martedì 28 luglio 2020

Orgoglio e pregiudizio


Gianni Spagnolo © 200724
Non sono mai stato fanatico di calcio; neanche un po'. Mi ritengo un italiano anomalo, anche per la mia allergia ad altri caratteri nazionali che ci vengono pregiudizialmente affibbiati. Da emigrante genetico, posso dire di aver raramente avvertito orgoglio per il mio passaporto. E lo dico con amarezza. Sono fiero del mio retaggio, questo sì, ma ciò a prescindere dagli esiti risorgimentali.
Quella fatidica sera che l’Itala diventò campione del mondo battendo la Germania 3-1, ero montato di capoposto in una caserma del Settimo, perché pareva fossi l’unico a non essere invasato dall’evento. I personaggi con qualche stella o striscia, s’erano dileguati per assistere comodamente alla finale in altri luoghi. Quelli restanti, cioè la truppa burbante e i nonnetti che non erano riusciti neanche a rimediare una 36h, erano assiepati allo spaccio o dovunque ci fosse un televisore. Al servizio di picchetto furono perciò assegnati i soggetti più sfigati del battaglione e non c’era da stare per niente sereni; si montava ancora col colpo in canna per le disposizioni antiterrorismo degli anni di piombo.
Ogni giorno portavo la mia squadra all’adunata a passo di corsa, scattando sugli attenti impettiti al gracchiante richiamo dell’Inno di Mameli. Lì ne sentivo di ogni, fra imprecazioni, maledizioni e commenti irriferibili. Vero è che la naja sembrava una competizione continua a chi faceva meno, pur nell'indomito Corpo degli Alpini. Per dei ragazzoni assonnati reduci dall’odiata “reazione fisica”, correre all'adunata di buon'ora ad  omaggiare la bandiera che s'innalzava lenta al suono stentoreo del patrio inno, non era certo il massimo. Ma in fondo erano gli stessi sessantenni di oggi che, armati di cappello vistosamente addobbato, tutti impettiti e con una improbabile pancia in dentro, si commuovono fieri all’alzabandiera del monumento dei Caduti e in ogni altra patria ricorrenza. Vabbè, bisogna essere anche un po' indulgenti: si sa che alla sera siamo tutti leoni.
Ma non divaghiamo e torniamo alla fatidica finale.
L’Italia vince il suo terzo Mondiale battendo lo storico ed arcigno avversario, che tanto insidiò i petti dei baldi alpini nei conflitti del Novecento. Così la truppa prorompe in piazza d’armi fra grida, abbracci, schiamazzi e incontenibili espressioni di giubilo. Bisogna festeggiare! Giustamente ed adeguatamente!
Ecco che, di colpo, s’era dissolto il fatidico dubbio di Massimo d’Azeglio sul fatto che, fatta l’Italia, occorresse fare gli Italiani.
Gli Italiani c’erano, eccome se c’erano! Erano lì belli fatti e volevano gagliardamente onorare la propria bandiera al suono glorioso del mamelico Inno introdotto dall'insulsa marcetta reale; in un’apoteosi d'orgoglio e tripudio nazionale. Scatta perciò immediatamente la caccia spasmodica a qualche stella, striscia, o finanche baffo che autorizzi l’alzabandiera fuori ordinanza, metta su il disco e illumini a giorno il piazzale, consentendo a quegli Italiani di onorare con prorompente e insopprimibile orgoglio i simboli nazionali. Peccato che erano tutti impegnati a festeggiare altrove; perciò quel salame calcisticamente ateo, che era di capoposto, rimaneva di fatto l'unica autorità di presidio. Ma costui si rifiutò ostinatamente di aderire alle richieste, nonostante le accuse di oltraggio alla nazione, omissione di patriottismo, intesa col nemico e altre amenità, rischiando il linciaggio a furor di truppa. Non è che a me dispiacesse il risultato, per carità, solo che non migliorava di nulla la mia scala di valori. E poi, le consegne son consegne!
Memore di questi giovanili eventi, assisto con fastidio ai rigurgiti di patriottismo sbandierato che periodicamente emergono, associati a fenomeni effimeri e spesso travisati. Tra questi le manifestazioni di “orgoglio italiano” sortite dall’emergenza Covid-19. Con il confinamento, dopo i coretti e le scritte "Andrà tutto bene", sui balconi sono apparse le bandiere italiane ed è partita la fanfara mediatica sui social. Oggi, a distanza di qualche mese di assolata estate e con quelle bandiere scolorite, sgualcite, sporche e stracciate dal sole e dal vento, varrebbe la pena di chiedersi che concetto abbiamo della bandiera nazionale. Cioè se sia un simbolo, da esporre e curare col dovuto rispetto, oppure uno straccio da esibire per seguire la moda del momento e poi dimenticarlo appeso come una pezza da piedi. 
Alcuni hanno inteso l’esposizione dell'italico vessillo come l’unione della nazione nella lotta contro il virus; anche se fatico a capire dove starebbe la bravura del chiudersi in casa. Altri la vedevano  una rivendicazione d’orgoglio nazionale, pur non ricordando in vita mia momenti nei quali l’Italia sia stata più umiliata e bistrattata, all’estero e qui da noi, come negli ultimi mesi. Mi chiedo da quando, accettare passivamente di tutto, sia diventato motivo d’orgoglio anziché di vergogna. Intanto, più i nostri soci europei ci isolavano e disprezzavano, tanto più si moltiplicavano i video che mostravano l’orgoglio di essere italiani. E su questi val la pena di riflettere un po'.
C'era chi insisteva sulla varietà delle prelibatezze italiane, contrapposta alla supposta pochezza di quelle più boreali. Va bene: il cibo è cultura, storia, geografia. La nostra cucina è apprezzata per varietà, qualità e fantasia, ma non è un po’ riduttivo rispondere al disprezzo dei nostri amici europei con i soliti stereotipi "spaghetti, pizza e mandolino"? L’Italia non può vantare altri contributi alla cultura mondiale?
Infatti ci sono altri video che mostrano, come fonte di vanto nazionale, l’antichissima e ricchissima storia della nostra penisola, le cento città con i loro campanili, i monumenti e i paesaggi; ricordano il diritto, la pittura, la musica, la moda… Beh, sembra ragionevole ricordare con fierezza tutte le cose belle e importanti che l’Italia ha dato al mondo. Tuttavia questo, più che suscitare in me l’orgoglio d’essere italiano, fa tristezza e vergogna. Mi spiego: tutta la trafila di monumenti e opere d’arte sbandierati, che attirano da noi milioni di turisti ogni anno, sono testimonianza della grandezza dell’Italia… di un tempo. 
Tutto quello che mostriamo con compiacimento al mondo è frutto dell’ingegno, dell’amore e del lavoro degli italiani morti e sepolti da secoli. Certo, fino al Cinquecento l’Italia era un faro nel mondo; magari fino alla fine del Settecento, valà. Ma poi? C’è qualcosa, dall’Ottocento in avanti, che varrebbe il viaggio?
Anche il meglio della cucina italiana vive di tradizione e territorio, cioè del passato. E poi, siamo davvero convinti che in Italia si mangi così divinamente? In casa e in famiglia, intendo, dato quello che si vede in giro e l'omologazione dei gusti al costante ribasso.
Lasciando a parte le sette arti e anche quella culinaria, qualcuno dirà che l'industria e la moda italiana hanno tenuto alta la bandiera nazionale anche nel Novecento! Vero, benissimo, ma ora? Siamo ancora in grado di esprimere eccellenze a livello mondiale? Sorvoliamo sugli incredibili nostri paesaggi naturali, che non abbiamo certo creato noi, ma semmai sono stati modellati dalle generazioni passate. Quelle presenti invece, più che a modellare sembrano intente a devastare.
Ma arriviamo al punto. L’eredità va, in qualche modo, meritata. Non ha senso gloriarsi di ciò che hanno fatto i nostri avi, se noi non siamo in grado di fare altrettanto e magari meglio. Il merito va a loro, non certo a noi. A noi spetta, piuttosto, la vergogna di aver sprecato un patrimonio culturale immenso, di averlo lasciato inaridire, di averlo disperso. È pur vero che l’eccellenza non s'improvvisa; è necessariamente frutto di generazioni di passione, studio, intuizioni e duro lavoro. Ma è proprio per questo che è un frutto delicato: non nasce spontaneamente, ha bisogno di continue cure e attenzioni. Non basta ereditare: bisogna mantenere e alimentare l’eredità che abbiamo ricevuto. Altrimenti si disperde e si dissipa.
Questo processo (eredità, conservazione, consegna), ha un nome che abbiamo purtroppo imparato a disprezzare: si chiama "tradizione". La modernità disprezza la tradizione, per questo non riesce a produrre frutti paragonabili a quelli del passato: ha deciso di non nutrirsene. Abbiamo spezzato la buona tradizione che ci legava a quell’Italia della quale andiamo così fieri. Certo, si parla di conservare e tramandare il meglio, ben consci che non tutto ciò che richiama la tradizione è automaticamente degno. Anche mafia, camorra, e tante esecrabili abitudini sono purtroppo diventate tradizionali. 
E dunque mi chiedo: che motivo d’orgoglio c’è in tutto questo?


