Il 17 gennaio,
ricorrenza di Sant'Antonio Abate
è un giorno particolare:
per una singolare concessione celeste
oggi
agli animali domestici
è consentito di parlare.
Si, proprio così!
Sarà per questo che un tempo quel giorno era meglio girare al largo dalle stalle, dopo averle fatte benedire dal prete; sentir parlare le bestie era infatti ritenuto segno di malaugurio. Era la festa del Santo Patrono delle creature che vivevano con l'uomo: Sant'Antonio dal mastcéto, o del porselo, a seconda delle zone, o più brevemente San Bovo; era l'unico Santo ammesso nelle stalle, il sovrintendente del mondo animale.
La cosa strana è che l'Antonio Abate non era propriamente affine a questi ambienti; visse infatti una lunga vita di segregazione e preghiera nel deserto egiziano nei primi secoli del cristianesimo, divenendo l’archetipo del monachesimo.
Il patronato animale gli venne attribuito nel medioevo in seguito alla circostanza che a lui s’ispirò una congregazione di monaci, gli Antoniani appunto, dediti all’assistenza ospedaliera e che avevano il permesso di allevare i maiali all’interno delle città, dove vagavano bradi con una campanella al collo. La ragione di questa consuetudine era che dal loro grasso i monaci ricavavano gli unguenti per curare il "Fuoco di Sant’Antonio", che oggi conosciamo come ergotismo o come una delle forme dell’herpes zoster.
Questa dolorosa patologia dovette essere un tempo piuttosto frequente, perché provocata da un fungo parassita dell’erba, con la quale tutti erano a contatto, vuoi anche perché colpiva con maggiore virulenza gli organismi debilitati, cosa anch’essa non certo insolita. Ecco allora che la fantasia popolare si è ricavata la particolare rappresentazione del Santo, un anziano monaco col pastorale in mano, con ai piedi l’immancabile maialino e il fuoco e attorno altri animali domestici.
Questa colorata raffigurazione in cartoncino, fu uno dei cavalli di battaglia della famosa ditta di stampatori Remondini di Bassano e venne diffusa in tutto il continente dai “cromer” tesini con la “cassela” in spalla. L’immagine era di immediata efficacia e tale da attirare la curiosità dei bambini, come il cane di San Rocco della statua sopra il confessionale in chiesa. Si riconoscevano gli animali familiari: oltre all'immancabile maiale, c’era la mucca, il cavallo, il mulo, la pecora e a volte altri animali minuti da cortile come galline, oche, cani e conigli. Veniva appeso sopra la porta della stalla e col tempo si alterava per l’umidità, arricciandosi, scolorendosi e coprendosi di ragnatele, divenendo un tutt’uno con la parete.
In tempi in cui agli animali, forse più che ai cristiani, era legata la sopravvivenza della famiglia, avere un protettore a cui ricorrere per le relative necessità era cosa assai consolante. In occasioni di malattie, parti difficili, sterilità e morìe, a quella icona si rivolgevano gli sguardi supplici del capofamiglia affinché fosse esaudita la sua prece e ristabilito l’ordine delle cose.
In questo freddo giorno di gennaio, in cui le giornate guadagnavano un’ora di luce (A Nadàle on passo de gàlo, da Sant’Antonio on passo del demònio), il prete e i chierichetti erano di corvée in giro per le famiglie a benedire le bestie ed i loro ricoveri e, dato che la benedissiòn passa séte muri, arrivavano a beneficiarne anche i cristiani che già si preparavano al prossimo risveglio della natura.
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