delle nostre origini cesseranno inesorabilmente con la nostra generazione e di quella negletta civiltà di confine della quale, volenti o nolenti, siamo figli, si perderà definitivamente la memoria.
Di esempi come questo se ne potrebbero fare a decine, ma mi chiedo chi oggi sia ancora in grado di ricordare e, soprattutto, chi abbia interesse ad approfondire l'argomento. Sarà così che i pochi residui ricordi delle nostre origini cesseranno inesorabilmente con la nostra generazione e di quella negletta civiltà di confine della quale, volenti o nolenti, siamo figli, si perderà definitivamente la memoria.
Gianni
Spagnolo
XVI-V-MMXVI
Complimenti Gianni per questo bel articolo !
RispondiEliminaCARO GIANNI i tuoi racconti sono sempre molto interessanti e belli.Visto che tu sai molto bene il vecchio dialetto e il significato delle parole;volevo chiederti cosa vuol dire la frase (A SPOTICA MIA)che mi è capitato varie volte sentirla da un mio cugino.Un caro saluto a tutta la VALLE e ai suoi ABITANTI.
RispondiEliminaGrazie a Odette e Giovanni per l'apprezzamento; sapeste quante volte ho l'impressione di scrivere solo per me stesso di argomenti che non interessano nessuno.
RispondiEliminaA Giovanni posso dire che: “Spòtica a mi” significa uguale a me, così come me (se il soggetto è femminile). “A spòtica mia" significa quindi a mia immagine, esattamente uguale a me (anche se non l'ho mai sentita detta così). Si dice che: “l’è spòtico so pare” a significare che è assolutamente uguale al padre. Non ne conosco l’etimologia.
Gianni,così ti chiamo anche se non ti conosco,sei molto bravo scrivere,non abbatterti se ai tuoi scritti non ci sono commenti,sei sempre bravo ad esprimerti,
RispondiEliminaNon preoccuparti Gianni, non stai scrivendo solo per te, ma molte persone ti apprezzano compreso il sottoscritto. Un complimento sincero a te e Carla.
RispondiEliminaBravo Gianni, continua, non lasciarti impressionare dal numero dei commenti, complimenti
RispondiEliminaGrazie Giorgio, ma guarda che non mi riferivo certo ai commenti sai, piuttosto a quella che il Don ha efficacemente definito "letargia" della Valle, ma che sembra sempre di più uno stato di pre-coma.
EliminaSai Gianni io adoro tutti i tuoi scritti ma difficilmente faccio commenti perchè non sono in grado di farli (mi limito ad imparare) e mi sembra banale dire che sono belli e mi sono piaciuti. Direi che li dovresti pubblicare in un bel libro alternati a tutti quelli tuoi sui passaggi storici e quelli della Carla sulle famiglie, i libri resistono nel tempo anche in caso di BlackOut. Comunque ho anche io la mia famigliola di rospetti nel cortile sotto la legna:madre padre e 3 piccolini. Floriana
RispondiEliminaSempre delicata e gentile, Floriana, e vale quanto detto sopra a Giorgio. Vedi, il tuo rospetto ha tre vispi crotele attorno, il mio purtroppo è solo soletto e si sarà incrotìo anche per disperazione. Altri ambienti, altre prospettive. C'est la vie!
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