lunedì 23 gennaio 2023

El buci



[Gianni Spagnolo © 23115]

Nei tempi antichi, co se copàva i piòci coi pichi, la nascita di un vitellino, meglio ancora, di una vitellina, era motivo di gioia e segno beneaugurale. La stalla era in fioritura e su quel buci si proiettavano le speranze della famiglia. Speranze che non si limitavano alla specie bovina, ma anche a quella caprina, assai diffusa. Quasi come avveniva per la nascita di un figlio, tutto il parentado ne usciva rafforzato. Finalmente cessavano tutte le preoccupazioni che qualcosa potesse andare storto. Il parto della vacca segnava la conclusione di una lunga attesa: nove mesi dal concepimento, come avviene per la donna. Di norma le vacche venivano portate al toro nel periodo tardo autunnale e invernale, programmando quindi il parto tra la fine dell’estate e il primo autunno. Allora le bestie erano ancora al pascolo, o da poco rientrate nella stalla, quindi sciolte e allenate ai movimenti, e le condizioni climatiche favorevoli. Il nuovo fieno era ormai tuto rancurà intela téda e ci si poteva dedicare di più alla gestione delle mucche, che nel periodo invernale entravano nella fase della piena lattazione. Le capre, invece, hanno una gestazione sui cinque mesi e partorivano generalmente in primavera. Le famiglie che non possedevano bovini, allevavano almeno un capra, che forniva il latte necessario ai consumi di casa e aiutava con la vendita dei capretti il sostentamento della famiglia.

Se l’inseminazione, allora rigorosamente naturale, era per lo più sottratta alla perspicacia di noi bocète, la nascita dei buci era uno dei tanti eventi che costellavano la nostra agenda annuale. Girare per le stalle a vedere i nuovi arrivati era un appuntamento atteso e imperdibile per noi. Anche la fase del parto ci era normalmente preclusa, un po’ perché capitava quando capitava e poi anche per la crudezza intrinseca dell’evento. Occorreva la forza nella stalla e gli uomini, preavvisati, accorrevano. Verificavano innanzitutto la posizione del nascituro, raggiungendo con il braccio, cosparso di olio, l’interno della vacca, attraverso il canale uterino. Una volta accertata la posizione corretta di uscita del vitellino, disposto con le zampe e il muso davanti, si cercava di favorire il parto. L’obiettivo prevalente era quello di far nascere il buci il prima possibile, per cui gli si legavano le zampe che sporgevano,  con un sogàto munito all’estremità di un traverso di legno per favorire la presa. Nei parti più difficili, di una primipara ad esempio, oppure quando il nascituro si presentava particolarmente grosso, poteva essere necessario l’intervento anche di due o tre uomini, per tirar fuori il nascituro. Guai se il buci si presentava in posizione podalica; allora sorgevano problemi a volte insormontabili, che potevano portare anche alla morte dell’animale. Andava decisamente meglio con le capre, che si arrangiavano da sole.

Ma torniamo a noi, bociasse ammaliati dagli occhioni grandi e umidi di quei vitellini, che zampettavano instabili e col pelo arruffato in un angolino della stalla. Ancor più teneri i capretti, molto più minuti e vispi e assai più carini del loro padre, el béco, che di carino non aveva proprio niente e in più el jera béco! 

Peraltro, tutti i cuccioli degli animali domestici ci attraevano: buci, cavrìti, conejìti, puldìni, ecc. Immancabile, quindi, il giro delle stalle per dare il benvenuto ai nuovi nati.  Io poi godevo di una privilegio particolare, quello di accompagnare Toni Nicola nelle sue ronde per le stalle di tutta la Valle e delle montagne vicine. Toni commerciava in bestiame e girava i paesi a comprare le bestie per la sua macelleria. Io avevo così modo di vedere bestie e stalle diverse, anche se sapevo il destino di molti quei di poveri animali. Ma così era la vita, aveva una sua tradizionale logica in cui eravamo tutti immersi e partecipi. Mi pesava andare a prendere i capretti per Pasqua, quello sì! Erano troppo belli, vispi e saltellanti per pensarli come cibo, ma tant’è. Ho un ricordo indelebile dell’attraversamento della traballante passerella del Talchino, el majaro del Casòto. La percorsi portando in braccio un bel capretto scalpitante, che aveva sicuramente meno paura di me che su quel ponte  malfermo avevo il terrore di avventurarmi.



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