4 commenti:

  1. Condivido ogni osservazione in pieno Gianni, siamo ormai un popolo senza identità visto che quello che di veramente bello è stato costruito secoli fa…e il marcio c'è sempre.... Povera Patria, diceva Battiato..

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  2. Noi Italiani tendiamo sempre a considerarci inferiori agli altri. Credo sia una tara genetica che dura da sempre. Sarà che l'unica volta che ci siam sentiti una razza superiore è andata parecchio male...
    Comunque invece di far domande io andrei a cercarle ste risposte ovvero:
    1)Visti i continui sbarchi direi che rispetto a una buona parte del mondo siamo in una situazione più felice
    2)Visti i milioni di turisti che vengono vuol dire che a parte natura e monumenti ci sappiamo fare( nella costa romagnola ad esempio non credo che vengano per visitar rovine)
    3)Abbiamo aziende d'eccellenza che magari fan parte di multinazionali di chissà dove ma son composte da personale italiano e non son solo operai.
    4)Abbiamo uomini e donne che eccellono nei vari campi e sono o italiani o discendenti di italiani. Nel primo caso la prima formazione è stata fatta qui...nel secondo caso è il dna.
    Insomma tralasciando pizza e mandolino io non considererei il popolo italiano così male. Abbiamo i nostri pregi e difetti un pò come gli altri.Nè più nè meno.
    P.S. Creo che la scritta "andrà tutto bene" porti sfiga e mi son rifiutato di metterla però quando abbiamo battuto i tedeschi ho goduto come un riccio e che sia male o bene non mi interessa nulla. Io me la godo! Diego Z.

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    1. Chi si accontenta, gode sempre, caro Diego.

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    2. Veramente godo per quella piccola sensazione di rivalsa sui tedeschi.
      E poi chi troppo vuole nulla stringe e soprattutto non è mai contento.
      Dico solo che guardar al bicchiere mezzo (o 3/4) vuoto ti fa solo pensar che non si possa far niente di buono. Guardare il bicchiere mezzo (o 1/4) pieno da fiducia e voglia di far bene di migliorarsi anzichè limitarsi a confermare ciò che va male. Ah io quella notte avrei violato le consegne. Una notte come quella val bene un mese a Gaeta!

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